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Sanità

Non cercano il tasso di reinfezioni. Perché?

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Leggendo i vari report sanitari che da due anni vengono aggiornati quotidianamente da tutti i Paesi Occidentali, balza all’occhio una lacuna enorme. Questi report infatti non raccolgono il numero di ricontagi.

 

Le autorità sanitarie catalogano i casi COVID sotto molti parametri (età, genere, regioni geografiche, etc.) e la raccolta dati è stata ulteriormente aggiornata introducendo nuovi parametri monitoriati: ad esempio, avrete fatto caso che da dicembre 2021 – per argomentare l’utilità della terza dose – i report inglesi e italiani hanno introdotto lo screening di parametri nuovi come il conteggio dei casi positivi distinti tra persone vaccinate da più di 120 giorni e meno di 120 giorni.

 

Possiamo immaginare che questa raccolta dati sia stata aggiornata semplicemente facendo una domanda ai pazienti (o cercando banalmente nella rispettiva cartella clinica): quando il paziente aveva fatto l’ultima dose di vaccino? Più o meno di 120 giorni dal momento in cui è stato trovato positivo?

 

Però, facendo un po’ di storia delle gestione pandemica, balza all’occhio una lacuna incredibile: nessuno ha mai cercato se e quanto tempo prima un paziente fosse giù risultato positivo. Cioè, nessuno ha mai cercato qual è la possibilità di ricontagiarsi dal COVID.

 

Questo è ciò che permetterebbe di capire la copertura immunitaria acquisita naturalmente da infezione COVID e confrontarla con quella acquisita tramite le vaccinazioni disponibili.

 

Provate a fare questa domanda al ministero della Salute: un soggetto non vaccinato che ha avuto l’infezione può reinfettarsi e quando? Tale soggetto mai vaccinato e infettato può poi reinfettarsi più facilmente rispetto a un soggetto vaccinato che ha comunque avuto l’infezione?

 

Non è possibile rispondere, perché incredibilmente nessuna autorità sanitaria sta ricercando questo banale (e doveroso) parametro, per cui vi sono solo supposizioni basate su qualche screening a posteriori, i cui numeri non sono però divulgati né accertabili.

 

Troviamo da mesi opinioni discordanti a riguardo, espresse da qualche virostar sui giornali, senza che vi siano alle spalle dati strutturati, nemmeno si trattasse del campionato di fantacalcio.

 

Eppure i dati da studiare già esisterebbero: esistendo la banca dati su cui si fonda il green pass, sarebbe sufficiente estrarre i dati in modo anonimo e verificare quanti e quali pazienti hanno avuto più casi di reinfezione. Sarebbe un lavoro di Big Data che richiederebbe qualche ora coi moderni database in uso dalle autorità sanitarie. Quindi, virtualmente dato già esiste, ma nessuno lo estrae dai database del sistema sanitario.

Ora, non serve scomodare Conan Doyle, per dedurre che se questi dati portassero acqua al mulino della vaccinazioni del Ministero della Salute, li avremmo già visti raccolti e pubblicati. Ma così non è.

 

Esattamente come abbiamo visto introdotto il parametro «vaccinato da più di 120 giorni» a dicembre 2021 per convincere le persone a farsi il booster. È altresì probabile che proprio tale parametro verrà tolto dai report qualora si scoprisse che anche la dose booster decade dopo 120 giorni.

 

Cosa che sembra ormai di dominio pubblico se ne parla pure il Corriere del 27 marzo:

 

«Quanto dura la protezione della terza dose di vaccino? Si tende a pensare che la durata sia di almeno quattro mesi, ma il tempo varia da individuo a individuo in quanto la risposta allo stimolo vaccinale è molto soggettiva».

 

Il fatto, dunque, che il tasso di reinfezioni non sia mai stato pubblicato – nonostante sarebbe già raccolto e potenzialmente processabile come spiegato sopra – lascia dedurre che il regime sanitario troverebbe in esso un argomento sfavorevole alle direttive dell’autorità.

 

Di quale argomenti si potrebbe trattare?

 

Le ipotesi si stringono a due:

 

1) potrebbe emergere che la percentuale di persone non vaccinate o vaccinate che contrae infezione sviluppa una protezione naturale molto duratura. E siccome le persone che hanno avuto il COVID sono stimate a circa il 30 % della popolazione totale, questo toglierebbe argomenti per obbligare ai richiami il 30% della popolazione. Dunque, se ci svelassero che un contagiato è altamente coperto da reinfezione per 12 mesi, avremmo un argomento scientifico facile per rifiutare la vaccinazione per i prossimi 12 mesi.

 

Più il governo ti rivela che un guarito è coperto, più si abbassa lo stato di emergenza sanitaria. Fino a diventare endemia, cioè un virus col quale si convive, come tanti.

 

Ecco che allora il governo sanitario non deve renderlo noto e deve far credere di essere sempre altamente esposti al pericolo di ricontagio.

 

2) oppure potrebbe emergere qualcosa di ancora più sfavorevole al regime sanitario vaccinista: si potrebbe scoprire che una persona mai vaccinata e contagiata sviluppa una difesa contro la reinfezione superiore a quella di un soggetto vaccinato e infettato.

 

Questo scenario scatenerebbe addirittura una richiesta di risarcimento danni da parte dei soggetti vaccinati, visto che la vaccinazione risulterebbe peggiorativa.

 

Un soggetto non a rischio – prendiamo un ragazzo – direbbe infatti «mi sarebbe allora convenuto fare il COVID piuttosto che sottopormi alle tue 3 dosi di vaccino».

 

L’idea può essere venuta a moltissimi, vista l’aneddotica circolata soprattutto durante l’ultima ondata, quella di inizio inverno: soggetti giovani guariti non contagiati, nonostante contatto pieno con i positivi; soggetti omologhi freschi di booster ammalati.

 

Questo dimostrerebbe che in certi soggetti l’immunità naturale acquisita è potente e duratura.

 

Esistono spiegazioni possibili a questa dinamica? Sì. E per certo alcune sono scientificamente basate.

 

A) I vaccini mRna «addestrano» il sistema immunitario a riconoscere la proteina spike del virus, che tuttavia rappresenta una parte specifica dello stesso. E siccome le vaccinazioni mRna ancora oggi in uso sono state progettate sulla spike della prima versione del COVID del 2020 (la variante Alfa), rimane plausibile che il sistema immunitario non riconosca allo stesso modo varianti che abbiano una proteina spike che si discosta di molto da quella Alfa.

 

La cosa invece non accade se il sistema immunitario ha imparato a riconoscere tutta la superficie del virus (e non solo la spike), cosa che tendenzilmente avviene a seguito di infezione naturale.

 

A questo punto – poiché non cercano questi dati come sopra spiegato – non è chiaro se un soggetto vaccinato che prenda il COVID riesca a sviluppare immunità su tutta la superficie del virus oppure se la vaccinaizone mRna gli precluda questa possibilità. Ciò  sarebbe un fenomeno gravissimo di immunodeficienza acquisita, di cui ci sono alcune recenti prove in laboratorio, e di cui parleremo in un altro articolo dedicato.

 

B) Un team italiano ha svolto uno studio pubblicato da Lancet a dicembre 2021 che avevamo già esposto su Renovatio 21. La vaccinazione mRNA elimina gli anticorpi neutralizzanti dalle mucose orali. Queste sono la prima barriera di contrasto all’infezione.

 

A questo riguardo si osserva che tale fenomeno accertato potrebbe essere peggiorativo anche della salute di soggetti non vaccinati che hanno sviluppato immunità naturale a seguito di infezione: noi siamo portati a credere che con le altre ondate influenzali (con altri coronavirus) il tasso di ricontagio fosse più basso di quello che vediamo oggi.

 

Ma in quei contesti non c’era il 90% della popolazione che aveva perso anticorpi neutralizzanti a seguito di vaccinazione mRNA.

 

Pertanto potremmo aver un numero maggiore di soggetti non vaccinati che sembrano sviluppare immunità naturale meno duratura rispetto alle altre forme influenzali per il semplice fatto che il 90% di popolazione vaccinata li espone a continui ricontagi. Cosa che normalmente non avviene perché il «gregge» aiuta a limitare la circolazione del virus.

 

In altre parole – avendo vaccinato il 90 % della popolazione che rimane poi priva di anticorpi neutralizzanti nelle mucose orali – si verificherebbe quella che potremmo chiamare una anti-immunità di gregge.

 

Cosa che nelle normali epidemie influenzali non avveniva.

 

C) con una normale influenza l’immunità naturale dura pochi mesi perché il sistema immunitario viene stimolato contemporanemente in milioni di soggetti ed in tutti questi la copertura va scemando simultaneamente. Ma che cosa accade se la diffusione del contagio viene dilazionata attraverso misure di contenimento (lockdown, isolamenti, mascherine e tamponi)?

 

Accade che un soggetto si troverà mediamente esposto a continui contatti col virus che ne stimoleranno continuamente la risposta immunitaria.

 

Dunque, un ragazzo che fosse guarito dal COVID – frequentando in seguito la scuola che mantiene misure di contenimento – potrebbe avere una risposta immunitaria al massimo grado per molti mesi: appunto perché i suoi compagni di classe non si ammalano tutti contemporanemante a lui, ma pochi alla volta. Si tratta di fatto di continui booster naturali per un soggetto già guarito. Dopo un certo arco di tempo tutta la classe dovrebbe trovarsi ad essere iper protetta e la circolazione sarebbe soffocata, essendo composta da soggetti guariti e ampiamente «boosterati» tra di loro.

 

Questo però non sta avvenendo, nonostante il tasso dei contagi sia sempre molto alto. Dunque, non dipende dal fatto che le misure di contenimento funzionino troppo efficacemente, bensì dipende necessariamente dal fatto che qualcuno non riesce mai ad acquisire immunità naturale rispetto al virus: cioè continua a contagiarsi e a ricontagiare.

 

Quanti sono? Domandiamo, non è che sono in maggioranza i soggetti vaccinati a presentare questo inconveniente?

 

Non lo sappiamo, perché nessuno cerca questo parametro.

 

Ma dovremmo cercarlo, perché se fossero i soggetti vaccinati a presentare questo inconveniente, significherebbe che proprio la campagna vaccinale prolungherà la circolazione del COVID all’infinito.

 

In conclusione, senza che le autorità sanitarie si degnino di pubblicare i dati sui ricontagi, tutte le questioni sopra indicate rimarranno indeterminate. È  questo che vogliono?

 

Lo stesso dicasi della questione legata alla «velocità di diffusione» delle nuove varianti. Quando sentiamo dire che le nuove varianti si sono diffuse perché sono più veloci a diffondersi, potremmo essere in presenza di una confusione logica tra effetto e causa.

 

Ad esempio, per ipotesi, il fatto che la variante Omicron si diffonda più velocemente della variante Delta potrebbe essere semplicemente l’effetto di un indebolimento collettivo del sistema immunitario causato dalla vaccinazione, e non la causa della minore performance del sistema immunitario rispetto alla variante. Cioè, significherebbe che, se nessuno si fosse vaccinato, la velocità di diffusione della variante Omicron sarebbe rimasta e percepita analoga a quella della Delta.

 

Esiste una prova di questa ipotesi?

 

Certamente esiste e l’abbiamo dimostrata su Renovatio 21 coi numeri dei report inglesi: dopo alcune settimane i vaccinati hanno un tasso di contagio che è il doppio rispetto ai non vaccinati.

 

Il che spiega come – visto dall’esterno – sembra che complessivamente la variante Omicron abbia una velocità di diffusine più elevata. In realtà non è la variante ad avere intrinscamente una maggiore velocità di diffusione, bensì la maggiore velocità di diffusione dipende dal fatto che essa trovi la strada spianata in una popolazione vaccinata al 90%.

 

Il sospetto è che nessun governo mai pubblicherà i dati sui ricontagi divisi per cluster (mai vaccinati, vaccinati doppia dose e vaccinati tripla dosi) perché questi argomenti diventerebbero autoevidenti. E i cittadini chiederebbero i danni o rigetterebbero ulteriori obblighi vaccinali.

 

A maggior ragione invece – se i dati sui ricontagi supportassero le campagne vaccinali – perché i governi non li hanno ancora pubblicati? Sarebbe così facile.

 

 

Gian Battista Airaghi

 

 

 

 

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Sanità

Un nuovo sindacato per le prossime pandemie. Intervista al segretario di Di.Co.Si

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Tra le tante cose portateci dalla pandemia, ce ne è una di abbastanza clamorosa: la creazione di un nuovo sindacato, che ha già un migliaio di iscritti ed è in crescita costante. Legato al gruppo ContiamoCi! – che ha ottenuto successi non indifferenti in certe elezioni comunali, lasciando sbalorditi i professionisti dei partiti tradizionali – il sindacato Di.Co.Si terrà questo sabato18 ottobre una grande manifestazione a Roma in piazza Santi Apostoli alle ore 15.

 

Renovatio 21 intervista il dottor Dario Giacomini, radiologo e presidente del sindacato Di.Co.Si, nonché suo fondatore.

 

Dottor Giacomini, perché un nuovo sindacato?

Perché non ci sono più i sindacati nel vero senso del termine. I sindacati hanno abdicato al ruolo di difesa del mondo del lavoro. Un lavoro che era espressione delle capacità e dell’intelletto umano, e che ora è fagocitato dalla finanza e dall’automazione, con il lavoratore che tende a scomparire. Se ieri il sindacato esisteva per proteggere l’uomo dallo sfruttamento, ora bisogna aiutare l’uomo a lavorare, perché il lavoro è la forma più alta di realizzazione umana. Oggi la tendenza non è quella di tutelare il lavoratore, ma quella di rendere l’uomo uno schiavo.

 

Non si tratta più di sedersi ad un tavolo per discutere di salari e fringe-benefits. Si tratta di una battaglia più grande, la guerra dei mondi tra la tecnocrazia, e i capitali dietro ad essa, e l’essere umano. Per il capitalismo terminale è più semplice avere a che fare con una massa di automi. Ecco perché sindacato serve più oggi che trenta anni fa.

 

Chi è oggi il tuo datore di lavoro? È difficile dirlo. Non c’è più solo l’Agnelli di turno, ci sono megagruppi finanziari senza volto, con cui interagire è arduo. Sul mondo del lavoro si gioca la libertà delle persone. C’è la volontà chiara di avere un popolo di schiavi. Togli il lavoro, togli la dignità delle persone.

 

La Triplice non ha nessuna forza innovatrice, di contrasto alle direttrici economiche globali. Sono degli asserviti, vanno in piazza solo per rabbonirsi i lavoratori. Quando c’era bisogno che intervenissero per difendere il mondo del lavoro non lo hanno mai fatto – come in pandemia, quando questo è diventato assolutamente evidente.

 

C’è bisogno di un nuovo sindacato perché tanti sentono il bisogno di non delegare più. Molti stanno riscoprendo lo spirito di classe: siamo lavoratori e dobbiamo metterci fisicamente contro le ingiustizie, come è successo durante il COVID. Ricordiamo: licenziavano il collega, e non potevamo fare niente. Questo non deve ripetersi.

 

Il sindacato è lotta, lotta per i propri diritti. Di.Co.Si ContiamoCi! è il nome per esteso del sindacato: Diritti Costituzionali Sindacato ContiamoCi!

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Il sindacato è nato da ContiamoCi?

Sì. ContiamoCi! è un’associazione nata a giugno 2021 a seguito dell’obbligo vaccinale per i sanitari, allargandosi poi a tutte le categorie. Il simbolo sono quattro braccia che si sorreggono in uno scudo: tutti sono indispensabili, nessuno viene lasciato indietro. Ognuno ha la propria dignità: che non dipende dal successo, ma dalla vita di ciascuno. Il medico non è migliore dell’operatore sociosanitario, e lo abbiamo visto negli ultimi anni.

 

L’idea era anche quella di difendere la scienza medica. Nel nostro motto è detto che la libertà è scelta, la libertà è ricerca, la libertà è responsabilità. Vogliamo tutelare non una libertà anarchica, ma una libertà del dovere, della responsabilità.

 

ContiamoCi! non è nata esattamente come un’associazione di scopo. Le associazioni di solito hanno obbiettivi più definiti, noi abbiamo solo l’idea di riprenderci lo spazio che ci è stato sottratto in questi anni: nell’economia, nella Salute, nella scuola, nel lavoro, nella difesa dei minori. Abbiamo creato un’architettura programmatica e una base organizzativa per poterlo fare.

 

Crediamo che è solo con la partecipazione attiva, nella sfera pubblica, che possiamo tutelare la vita privata. ContiamoCi! vuole porre la lente sulla polis, sulla res publica, lo spazio che ci è stato portato via. Per farlo bisogna fare una battaglia.

 

Quando è nata l’idea di fare un sindacato?

L’idea è nata tra settembre e ottobre 2021 quando mi sono reso conto che pandemia e vaccini erano un attacco al lavoro. Ho pensato che la pandemia vera che doveva venire era la pandemia del lavoro. Intelligenza Artificiale, Robotica, umanoidi: per la prima volta la produzione avviene senza l’essere umano, ridotto a consumatore, lo avevamo capito subito, lo abbiamo profetizzato, ed eccoci qui.

 

La digitalizzazione può distruggere il mondo del lavoro rendendolo transnazionale. Con la telemedicina, ad esempio, posso assumere medici in qualsiasi parte del mondo, senza nemmeno farli spostare da casa. Nessuna contrattazione di categoria è più possibile. Diventiamo pezzi di carta intercambiabili. La pandemia è servita a questo: ha forzato il passaggio da un mondo analogico ad un mondo digitale, con la sparizione di classi intere di figure professionali. Se mancano i medici in alcuni aree, ti dicono che ci mettono i sensori, la consulenza remota di qualcuno che ti controlla

 

Siamo all’inizio di questa trasformazione, ma per i giovani è più facile, perché si interfacciano già alla realtà con strumenti digitali.

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Chi si iscrive a Di.Co.Si?

Nella gran parte sono sanitari, ma anche nel mondo della scuola. Sicuramente chi ha subito l’ingiustizia di questi anni, come il greenpass. Si avvicinano a noi quanti vedono che non ci siamo piegati alle minacce di quegli anni, e mettiamo davanti, come un vero sindacato, non interessi personali ma collettivi. Il nostro sindacato promette lotta e sofferenza e non avanzamenti di carriera e lauti stipendi. Nel nostro sindacato non c’è un sindacalista di professione: siamo tutti lavoratori che vogliono tutelare se stessi e gli altri lavoratori.

 

Quanti sono ad oggi gli iscritti?

Stiamo arrivando al migliaio, ma tra tante categorie professionali.

 

Che servizi offre?

Servizi assicurativi, di CAF, patronato, formazione professionale, consulenza legale. E il servizio più grande, quello culturale: ridare consapevolezza al lavoratore del suo valore, del suo ruolo indispensabile, per far sì che non vi siano prevaricazioni da parte del datore di lavoro e dello Stato. Si tratta di ridare una coscienza collettiva al lavoratore.

 

Cosa hanno passato i vostri iscritti durante la pandemia?

Hanno subito la più grande pressione psicologica della storia repubblicana: per la prima volta si è visto uno Stato che perseguitava cittadini onesti, violentati psicologicamente. Lo Stato ti mentiva e ti perseguitava. Una situazione drammatica in cui non potevi fidarti neanche del collega, che poteva essere un delatore o uno che voleva ghettizzarti. La situazione era di stress emotivo estremo, ma non solo. Alcuni, sospesi, hanno sofferto anche la fame. Conosco infermieri che hanno venduto la casa, per dire che la propria dignità non è in vendita. Si tratta di un atto rivoluzionario.

 

Ha patito anche lei gli effetti delle leggi pandemiche?

Assolutamente sì. Io, che dirigevo il reparto di tutte le radiologie dell’Ovest vicentino, ho avuto un demansionamento e mesi di sospensione. Ho avuto delle pressioni molto forti per non proseguire nel mio percorso. Ho subìto la situazione di tanti altri, forse con pressioni maggiori, ma non mi sento diverso da tanti altri lavoratori a cui sono state inflitte le stesse cose. Poi, essendo medico, facile pensare che la mia voce dissenziente poteva mettere in crisi la credibilità del sistema agli occhi dei cittadini.

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Quali vantaggi ha un sindacato rispetto ad altri enti nell’ordinamento italiano?

Un sindacato può parlare a nome dei lavoratori ed è un’istituzione che può parlare con le altre, come riconosciuto dalla Costituzione italiana. In un ordinamento che è ancora democratico, un sindacato è la voce del popolo, del popolo produttivo. Il numero degli iscritti fa la differenza: con un milione di persone in piazza, le politiche dello Stato possono essere cambiate. Lo sciopero può essere usato non per far avanzare ideologie politiche, ma per proteggere il lavoro garantito dalla Costituzione, in una nazione che magari smette di dare lavoro.

 

E la politica? Avete rapporto con qualche figura parlamentare?

Sì, sulle nostre posizioni, negli anni abbiamo incontrato spezzoni dell’attuale maggioranza. Ciò ci dà speranza per il futuro, e speriamo che si possa continuare. Noi però non siamo subalterni alla politica. Possiamo condividere solo se è a vantaggio dei lavoratori, cioè di tutti i cittadini italiani. Vogliamo, possiamo stimolare leggi in questo senso.

 

I sindacati tradizionali hanno cercato di cooptarvi?

Qualche sindacato minore, sì. Perché comunque ragionano ancora per bacini di tessere, numeri di iscritti per raggiungere la soglia per sedersi alla contrattazione nazionale. Noi non vogliamo trafficare pacchetti di tessere e stipendi da delegato sindacale. Per cui non abbiamo avuto interlocuzioni positive con chi ci ha contattato. Certo, non abbiamo sentito la Triplice, che non ha bisogno di noi, e che ci è stata ostile. Ancora oggi quando ci sono le elezioni nelle aziende e negli ospedali lo scontro con chi ha avallato le politiche di Draghi è massimo.

 

Possiamo dire che i sindacati hanno smesso di proteggere i lavoratori? È quello che pensano i vostri iscritti?

Sì. È quello che pensano, perché in larga parte provengono da altri sindacati da cui si sono distanziati. Del resto i loro sindacati erano stati i primi a chiedere che i lavoratori fossero espulsi come «pericolosi». È la prima volta nella storia che un sindacato chiedeva che il lavoro non fosse dato o mantenuto, ma tolto.

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I sindacati hanno smesso di fare cultura, di essere un riferimento non solo amministrativo, ma anche morale, creativo?

I vecchi sindacati vogliono diventare un riferimento politico, non interessa a loro di essere un riferimento culturale. Non ricordo, negli ultimi anni, battaglie che non fossero di tipo politico. Penso alle ultime manifestazioni… Il potere dei vecchi sindacati non è solo politico e amministrativo, ma anche produttivo: controllano l’industria di intere regioni italiane. Sicuramente non fanno cultura, no.

 

Qual è l’obiettivo ultimo di Di.Co.Si?

Rimettere al centro l’uomo, tutta la sua creatività, le sue compentenze. Invece, quello che sta avvenendo è la trasformazione da lavoratore a consumatore. Questo non lo accettiamo. Oggi le persone sono viste solo come numeri, rubricati ad utenti e consumatori, e non più cittadini con i propri diritti.

 

Cosa accadrà alla manifestazione di Roma di sabato?

Ci saranno 59 associazioni e comitati, una quarantina circa di relatori a parlare in Piazza Santi Apostoli dalle 15 alle 19. Non sarà una manifestazione come le tante di questi anni, che chiusa la giornata ognuno è a casa e non succede nulla. Qui abbiamo un progetto, per far convergere chi partecipa, e chi vorrà farlo anche da casa, sui punti programmatici.

 

La base è ampia, dalle forze dell’ordine alla Sanità, alla scuola, i pensionati, gli agricoltori, le partite IVA… cercheremo di trovare una bandiera unitaria, al di là delle tribù. Per parlare con le istituzioni, ci vuole un interlocutore unico: vogliamo costruire a partire da qui.

 

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Sanità

«Momento spartiacque»: Kennedy rifiuta gli obiettivi sanitari delle Nazioni Unite che «ignorano» l’aumento globale delle malattie croniche

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Renovatio 21 traduce questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Gli Stati Uniti hanno respinto la dichiarazione delle Nazioni Unite sulle malattie non trasmissibili, sostenendo che i suoi obiettivi sono deboli e insufficienti. In un discorso tenuto la scorsa settimana all’ONU, il Segretario alla Salute statunitense Robert F. Kennedy Jr. ha avvertito che la dichiarazione ignora il ruolo degli alimenti ultra-processati nell’aumento globale delle malattie croniche e lascia l’industria franca.   La scorsa settimana gli Stati Uniti hanno respinto la dichiarazione politica delle Nazioni Unite (ONU) sulle malattie non trasmissibili, una proposta che non è sufficientemente efficace nel contrastare il «flagello» delle malattie croniche, ha dichiarato giovedì il Segretario alla Salute degli Stati Uniti Robert F. Kennedy Jr. all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.   La dichiarazione non vincolante stabilisce «obiettivi specifici ma modesti per la riduzione delle malattie croniche entro il 2030», ha riportato The Hill.   Gli obiettivi includono la riduzione del consumo di tabacco e del numero di persone affette da ipertensione di 150 milioni a livello globale entro il 2030, l’aumento del numero di persone con accesso all’assistenza sanitaria mentale dello stesso numero e la risposta all’aumento globale di malattie non trasmissibili come cancro, diabete e malattie cardiache.   Kennedy ha definito gli obiettivi insufficienti perché ignorano il contributo degli alimenti ultraprocessati all’aumento globale delle malattie croniche.   «Le malattie croniche sono più che raddoppiate in una sola generazione», ha affermato Kennedy. «Milioni di bambini ora perdono anni di salute prima di raggiungere l’età adulta”, ha aggiunto Kennedy. “Questa crisi non si ferma ai confini dell’America».  

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Kennedy ha affermato che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump «vuole guidare lo sforzo globale contro gli alimenti ultra-processati e le malattie mediche e fisiche a essi associate».   «Chiediamo alla comunità internazionale di unirsi per combattere questo flagello. Siamo pronti a guidare, collaborare e innovare con ogni nazione impegnata per un futuro più sano», ha affermato Kennedy.   Sayer Ji, presidente del Global Wellness Forum e fondatore di GreenMedInfo, ha applaudito la decisione di Kennedy di respingere la dichiarazione, che ha definito un «momento spartiacque nella difesa della sovranità e della verità».   «Questa è stata la mossa giusta, anzi, l’unica che potesse onorare sia la Costituzione che la salute dei cittadini. La dichiarazione è un cavallo di Troia. Non nomina mai i veri colpevoli della crisi globale delle malattie croniche: i cartelli degli alimenti ultra-processati, le industrie chimiche tossiche e le pratiche aziendali predatorie» ha aggiunto.   Kennedy non ha semplicemente respinto una dichiarazione. Ha tracciato un confine di cui il mondo ha disperatamente bisogno: l’ONU può consigliare, ma non dettare. Può coordinare, ma non può costringere. Questa distinzione è la sottile linea tra democrazia e tecnocrazia. Il fatto che un funzionario americano abbia finalmente avuto il coraggio di dirlo – in modo chiaro, inequivocabile, sulla scena mondiale – segna l’inizio di un nuovo capitolo.   Prendere di mira gli alimenti ultra-processati è uno degli elementi chiave del programma Make America Healthy Again (MAHA) di Kennedy, che mira a invertire l’epidemia di malattie croniche.

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La dichiarazione porterebbe a una «gestione oppressiva» da parte degli organismi internazionali

Kennedy ha affermato che, invece di concentrarsi sui rischi che gli alimenti ultra-processati pongono alla salute umana, la dichiarazione delle Nazioni Unite conteneva «disposizioni su tutto, dalle tasse alla gestione oppressiva», ha riportato The Hill.   Secondo Kennedy, queste disposizioni, se promulgate, limiterebbero la sovranità nazionale, dando luogo a una «gestione oppressiva da parte degli organismi internazionali» delle questioni di salute pubblica globale.   Kennedy ha messo in discussione il ruolo delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – un’agenzia delle Nazioni Unite – nella leadership sanitaria globale. «La bozza di dichiarazione non avrebbe dovuto essere inclusa nell’ordine del giorno di oggi».   «L’approccio delle Nazioni Unite è mal indirizzato. Tenta di fare sia troppo poco che troppo. Va oltre il ruolo che spetta alle Nazioni Unite, ignorando i problemi sanitari più urgenti. Ed è per questo che gli Stati Uniti lo respingeranno. L’OMS non potrà rivendicare credibilità o leadership finché non subirà una riforma radicale» ha aggiunto.   Gli Stati Uniti avevano già criticato la dichiarazione proposta. In un promemoria del 18 settembre, la Missione statunitense presso le Nazioni Unite ha affermato che la bozza di dichiarazione «non è stata concordata in anticipo per consenso» e pertanto «non dovrebbe essere sottoposta all’approvazione della riunione ad alto livello».   L’avvocato olandese Meike Terhorst, attiva su questioni di salute e sovranità medica, ha affermato: «la salute dovrebbe essere affrontata a livello nazionale, non a livello di ONU o OMS», ha affermato Terhorst. «Mi oppongo all’acquisizione di maggiori diritti da parte di organismi indipendenti basati su trattati come ONU e OMS, senza alcun sistema di controlli e contrappesi».   Shabnam Palesa Mohamed, direttore esecutivo di Children’s Health Defense Africa e fondatore di Transformative Health Justice, ha sottolineato la necessità di contestare gli sforzi delle Nazioni Unite per ampliare la propria autorità.   «È importante mettere in discussione l’estensione dell’attenzione delle Nazioni Unite oltre il suo mandato ufficiale», ha affermato. «L’allargamento delle missioni, senza la conoscenza e il consenso dell’opinione pubblica, rappresenta una minaccia per la salute, la sovranità nazionale e la cooperazione internazionale».   Secondo la National Public Radio (NPR), Kennedy non fu il solo a mettere in discussione le proposte della dichiarazione.   «Alcuni paesi e sostenitori hanno espresso preoccupazioni riguardo al testo, come il fatto che il documento non tratti delle bevande zuccherate nonostante il ruolo che svolgono nell’aumento dei tassi di obesità infantile», ha riferito NPR.   «La posizione di Kennedy ha aperto la porta ad altri», ha detto Ji. «Molte nazioni, soprattutto nel Sud del mondo, sanno in prima persona quanto queste istituzioni le abbiano deluse. Forse non lo diranno ancora apertamente, ma trarranno conforto dal fatto che l’America abbia tracciato una linea rossa».

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La dichiarazione darebbe il via a «infrastrutture per una biosorveglianza completa»

Scrivendo su Substack, Ji ha affermato che la dichiarazione conteneva diversi «meccanismi progettati per trasferire l’autorità dalle nazioni alle istituzioni globali».   Sarebbe necessario lo sviluppo di quella che Ji ha descritto come una «infrastruttura di sorveglianza digitale». Ha affermato che i paragrafi 61 e 73-74 della dichiarazione propongono una «sorveglianza integrata» con «interoperabilità tra piattaforme sanitarie digitali».   Questa proposta creerebbe «un’infrastruttura per una biosorveglianza completa», ha scritto Ji.   La dichiarazione chiede inoltre ai paesi di «introdurre o aumentare le tasse», anche su prodotti come tabacco e alcol, cosa che Ji ha descritto come una rinuncia alla sovranità fiscale nazionale.   L’appello della dichiarazione a un approccio che coinvolga «l’intera società» minerebbe ulteriormente la sovranità nazionale, creando strutture di «governance parallela» in cui organizzazioni non governative, aziende e altre organizzazioni internazionali «plasmano la politica nazionale senza mandato democratico, aggirando la responsabilità dei cittadini», ha scritto Ji.   Secondo Ji, Kennedy non ha avuto altra scelta che rifiutare la dichiarazione.    «Le implicazioni vanno ben oltre la politica sanitaria. La posizione di Kennedy segnala che l’America non subordinerà più la sua Costituzione, i suoi processi democratici o i diritti dei suoi cittadini a organismi internazionali non eletti, indipendentemente dal linguaggio umanitario utilizzato per giustificare tale subordinazione» ha scritto.   La dichiarazione “introduce di nascosto mandati di sorveglianza generalizzata, controlli fiscali e schemi di ingegneria comportamentale che concentrano il potere in mani non elette, fingendo di ‘salvare vite'”, ha detto Ji a The Defender.

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Il rifiuto della dichiarazione da parte degli Stati Uniti impone il voto all’Assemblea generale

Il rifiuto della dichiarazione proposta da parte degli Stati Uniti significa che, invece di essere approvata per consenso, ovvero senza votazione, la proposta dovrà essere sottoposta a votazione dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.   Secondo Health Policy Watch, questa votazione si terrà «molto probabilmente» il mese prossimo. Il Guardian ha riportato che la dichiarazione dovrebbe essere concordata «nelle prossime settimane», nonostante il rifiuto degli Stati Uniti.   In alcune dichiarazioni citate da NPR, la presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite Annalena Baerbock, che ha ricoperto la carica di ministro degli Esteri della Germania come membro del Partito Verde tra il 2021 e il 2025, ha affermato che «gli altri governi andranno avanti, agiranno e porteranno avanti il ​​loro impegno».   «C’è la determinazione di non lasciare che questo ostacoli l’azione urgentemente necessaria», ha affermato Baerbock.   Health Policy Watch ha riferito che la dichiarazione, che è stata «negoziata con grande impegno», ha il sostegno della maggior parte degli stati membri delle Nazioni Unite, comprese coalizioni chiave come il Gruppo dei 77, che comprende la Cina e comprende 130 economie emergenti.   Jeremy Farrar, Ph.D., vicedirettore generale dell’OMS, ha affermato che la dichiarazione ha ancora slancio tra gli Stati membri delle Nazioni Unite. Ha dichiarato a Health Policy Watch:   «Anche se dobbiamo dire che nessuno è contento, tutti stanno andando avanti. E in definitiva, a qualcuno a Ho Chi Minh City, a Giacarta o a Londra importa davvero cosa c’è in quella dichiarazione? Ciò che conta è ciò che i governi ora tornano a fare nella propria giurisdizione, ed è questo che conta davvero».   Farrar ha già avuto un ruolo nello sviluppo di politiche chiave durante la pandemia di COVID-19, tra cui la vaccinazione di massa.

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L’opinione pubblica riconosce i «pericoli della cessione della sovranità alle istituzioni catturate»

Gli Stati membri dell’ONU si trovano ora di fronte a una «scelta binaria» tra accettare la dichiarazione e rinunciare alla propria sovranità nazionale oppure unirsi agli Stati Uniti nel rifiutare la dichiarazione, ha scritto Ji.   Rifiutando la dichiarazione, i paesi «manterrebbero la sovranità nazionale, affronterebbero le cause profonde (cibo ultra-processato), rifiuterebbero la cattura delle multinazionali, chiederebbero una riforma dell’OMS e darebbero priorità alla salute rispetto alla burocrazia», ha scritto Ji.   La decisione di respingere la dichiarazione arriva solo pochi mesi dopo altre decisioni dell’amministrazione Trump che mettono in discussione il ruolo delle Nazioni Unite e dell’OMS nella governance sanitaria globale.   A gennaio, Trump ha ordinato agli Stati Uniti di ritirarsi dall’OMS, citando la «cattiva gestione della pandemia di COVID-19» da parte dell’organizzazione. Il processo di ritiro sarà completato l’anno prossimo.   A luglio, gli Stati Uniti hanno respinto gli emendamenti al Regolamento Sanitario Internazionale (RSI) dell’OMS. Kennedy affermò all’epoca che gli emendamenti avrebbero conferito un’autorità senza precedenti a «un’organizzazione internazionale non eletta che potrebbe ordinare lockdown, restrizioni di viaggio o qualsiasi altra misura che riterrà opportuna».   Per quanto riguarda la proposta delle Nazioni Unite, Ji ha affermato: «Questo documento rispecchia lo stesso schema di erosione della sovranità che abbiamo visto con gli emendamenti al RSI dell’OMS e il trattato sulla pandemia: burocrati e i loro partner aziendali che costruiscono il consenso, per poi imporre quadri di conformità alle nazioni senza mandato democratico».

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A giugno, il governo degli Stati Uniti ha ritirato i finanziamenti a GAVI, The Vaccine Alliance, la principale organizzazione globale per la promozione delle vaccinazioni. La Fondazione Bill & Melinda Gates ha co-fondato GAVI nel 2000 ed è uno dei membri permanenti del suo consiglio di amministrazione e il suo maggiore donatore. GAVI è il terzo maggiore donatore dell’OMS.   L’UNICEF, la Banca Mondiale e l’OMS – il cui secondo maggiore donatore è la Fondazione Gates – detengono gli altri seggi permanenti. Anche la Clinton Health Access Initiative fa parte del consiglio di amministrazione.   Mohamed ha detto:   «Questo ecosistema di dichiarazioni, emendamenti e accordi funge da sofisticata distrazione. Crea l’illusione di progresso, consentendo al contempo alle aziende che hanno dominato l’ultima pandemia, come i progetti guidati e finanziati da Gates, di preservare l’architettura che consentirà loro di dominare altre presunte emergenze».   Secondo Ji, la decisione di respingere gli sforzi globali di sanità pubblica guidati dalle Nazioni Unite gode di un ampio sostegno pubblico negli Stati Uniti. Ha affermato:   «Solo sulla piattaforma di advocacy digitale di Stand For Health Freedom, mezzo milione di attivisti americani hanno già preso iniziative nell’ultimo anno per chiedere agli Stati Uniti di uscire dall’OMS proprio per queste ragioni: la gente ha riconosciuto i pericoli di cedere la sovranità a istituzioni sottomesse».   Michael Nevradakis Ph.D.   © 29 settembre 2025, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD.   Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.  

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr  
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Sanità

Down morto di fame in un ospedale britannico

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L’emittente britannica ITV ha diffuso un’inchiesta che documenta il caso di Adrian Poulton, un uomo di 56 anni con sindrome di Down, morto per malnutrizione in un ospedale del Servizio Sanitario Nazionale (NHS) nel 2021.

 

L’uomo era stato ricoverato a settembre dello stesso anno al Poole Hospital in seguito alla frattura di un’anca. Nonostante la frattura stesse guarendo, i medici avevano emesso la direttiva «nil by mouth», «niente per via orale», che impedisce l’alimentazione del paziente per bocca.

 

Secondo quanto riferito dalla famiglia a ITV, Poulton non ricevette nutrizione per nove giorni. I familiari credevano che stesse venendo alimentato tramite flebo, ma successivamente è emerso che ciò non stava avvenendo. Il padre, Derek Poulton, ha dichiarato: «Non essendo medici, pensavamo naturalmente che ricevesse nutrimento. Ma a quanto pare, lo stavano facendo morire di fame». La sorella, Lesley Bungay, ha affermato che Adrian era consapevole delle sue condizioni e temeva per la propria vita.

 

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Poulton è deceduto il 28 settembre 2021. Un rapporto ufficiale dell’ospedale ha attribuito la causa della morte alla mancanza di nutrizione. La struttura ha espresso cordoglio e dichiarato di aver implementato modifiche operative in seguito all’accaduto, condividendole con i familiari.

 

Il caso riaccende l’attenzione su una questione più ampia riguardante il trattamento delle persone con disabilità intellettive nel sistema sanitario britannico. A settembre 2023, un rapporto commissionato dal governo ha rilevato che le persone con disabilità intellettive muoiono mediamente 20 anni prima della popolazione generale e che circa il 40% di questi decessi sarebbe evitabile.

 

La carenza di personale specializzato è un altro elemento critico: la forza lavoro infermieristica in questo settore è diminuita del 43% dal 2009, secondo quanto riportato in una lettera inviata da 16 organizzazioni di beneficenza al ministro della Salute, Wes Streeting.

 

«Se non cambia nulla, si prevede che entro il 2028 vi saranno pochissimi infermieri specializzati in disabilità intellettive in Inghilterra», si legge nella missiva, che sottolinea la necessità di un intervento urgente per evitare un collasso del settore.

 

Nel 2023, un altro caso simile ha coinvolto Louis Cartright, un ragazzo di 17 anni con sindrome di Down, morto dopo essere stato dimesso da un ospedale londinese senza ricevere cure appropriate. Cartright, inizialmente portato in ospedale per un malessere, non fu sottoposto a esami ematici poiché era ansioso all’idea del prelievo e i medici non ritennero opportuna la sedazione. Le sue condizioni peggiorarono progressivamente e morì a casa il 3 febbraio 2023. L’inchiesta del medico legale è ancora in corso.

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La madre, Jackie Cartright, ha riferito a ITV: «Non aveva mai avuto il COVID. Raramente si prende il raffreddore, non ha mai avuto un mal di stomaco. Era un bambino sanissimo». «Dicono di aver fatto tutto il possibile per Louis. Non crediamo che sia vero», ha detto suo padre Ian a ITV. «Aveva una disabilità, aveva la sindrome di Down, era un bambino spaventato. Avrebbero potuto fare qualcosa, e si sono rifiutati di farlo».

 

Organizzazioni e attivisti sottolineano che questi casi evidenziano criticità strutturali nel sistema sanitario e pongono interrogativi sull’equità delle cure fornite alle persone con disabilità. Paula McGowan, attivista e promotrice della formazione obbligatoria Oliver McGowan per il personale del NHS, ha affermato: «Le persone con disabilità intellettive continuano a morire per le stesse cause e gli stessi fallimenti. Il governo deve fare di più».

 

Il programma di formazione obbligatoria per il personale sanitario su disabilità intellettive e autismo è stato introdotto nel 2022, ma secondo ITV, NHS England fatica ancora a raggiungere gli obiettivi prefissati. Diverse fonti sottolineano che i problemi non derivano solo dalla mancanza di formazione, ma anche da una cultura sanitaria che, in alcuni casi, non riconosce appieno il valore della vita delle persone con disabilità.

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Immagine screenshot da YouTube

 

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