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Spirito

Mons. Viganò: omelia nella Domenica delle Palme

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Renovatio 21 pubblica questa omelia di Monsignor Carlo Maria Viganò per la domenica II di passione.

 

 

 

OMELIA

nella Domenica II di Passione o delle Palme

 

 

Improperium exspectavit cor meum, et miseriam: 

et sustinui qui simul mecum contristaretur, et non fuit: 

consolántem me quæsivi, et non inveni: 

et dederunt in escam meam fel, et in siti mea potaverunt me aceto.

Ps 68, 21-22

 

Israël es tu Rex, Davidis et inclyta proles. Tu sei il Re di Israele, la nobile stirpe di David. In queste solenni parole dell’antico inno a Cristo Re, troviamo identificata la Santa Chiesa con Israele, il popolo di Dio con il popolo che fu l’eletto. Plebs Hebræa tibi cum palmis obvia venit: cum prece, voto, hymnis, adsumus ecce tibi: il popolo ebreo Ti è venuto incontro con le palme: ecco anche noi dinanzi a Te con preghiere, voti e cantici. 

 

Dovrebbe destare sgomento come il trionfo di Cristo, accolto in Gerusalemme come Figlio di David, salutato come Colui che viene nel nome del Signore, si sia potuto mutare nell’arco di poche ore nello schiamazzo violento della folla dinanzi al Pretorio, nelle grida, negli insulti, nei tormenti della Passione e infine nella morte del Re dei Giudei sul legno della Croce. Uno sgomento che viene dalla considerazione di quanto la massa del popolo sia mutevole, nella sua propensione a lasciarsi manipolare dal Sinedrio e dagli anziani del popolo, nella sua facilità a dimenticare – quasi come se non fosse mai avvenuto – il tributo di onori, i rami di palme e di ulivo, le vesti stese sulla via al passaggio del Signore. 

 

Non sappiamo se tra i pueri Hebræorum ci fossero anche quanti poi schernivano il Salvatore morente in croce. Ma sappiamo che essi erano ebrei come ebrei erano i Sommi Sacerdoti, gli scribi, le guardie del tempio e coloro che gridavano Crucifige dinanzi a Gesù flagellato e coronato di spine. Ed erano ebrei gli Apostoli fuggiti, ebreo Simon Pietro che per tre volte rinnegò Cristo, ebree le Pie Donne, ebreo il Cireneo, ebreo Giuseppe d’Arimatea. 

 

Ma se parte del popolo ebreo, nonostante le Profezie e gli interventi di Dio sotto l’Antica Legge, giunse a mandare a morte il Messia promesso, dovremmo chiederci se questo tradimento non possa ripetersi in una parte del nuovo Israele, la Chiesa, quando vediamo fedeli cattolici ma soprattutto membri della Gerarchia che, come i farisei e i capi del Sinedrio ai tempi di Cristo, ancor oggi gridano il loro Crucifige, o ripetono quia non novi hominem (Mt 26, 72).

 

Il popolo. Non nel senso latino di populus – una società che si dà leggi e le osserva – ma di vulgus, ossia gente senza identità, che non ha consapevolezza di diritti e doveri, che è manovrabile, ignaro della propria eredità e di quale sia il proprio destino, profanum, insensibile al sacro. 

 

Se guardiamo a quanto avviene nella Chiesa, alla crisi che la affligge, all’apostasia che corrompe la Gerarchia e i fedeli, gli eventi della Domenica delle Palme sembrano dimenticati, mentre vivi dinanzi a noi sono gli orrori della Passione e della Crocifissione.

 

La Chiesa che ieri celebrava i trionfi di Cristo e ne predicava il Vangelo sembra oggi eclissata dal Sinedrio che accusa di blasfemia il Figlio di Dio, dai Sommi Sacerdoti che ne chiedono la morte.

 

La società che ieri era cristiana grida furente il suo Tolle, tolle, sputa sul volto del Salvatore, ne deride i tormenti, ne vuole la cancellazione.

 

Gli odierni scribi e farisei sembrano determinati a mettere delle guardie a sorvegliare il sepolcro in cui giace la Chiesa, quasi a scongiurarne la resurrezione che li sbugiarderebbe.

 

Gli stessi discepoli del Signore fuggono, si nascondono, negano di averLo mai conosciuto per non essere esclusi ed emarginati, per non apparire controcorrente, per non contraddire i potenti.

 

E, allo stesso tempo, tante Pie Donne, tanti Cirenei, tanti Giuseppe d’Arimatea, derisi e insultati, aiutano la Chiesa a portare la sua croce, rimangono ai suoi piedi con la Vergine e San Giovanni, cercano un luogo in cui deporre quel Corpo Mistico in attesa di vederlo risorgere. 

 

Il tradimento di oggi non è meno grave di quello che dovette subire Nostro Signore; la passio Ecclesiæ non è meno dolorosa di quella del Suo Capo; la desolazione e lo sconforto di quanti contemplano la Domina gentium esposta al disonore dai suoi stessi Ministri non è meno straziante dei patimenti della Mater dolorosa. Perché l’odio che mosse i carnefici allora è lo stesso che muove i carnefici di oggi, e l’amore dei buoni Ebrei che riconobbero il Messia è lo stesso dei buoni Cristiani che ne vedono ancor oggi perpetuata l’agonia. 

 

Io ti ho liberato dalla schiavitù d’Egitto, e tu ricambi il tuo Salvatore crocifiggendoLo – cantiamo negli Improperia.

 

Ti ho dato la Messa, e tu la sostituisci con un rito che Mi disonora e che allontana i fedeli. Ti ho dato il Sacerdozio, e tu lo profani con ministri eretici e fornicatori.

 

Ti ho reso saldo contro i nemici, e tu spalanchi le porte della Cittadella, gli corri incontro, lo onori mentre si appresta a distruggerti.

 

Ti ho insegnato le verità della Fede, e tu le adulteri o le taci per compiacere al mondo. Ti ho indicato la via regale del Calvario, e tu segui la strada della perdizione, dei piaceri, della perversione. 

 

Popule meus, quid feci tibi? aut in quo contristavi te? responde mihi! Popolo mio, che ti ho fatto? in cosa ti ho contristato? rispondimi! Non sono queste parole applicabili a tanti Cattolici, a tanti Prelati, a tante anime a cui il Signore, come al popolo ebraico, mostrò mille e mille volte il proprio amore struggente?

 

Non dovremmo noi tremare, al solo pensiero di poterci essere resi complici del tradimento di Cristo e della Sua Chiesa, che di Cristo perpetua il Sacrificio incruento sui nostri altari, che dei Suoi meriti infiniti è ministra e dispensatrice sino alla fine del mondo, che dei Suoi miracoli è testimone, della Sua Parola predicatrice, della Sua Verità custode?

 

Meditiamo, cari amici, dove si pone la nostra anima immortale in questa feroce battaglia che scuote il mondo sin dalle sue fondamenta.

 

Se siamo tra i manigoldi, a torturare le carni santissime del Redentore, o se mettiamo a disposizione il nostro cuore per accogliere quel Corpo adorabile. Se ci stracciamo le vesti alla proclamazione della Sua divinità, o se ci inchiniamo come il Centurione dinanzi al Salvatore che muore per noi. Se siamo tra quanti sobillano la turba contro il Figlio di Dio, o tra coloro che ne testimoniano la gloriosa Resurrezione.

 

Perché quest’anima nostra, per la quale Nostro Signore ha sparso il Suo Sangue e dato la Vita, rimane immortale tanto nella beatitudine eterna del Paradiso, quanto nell’eterno tormento dell’Inferno. 

 

La contemplazione della Passione di Cristo e nel Suo Corpo Mistico ci scuota dal torpore, ci strappi dalla schiavitù del peccato, ci sproni all’eroismo della santità.

 

Perché il Sangue versato non ricada su di noi come condanna, ma come salutare lavacro di Grazia. E così sia. 

 

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

 

 

2 Aprile 2023

Dominica II Passionis seu in Palmis

 

 

 

 

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Mons. Viganò: la vera Obbedienza è legata alla Giustizia

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Renovatio 21 pubblica questo testo dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò

 

Obœdientes obœdientibus

Qualche breve appunto su due articoli del Prof. Daniele Trabucco

 

 

L’obbedienza servile è quella che segue la legge per paura,
senza la grazia interiore, e quindi “non giova a nulla
se non è accompagnata dall’amore;
anzi, senza di esso, rende colpevole chi la pratica,
perché manca del fine ultimo che è Dio.

Sant’Agostino

 

 

Il commento del prof. Daniele Trabucco alla vicenda di don Leonardo Maria Pompei, pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana lo scorso 6 Settembre (1), ha suscitato alcune obiezioni, tra le quali una in particolare ha provocato un ulteriore intervento dello stesso Trabucco su Chiesa e Postconcilio (2). Premetto che nutro la massima stima per il prof. Trabucco, del quale ho sempre apprezzato il pensiero autenticamente cattolico e il rigore intellettuale. Credo tuttavia che questi suoi due ultimi articoli travisino gravemente il concetto di obbedienza all’autorità, fuorviando i lettori.

 

La tesi del primo intervento di Trabucco è che la santità – di ieri come di oggi – si esplicita anche nella fedeltà e nell’obbedienza umile all’Autorità legittima, perché nell’obbedire a ordini ingiusti l’anima si esercita nell’abnegazione di sé e così sublima l’obbedienza in virtù eroica.

 

L’obiezione dei lettori evidenzia il differente contesto storico ed ecclesiale in cui l’obbedienza eroica di Santi come Padre Pio o don Bosco a vere e proprie vessazioni dei Superiori legittimi li fece crescere nella santità. E che i casi odierni, come quello di don Leonardo Maria Pompei, non sono paragonabili con i primi.

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Così Trabucco riassume l’obiezione dei suoi lettori:

 

«Oggi la Chiesa è immersa in una crisi senza precedenti, il neomodernismo è penetrato nel cuore stesso della vita ecclesiale etc., per cui non sarebbe legittimo paragonare con la situazione presente di don Pompei, l’atteggiamento di figure come San Pio da Pietrelcina, Don Dolindo Ruotolo, San Giovanni Bosco e tanti altri santi, che obbedirono pur soffrendo. Allora – si dice – il contesto era diverso: non vi era questa dissoluzione dottrinale, non questa confusione universale, non questa apostasia silenziosa».

 

La risposta all’obiezione, che costituisce il secondo intervento di Trabucco, parte dall’assunto che non sia possibile «contestualizzare» la fedeltà e l’obbedienza dei Santi del passato. Scrive Trabucco:

 

La santità, infatti, non è mai un prodotto delle condizioni storiche, non è l’esito di un equilibrio contingente, ma è radicata nell’immutabilità della grazia e nella perenne costituzione divina della Chiesa.

 

Mi permetterei di dissentire sul fatto che la santità non dipenderebbe dalle condizioni storiche. Affermo al contrario che la Provvidenza suscita per ogni tempo i Santi, i cui carismi sono più utili in quel determinato contesto. San Giovanni Bosco non è diventato santo facendo l’eremita ma l’educatore, nell’Italia sabauda, anticlericale e massonica, che voleva estromettere la Chiesa dalla società.

 

Vi è però un equivoco che occorre chiarire: non è la santità che ha bisogno di essere «contestualizzata», ma la modalità in cui si esplicita la virtù della vera Obbedienza (e di tutte le virtù in genere) in due contesti che sono diversi e addirittura antitetici. Perché il ragionamento del prof. Trabucco sia valido, tanto padre Pio quanto don Pompei dovrebbero essersi trovati ad obbedire a dei Superiori legittimi, ossia che esercitano la propria Autorità conformemente alla Legge di Dio, alla Verità rivelata, al Magistero immutabile della Chiesa.

 

Finché l’Autorità rimane nell’alveo che le ha assegnato Nostro Signore, essa è legittima e coerente con la suprema Autorità di Cristo Capo del Corpo Mistico. Ma così non è: e non perché padre Pio e don Leonardo Maria abbiano agito difformemente, ma perché l’obbedienza richiesta a padre Pio da un Superiore autoritario è di ordine disciplinare, mentre quella richiesta a don Leonardo Maria da un Superiore dottrinalmente deviato è di ordine dottrinale.

 

L’Autorità è stata voluta dal Signore per governare la Chiesa secondo le finalità che le sono proprie, e non per demolirla e disperderne le membra. La virtù dell’Obbedienza è legata alla Giustizia: essa deve esercitarsi secondo una ben precisa gerarchia, che inizia in Dio supremo Legislatore e somma Autorità, per poi articolarsi nell’obbedienza ai Suoi vicari temporali e spirituali, i quali a loro volta sono tenuti ad obbedire ai propri Superiori, e certamente anzitutto a Cristo Re e Pontefice.

 

San Tommaso d’Aquino ci spiega che la virtù dell’obbedienza scaturisce dalla Carità e dalla volontà di conformarsi all’ordine divino: essa è la virtù morale che rende la volontà pronta ad eseguire i precetti dei Superiori (II-II, quæstio 104, 2 ad 3); l’obbedienza a Dio è assoluta, mentre l’obbedienza alle autorità umane è subordinata e condizionata alla sottomissione dell’autorità umana (e dell’ordine impartito) all’autorità di Dio (II-II, quæstio 104, 4).

 

Il fondamento dell’obbedienza è infatti l’autorità del Superiore, ricevuta direttamente o indirettamente da Dio: è dunque a Dio che si obbedisce, nella persona del legittimo Superiore, dal momento che ogni potestà viene da Lui (Rom 13, 2).

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Nell’ordine perfetto che ruota intorno al Verbo Incarnato, l’obbedienza al Padre è il motore stesso della Redenzione operata dal Figlio. Questa obbedienza si riverbera spontaneamente all’interno del corpo sociale ed ecclesiale, nel riconoscersi tutti – governanti e governati – sottoposti alla Signoria universale di Cristo, e quindi necessariamente a Lui obbedienti. In quest’ordine, la disobbedienza è uno dei più gravi peccati, perché scardina l’ordine cristocentrico del cosmo; e non è un caso se i veri disobbedienti finiscono col negare anzitutto la Signoria di Cristo, per poter orgogliosamente affermare la propria. Satana è il ribelle, il disobbediente per antonomasia, e colui che ci spinge con mille inganni a disobbedire a Dio.

 

Il prof. Trabucco ritiene, prendendo ad esempio il processo di Norimberga contro i crimini di guerra del Nazismo, che i subalterni non possano essere puniti per aver eseguito ordini ricevuti dai superiori militari. Al di là del fatto che tanto i Superiori quanto i sottoposti hanno la responsabilità morale delle proprie azioni – i primi per gli ordini impartiti, i secondi per l’obbedienza a quegli ordini –, mi pare che anche i giudici di Norimberga abbiano ritenuto colpevoli e condannato gli ufficiali nazisti, non accogliendo la loro difesa di «aver solo obbedito agli ordini».

 

La disobbedienza dei Superiori a Cristo, del Quale usurpano l’autorità, rompe la coerenza della catena gerarchica, perché costringe i sudditi a disobbedire ai Superiori per non offendere Dio.

 

L’obbedienza che si delinea invece nelle parole del prof. Trabucco sembra prescindere da questa necessaria coerenza dell’Autorità all’obbedienza che a sua volta esige, giungendo al paradosso di indicare come moralmente preferibile disobbedire a Dio per obbedienza servile a dei Superiori disobbedienti, all’obbedienza virtuosa a Dio disobbedendo ai Suoi indegni Vicari.

 

E a chi obbietta che non sta al suddito giudicare il Superiore, rispondo che questo vale anche per del Superiore nei riguardi di Dio, dal quale egli si affranca per poter comandare senza alcun limite.

 

Non possiamo dimenticare che la decisione di resistere ai falsi pastori è per un sacerdote molto più sofferta e problematica che per un laico, anche solo per una questione di dipendenza economica dal Superiore. Ma proprio perché per un parroco è quasi una violenza dover disobbedire al proprio vescovo o al papa, il vescovo e il Papa dovrebbero considerare la propria responsabilità morale nell’abusare della propria autorità per far compiere ai sudditi azioni contrarie alla volontà di Dio, che essi non compirebbero se non fossero minacciati da sanzioni canoniche.

 

La gerarchia conciliare e sinodale ha deliberatamente infranto la coerenza nell’Obbedienza di duemila anni di vita della Chiesa Cattolica Romana. Essa si è sottratta all’Autorità di Dio e della Chiesa nel momento in cui, adulterando la Fede, si è sinodalizzata (ossia democratizzata), facendo risiedere nel «popolo di Dio» la sovranità strappata a Cristo. La sinodalità è disobbedienza quintessenziata, così come è sotto l’insegna della ribellione e dello scisma la «rilettura in chiave sinodale ed ecumenica» del Papato, che Cristo ha voluto monarchico.

 

È dunque questa Gerarchia ad essere disobbediente a Cristo, pur continuando a rivendicarne l’autorità per farsi obbedire dal Clero e dai fedeli. La santa disobbedienza dei sudditi non scardina l’ordine voluto da Dio, ma coraggiosamente lo ripristina, mostrando i traditori e gli usurpatori per quello che sono. Inoltre, dinanzi ad un piano eversivo della Gerarchia che da oltre sessant’anni è la causa principale della crisi nella Chiesa Cattolica, la prudenza e il legittimo sospetto di malafede verso Superiori che continuano a promuovere il Vaticano II e le sue riforme è non solo lodevole, ma doveroso.

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Il fedele e il chierico che fingono di avere a che fare con Vescovi normali, quando è evidente che sono quinte colonne del nemico, costituisce una cooperazione al male che essi compiono o lasciano compiere.

 

Padre Pio o don Bosco avevano dei Superiori che si riconoscevano a propria volta sudditi di Dio, e ne temevano il Giudizio grazie alla formazione morale e spirituale ricevuta. Se avessero avuto come Superiori certi personaggi che oggi infestano le Diocesi e la Curia Romana, avrebbero compreso che prestare loro obbedienza non avrebbe costituito una meritoria immolazione della volontà, ma una vile complicità nel demolire la Chiesa e nel disobbedire a Dio.

 

Come si sarebbero comportati padre Pio e don Bosco, o don Dolindo Ruotolo e le migliaia di santi sacerdoti che nei secoli hanno ingoiato dai loro Superiori tanti amari bocconi, nel Clero secolare e in quello Regolare, meritando il Paradiso e spesso la stessa conversione dei loro mitrati aguzzini? Cosa avrebbero risposto al Vescovo di don Pompei? Come avrebbero giudicato gli errori del Vaticano II e gli orrori del Novus Ordo?

 

E ancora: dinanzi alla evidenza che i Superiori della chiesa conciliare-sinodale vogliono distruggere la Chiesa Cattolica, il Papato, la Messa e il Sacerdozio, come avrebbero giudicato – da Confessori della Fede – il comportamento di chi per non subire ritorsioni illegittime tace dinanzi alla propagazione dell’eresia e dell’immoralità? Dubito che don Bosco avrebbe accettato di celebrare il rito montiniano, o ammesso alla Comunione i concubini, benedetto coppie di sodomiti, incoraggiato la transizione di genere, profanato la Santissima Eucaristia distribuendola sulla mano.

 

Ciò significa forse che oggi don Bosco e padre Pio non potrebbero essere Santi perché’ non hanno obbedito ai Superiori? No: significa che oggi si sarebbero santificati come Confessori della Fede esercitando l’Obbedienza secondo la sua gerarchia interna. Significa che avrebbero obbedito a Dio piuttosto che a uomini che Gli disobbediscono. Tutto qui.

 

Risponde però Trabucco:

 

«Proprio lì sta il punto: l’obbedienza che hanno incarnato non è riducibile a un fatto storico, dal momento che appartiene alla sostanza della santità, perché riconosce nell’istituzione visibile il sacramento dell’azione invisibile di Dio. (…)»

 

È vero: l’Obbedienza appartiene alla sostanza della santità. Ma se la santità è la meta di ogni uomo e in particolare di ogni battezzato, come potrebbe l’obbedienza essere di ostacolo alla santità, dal momento che essa riconosce il primato a Dio e subordinatamente a coloro che Lo rappresentano? O dovremmo forse credere che, per il semplice fatto che affermano di essere nostri Superiori, essi possano rendere legittimi degli ordini che la ragione ci indica come irricevibili? O legittimare la propria autorità, quando papi, cardinali, vescovi e chierici aderiscono tutti, indistintamente, ad un altro Vangelo (Gal 1, 6-7), un’altra religione, un altro credo, un altro papato, un altro sacerdozio, un’altra messa, sostenendo di appartenere a un’altra chiesa, che chiamano conciliare e sinodale.

 

Non è posta in discussione l’autorità del vescovo dai modi burberi o dalle decisioni opinabili: qui è messa in discussione l’obbedienza ad un’autorità usurpata, di cui si sono impadroniti degli eversori eretici e corrotti, per poter con più efficacia demolire la Chiesa dall’interno.

 

La nostra disobbedienza di oggi è l’unica forma moralmente doverosa di resistenza allo scandalo inaudito di una Gerarche pretende di poter adulterare l’insegnamento di Nostro Signore, e allo stesso tempo ne rivendica l’Autorità. Deus non irridetur, non ci si prende gioco di Dio (Gal 6, 7). Obbedire a questi Pastori significa rendersi loro complici, ed essere in comunione con loro esclude l’essere in comunione con la Chiesa Cattolica Apostolica Romana: sono loro stessi ad affermare di essere la «nuova chiesa» rispetto a quella «preconciliare».

 

Se conserviamo la visione trascendente dell’Obbedienza, ricordando che l’Incarnazione è stata possibile per l’obbedienza del Figlio al Padre, l’obbedienza di Maria Santissima al Signore e l’obbedienza di San Giuseppe all’Angelo, sapremo discernere con retta coscienza. Credo anzi che gli Ultimi Tempi ci daranno esempi eroici di santa Obbedienza a Dio e alla Chiesa, mentre i suoi vertici si distingueranno – come ai tempi della Passione – per il tradimento della Legge e dei Profeti e per la complicità con il potere politico.

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Mi permetto di aggiungere un’ultima riflessione. Quando la Sacra Scrittura parla dei falsi pastori, falsi maestri o falsi profeti (3), usa questa espressione di proposito, per evidenziare l’inganno di chi si presenta per ciò che non è. Nel Nuovo Testamento questo monito è ancora più esplicito (4) come ad esempio nella seconda Epistola di San Pietro:

 

«Fra voi vi saranno falsi maestri, i quali introdurranno eresie di perdizione e, rinnegando il Signore che li ha riscattati, attireranno su di sé una rapida rovina. (…) Per cupidigia vi sfrutteranno con parole false (2Pt 2, 1-3)».

 

Se dunque siamo stati avvertiti che sorgeranno falsi cristi e falsi profeti (Mt 24, 24), come possiamo pretendere che ad essi sia dovuta obbedienza, quando è proprio la Sacra Scrittura a metterci in guardia contro di loro, indicandoli come impostori e mentitori? Se obbedire a questi falsi maestri fosse sempre doveroso e non comportasse alcuna conseguenza, perché mai saremmo stati avvertiti dagli Evangelisti, da San Paolo, da San Pietro, da San Giuda Taddeo di non prestare loro ascolto, di fatto compiendo un atto di disobbedienza?

 

È proprio per questo che la vera Obbedienza è lo strumento principale mediante il quale quell’assistenza divina promessa alla Chiesa Cattolica si esplicita anche nel disobbedire virtuosamente ai falsi pastori e ai mercenari; perché essa, come giustamente ricorda il prof. Trabucco, non dipende dalle circostanze politiche o ecclesiali, quanto dalla verità perenne che la Chiesa custodisce, anche nelle ore più oscure. Non perché chi è fedele presuma di essere migliore (cosa che invece sembra essere una convinzione dei Modernisti).

 

Ma perché proprio perché la Chiesa non appartiene a noi ma a Cristo Signore, siamo tutti tenuti a impedire che i suoi nemici possano agire indisturbati e impuniti, pregiudicando la salvezza eterna di tante anime. Ed è questo che il Signore si aspetta da noi: non un comodo quietismo travestito da umiltà o da fatalismo.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

17 Settembre MMXXV
In impressione Stigmatum S.cti Francisci

 

NOTE

1 ) Cfr. https://lanuovabq.it/it/don-pompei-lobbedienza-che-manca-e-lesempio-dei-santi

2) Cfr. https://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2025/09/santi-per-tutti-i-tempi-non-per-una.html

3) Cfr. ad esempio Ger 23, 1-4; Ger 50, 6; Ez 34, 1-10; Is 56, 11; Zc 11, 15-17

4) Cfr. Mt 7, 15; Mt 24, 11 e 24; Gv 10, 12-13; At 20, 29-30; 2Pt 2, 1-3; 1Gv 4, 1; Gd 1, 12-13

 

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Papa Leone: «la questione della messa in latino è molto complicata»

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Parlando direttamente della tradizionale messa in latino, Papa Leone XIV si è detto disponibile a incontrare i sostenitori, aggiungendo che l’argomento è «molto complicato». Lo riporta LifeSite.   Durante la prima intervista estesa rilasciata dal nuovo Papa, Leone XIV ha conversato con la testata Crux su un’ampia varietà di argomenti, tra cui la liturgia tradizionale o la Messa in latino, l’accordo sino-vaticano, le tematiche LGBT, la sinodalità, le finanze e le riforme del Vaticano e la polarizzazione nella Chiesa. L’intervista è stata pubblicata integralmente questa settimana.   La messa in latino è un «argomento scottante», ha detto Prevost, rivelando che in questi primi mesi ha già ricevuto «numerose richieste e lettere» sull’argomento.

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Dopo aver chiarito innanzitutto che i sacerdoti possono recitare il Novus Ordo in latino «senza problemi», Leone si è poi rivolto più specificamente alla questione della Messa tradizionale.   «Ovviamente, tra la Messa Tridentina e la Messa del Vaticano II, la Messa di Paolo VI, non so bene dove andremo a parare. È ovviamente molto complicato» ha detto il pontefice. «So che parte di questa questione, purtroppo, è diventata – ancora una volta, parte di un processo di polarizzazione – la gente ha usato la liturgia come scusa per portare avanti altri argomenti. È diventata uno strumento politico, e questo è davvero deplorevole».   Al contempo Leone ha deplorato gli abusi liturgici, paragonando i due riti.   «Penso che a volte l’abuso della liturgia, come la chiamiamo Messa del Vaticano II, non sia stato d’aiuto per le persone che cercavano un’esperienza più profonda di preghiera, di contatto con il mistero della fede che sembravano trovare nella celebrazione della Messa tridentina» ha detto Prevost. «Di nuovo, siamo diventati polarizzati, così che invece di poter dire, beh, se celebriamo la liturgia del Vaticano II in modo appropriato, troviamo davvero così tanta differenza tra questa esperienza e quell’altra?»   L’intervista, svoltasi a luglio, riportava l’osservazione di Leone di «non aver avuto la possibilità di incontrare un gruppo di persone che sostengono il rito tridentino. Presto si presenterà un’opportunità, e sono sicuro che ci saranno occasioni per farlo».   «Questo è un problema di cui penso che, forse con la sinodalità, dovremmo sederci e parlarne» ha continuato.   Alcune settimane dopo l’intervista, Leone ha incontrato privatamente il cardinale Raimondo Leone Burke, riconosciuto come uno dei più importanti sostenitori ecclesiastici della messa tradizionale. I dettagli della loro conversazione rimangono privati, come di consueto, ma in seguito è stato annunciato che Burke avrebbe guidato il pellegrinaggio annuale della Messa in latino in Vaticano a ottobre e avrebbe celebrato la Messa lì. Questo segna un’inversione di rotta toccante nella politica, poiché negli ultimi due anni la Messa annuale era stata vietata dal Vaticano.

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A giugno il cardinale Burke aveva espresso la speranza che Leone «mettesse fine alla persecuzione dei fedeli nella Chiesa che desiderano adorare Dio secondo l’uso più antico del rito romano, questa persecuzione dall’interno della Chiesa». A quel punto, Burke aveva affermato di aver potuto discutere la questione con Leone.   Apparendo consapevole del dibattito molto acceso che circonda la messa tradizionale, il Leone definisce la questione della messa antica come una «questione così polarizzata che spesso le persone non sono disposte ad ascoltarsi a vicenda», rivolgendo tuttavia critiche ai fedeli della Messa tradizionale.   «Ho sentito vescovi parlarmi, mi hanno parlato di questo, dicendo: “Li abbiamo invitati a questo e a quello e non vogliono nemmeno sentirne parlare”» accusa il Prevost. «Non vogliono nemmeno parlarne. Questo è un problema di per sé. Significa che ora siamo nell’ideologia, non siamo più nell’esperienza della comunione ecclesiale. Questa è una delle questioni all’ordine del giorno».

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Danimarca, l’esecutivo nota una secolarizzazione sfinita

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In Danimarca è emerso un fenomeno unico, passato inosservato ai media mainstream. All’inizio di giugno, il primo ministro danese Mette Frederiksen, parlando pubblicamente in un’università, ha dichiarato: «abbiamo bisogno di una forma di riarmo che sia altrettanto essenziale [del riarmo militare]. È un riarmo spirituale». Questa consapevolezza senza precedenti, che si spera si diffonda.

 

Il Partito Socialdemocratico Danese, a cui appartiene il primo ministro, non gode di una reputazione di bigottismo: ha ampiamente contribuito a ridurre l’influenza della Chiesa protestante danese nella sfera pubblica. Tuttavia, la Frederiksen aveva già sorpreso tutti all’inizio di quest’anno annunciando un importante riarmo militare: un’estensione della coscrizione obbligatoria, un aumento significativo della spesa per la difesa e un addestramento intensificato a tutti i livelli.

 

Tuttavia, incombe un problema profondo, che il capo dell’esecutivo danese, cosa insolita per un leader occidentale, ha osato nominare. Molti giovani danesi sono riluttanti a combattere. Alcuni ammettono apertamente che non sacrificherebbero la propria vita per la Danimarca, né per la democrazia, né per la bandiera, tanto meno per un moderno stato sociale che promette tutto ma non ispira nulla.

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Questa crisi non riguarda solo la Danimarca; riguarda tutte le società post-cristiane. Pone una domanda, sotto forma di sfida, che le nazioni europee farebbero bene ad affrontare: cosa unisce un popolo quando i sistemi puramente umani in cui credeva iniziano a vacillare? Come diceva Péguy, bisogna sempre dire ciò che si vede, ma la parte più difficile è vedere ciò che si vede.

 

La Danimarca è una delle nazioni più secolarizzate al mondo. Il protestantesimo è ancora la religione di Stato, ma svolge solo un ruolo marginale nella vita della maggior parte dei cittadini. La religione è stata a lungo relegata alla sfera privata. Lo Stato ha gradualmente assorbito le funzioni assegnate alla religione: assistenza ai poveri, educazione civica, funerali, matrimoni civili, etc.

 

Il primo ministro del governo danese invita quindi la Chiesa protestante danese a rivendicare il suo giusto posto. In un’intervista al quotidiano cristiano Kristeligt Dagblad, Mette Frederiksen si è spinta oltre, esortando il protestantesimo di Stato a non accontentarsi di essere un’istituzione culturale, ma a tornare a essere un pilastro della vita nazionale.

 

«Credo che le persone si rivolgeranno sempre più alla Chiesa», ha affermato, «perché offre un naturale senso di comunità e un’ancora nazionale. (…) Lo spazio religioso ha sostenuto le persone in molte crisi. Penso che la Chiesa scoprirà che i tempi attuali richiedono una riscoperta di uno spazio religioso».

 

Infine, in una riflessione che sarebbe stata inconcepibile per una leader socialdemocratica danese solo dieci anni fa, conclude: «se fossi la Chiesa, mi chiederei ora: come possiamo essere un quadro sia spirituale che fisico per ciò che i danesi stanno attraversando?»

 

Questo non vuol dire, tuttavia, che il primo ministro danese abbia percorso la via di Damasco: si tratta piuttosto di una dichiarazione di realismo politico. La Frederiksen riconosce che diritti, servizi pubblici e tutele sociali non sono sufficienti a sostenere una società. I ​​cittadini non rischieranno la vita per una democrazia burocratica. Ma combatteranno per ciò che ritengono sacro.

 

La Danimarca sta scoprendo ciò che molte nazioni occidentali stanno – si spera – iniziando a comprendere: un sistema costruito su comfort, diritti e libertà individuale non lascia nulla da difendere quando le avversità colpiscono. Eppure le avversità – sotto forma di guerra, minacce o sacrifici – stanno tornando sul continente europeo.

 

Ciò che sta diventando evidente in Danimarca sono i limiti di una governance secolarizzata, l’esaurimento di un secolarismo meno aggressivo e totalitario che in Francia. Diritti e libertà, per quanto nobili, non esistono nel vuoto. Sono il frutto di una visione etica più profonda, radicata nella trascendenza, nella religione e nella comprensione della verità, del bene e della bellezza. Separata da queste radici, la società si sgretola. E quando il sacrificio diventa necessario, la volontà di compierlo svanisce.

 

Ironicamente, persino coloro che hanno sostituito la Chiesa con lo stato sociale stanno iniziando a sentire il terreno tremare sotto i piedi e invocano i giorni delle cattedrali. Speriamo che questa epidemia di lucidità si diffonda oltre i fiordi della Scandinavia.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Immagine di News Oresund via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

 

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