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Geopolitica

L’Artsakh (Karabakh) potrebbe essere la tomba di Erdoğan

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire con traduzione di Rachele Marmetti. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

 

Il conflitto dell’Alto Karabakh nasce certamente dalla dissoluzione dell’URSS, ma è stato rilanciato per volere del presidente turco. È poco probabile che Erdoğan abbia preso l’iniziativa senza prima informarne Washington. Lo fece anche il presidente iracheno Saddam Hussein prima d’invadere il Kuwait, cadendo per ambizione nella trappola e provocando così la propria caduta.

Il conflitto dell’Alto Karabakh nasce certamente dalla dissoluzione dell’URSS, ma è stato rilanciato per volere del presidente turco

 

 

 

Un conflitto molto antico, congelato da trent’anni

Il popolo turco si definisce discendente dei «figli del lupo delle steppe», vale a dire discendente dalle orde di Gengis Khan. Forma «un popolo e due Stati»: la Turchia e l’Azerbaigian. La rinascita politica della Turchia ingenera automaticamente l’ingresso dell’Azerbaigian sulla scena internazionale.

 

Ovviamente la rinascita politica della Turchia non significa la ricomparsa della violenza delle orde barbariche, però queste radici hanno forgiato il modo di pensare del popolo turco, nonostante da un secolo molti politici si sforzino di normalizzarlo.

 

L’abitudine all’assassinio causa dipendenza, quindi nel comportamento degli eserciti turchi riappare sporadicamente il bisogno di uccidere. A marzo 2014 i soldati turchi scortarono centinaia di jihadisti del Fronte al-Nusra (Al Qaeda) e dell’Armata dell’Islam (filo-saudita) fino alla città di Kessab (Siria) per farvi massacrare la popolazione armena. Gli jihadisti che parteciparono all’operazione oggi sono stati mandati ad ammazzare altri armeni, in Karabakh.

Nei primi anni dell’epoca ottomana il sultano Habdulhamid II volle unificare il Paese attorno al proprio modo d’intendere la fede mussulmana. Ordinò quindi l’eliminazione fisica di centinaia di migliaia di non-mussulmani, con il coordinamento di ufficiali tedeschi, che con questo genocidio acquisirono un’esperienza messa poi al servizio dell’ideologia razzista del nazismo. Agli albori della Repubblica, i Giovani Turchi proseguirono su più vasta scala la politica ottomana d’epurazione, in particolare contro gli ortodossi armeni (1).

 

L’abitudine all’assassinio causa dipendenza, quindi nel comportamento degli eserciti turchi riappare sporadicamente il bisogno di uccidere. A marzo 2014 i soldati turchi scortarono centinaia di jihadisti del Fronte al-Nusra (Al Qaeda) e dell’Armata dell’Islam (filo-saudita) fino alla città di Kessab (Siria) per farvi massacrare la popolazione armena. Gli jihadisti che parteciparono all’operazione oggi sono stati mandati ad ammazzare altri armeni, in Karabakh.

 

In Azerbaigian i massacri degli armeni cessarono durante la breve Repubblica Democratica (1918-20) e il periodo sovietico (1920-1990), ma ripresero nel 1988, favoriti dal crollo del potere moscovita.

 

Proprio durante il periodo sovietico, conformemente alla politica delle nazionalità di Joseph Stalin, una regione armena fu unita all’Azerbaigian per formare una Repubblica Socialista. Sicché, quando l’URSS fu sciolta, la comunità internazionale riconobbe il Karabakh, non come armeno, ma come azero. Nella precipitazione del momento, si commise il medesimo errore in Moldavia con la Transnistria, in Ucraina con la Crimea, in Georgia con l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia.

 

Ne seguì una serie di guerre, fra esse quella dell’Alto Karabakh. Sono casi in cui il Diritto Internazionale s’è evoluto muovendo da un errore di valutazione risalente agli esordi dei conflitti − come accadde anche per la Palestina − non corretto tempestivamente e infine sfociato in situazioni inestricabili.

 

Il Gruppo di Minsk: la Russia non voleva scegliere fra i suoi ex associati, la Francia pretendeva un ruolo di rilievo, mentre gli Stati Uniti volevano mantenere una zona di conflitto alla frontiera russa.

Gli Occidentali s’interposero per prevenire un avvampamento generale. Tuttavia, l’esempio della Transnistria dimostra che si trattò di arretrare per avanzare verso il meglio: gli Stati Uniti ricorsero infatti all’esercito rumeno per tentare di annientare la nascente Repubblica di Pridnestrovie (2).

 

Il Gruppo di Minsk, copresieduto da Stati Uniti, Francia e Russia, fu creato dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE, all’epoca CSCE) per trovare una soluzione. Cosa che mai fece: la Russia non voleva scegliere fra i suoi ex associati, la Francia pretendeva un ruolo di rilievo, mentre gli Stati Uniti volevano mantenere una zona di conflitto alla frontiera russa.

 

Gli altri conflitti nati dalla dissoluzione dell’URSS sono stati deliberatamente attizzati da Washington e Londra, come dimostra l’aggressione nel 2008 dell’Ossezia del Sud da parte della Georgia o il colpo di Stato del 2014 dell’EuroMaidan con cui si voleva, tra l’altro, estromettere i russi dalla Crimea.

 

Nell’allocuzione all’Assemblea Generale dell’ONU del 24 settembre scorso (3) il presidente azero, Ilham Aliyev, ha spiegato le ragioni dell’attacco di Azerbaigian e Turchia alla Repubblica d’Artsakh (Karabakh).

 

Il senso del suo discorso è stato: il Gruppo di Minsk ha definito lo status quo inaccettabile, ma «Le dichiarazioni non bastano. Abbiamo bisogno di azioni». Non poteva esprimersi più chiaramente.

Gli altri conflitti nati dalla dissoluzione dell’URSS sono stati deliberatamente attizzati da Washington e Londra, come dimostra l’aggressione nel 2008 dell’Ossezia del Sud da parte della Georgia o il colpo di Stato del 2014 dell’EuroMaidan con cui si voleva, tra l’altro, estromettere i russi dalla Crimea.

 

Conformemente all’ideologia della famiglia cui appartiene, Aliyev ha caricato al massimo gli avversari, per esempio attribuendo il massacro di Khojali (1992, oltre 600 vittime) ai «terroristi armeni»: fu in realtà un’operazione clandestina condotta durante un tentativo di colpo di Stato in Azerbaigian; in ogni caso ha potuto così presentare in maniera distorta le azioni dell’ESALA (Esercito Segreto Armeno di Liberazione dell’Armenia) durante gli anni Settanta-Ottanta.

 

Ha sottolineato che quattro risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno ordinato il ritiro delle truppe armene, giocando però sull’omonimia della popolazione armena del Karabakh e quella del vicino Stato dell’Armenia; un modo come un altro per passare sotto silenzio l’ingiunzione all’Azerbaigian del Consiglio di Sicurezza di organizzare un referendum per l’autodeterminazione del Karabakh.

 

Aliyev ha accusato, non senza ragione, il nuovo primo ministro armeno, Niko Pashinyan, di essere uomo dello speculatore George Soros, come se questo potesse cancellare quanto accaduto prima.

 

Il conflitto potrà finire solo dopo un referendum di autodeterminazione, il cui esito non dovrebbe riservare sorprese. Per il momento gli scontri avvantaggiano chi, come Israele, vende armi all’aggressore.

 

 

Per Erdoğan si tratta della guerra di troppo?

Aliyev ha accusato, non senza ragione, il nuovo primo ministro armeno, Niko Pashinyan, di essere uomo dello speculatore George Soros, come se questo potesse cancellare quanto accaduto prima

Stabilito questo, passiamo ad analizzare il conflitto in corso da un diverso punto di vista, quello degli equilibri internazionali, tenendo presente che l’esercito turco è già illegalmente presente a Cipro, in Iraq e in Siria; che già vìola l’embargo militare in Libia e ora vìola il cessate-il-fuoco in Azerbaigian.

 

Baku s’organizza per rinviare di nuovo l’inevitabile scadenza. L’Azerbaigian ha già ottenuto il sostegno del Qatar, che in questo teatro operativo soprintende anche al finanziamento degli jihadisti. Secondo nostre informazioni, la Turchia avrebbe spostato da Idlib (Siria) almeno 580 jihadisti. È una guerra costosa e KKR, la potente società dell’israeliano-statunitense Henry Kravis, sembra esservi implicata, così come lo è tutt’ora in Iraq, Siria e Libia.

 

Come accaduto durante la destabilizzazione dell’Afghanistan comunista, le armi israeliane potrebbero essere instradate dal Pakistan. In ogni caso in Turchia fioriscono manifesti che affiancano le bandiere dei tre Paesi.

 

Meraviglia ancora di più che il presidente Aliyev abbia ricevuto il sostegno dell’omologo bielorusso, Alexandre Lukashenko. È probabile che costui abbia agito in accordo con il Cremlino, il che potrebbe annunciare un sostegno più visibile della Russia all’Armenia ortodossa (Russia, Bielorussia e Armenia sono membri dell’Unione Economica Euroasiatica e dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva).

Per il momento gli scontri avvantaggiano chi, come Israele, vende armi all’aggressore

 

Stranamente l’Iran sciita non ha preso posizione. Eppure, benché etnicamente turchi, gli azeri sono l’unico altro popolo sciita al mondo; fecero infatti parte dell’impero savafide. Il presidente Hassan Rohani aveva incluso l’Azerbaigian nel progetto di Federazione Sciita, presentato durante la seconda campagna elettorale. Questo stare dietro le quinte dà l’impressione che Teheran non desideri entrare in conflitto con Mosca, ufficialmente neutrale.

 

Dal lato armeno, la diaspora negli Stati Uniti sta conducendo al Congresso un intenso lobbying affinché il presidente Erdoğan − il cui Paese è tuttavia membro della NATO − sia ritenuto responsabile del conflitto davanti a un tribunale internazionale.

 

In caso di tacito accordo tra Mosca e Washington, questa guerra potrebbe ritorcersi diplomaticamente contro il presidente Erdoğan, che i Due Grandi ora faticano a tollerare

In caso di tacito accordo tra Mosca e Washington, questa guerra potrebbe ritorcersi diplomaticamente contro il presidente Erdoğan, che i Due Grandi ora faticano a tollerare.

 

Così come il presidente iracheno Saddam Hussein passò bruscamente da valletto del Pentagono a nemico pubblico n° 1 quando si credette autorizzato a invadere il Kuwait, anche il presidente turco potrebbe essere stato indotto in errore.

 

 

Thierry Meyssan

Così come il presidente iracheno Saddam Hussein passò bruscamente da valletto del Pentagono a nemico pubblico n° 1 quando si credette autorizzato a invadere il Kuwait, anche il presidente turco potrebbe essere stato indotto in errore.

 

NOTE

(1) «La Turquie d’aujourd’hui poursuit le génocide arménien», di  Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 26 aprile 2015.

(2) «En 1992, les États-Unis tentèrent d’écraser militairement la Transnistrie», di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 17 luglio 2007.

(3) «Intervention by Ilham Aliyev the 75th meeting of the United Nations General Assembly», di Ilham Aliyev, Voltaire Network, 24 luglio 2020.

 

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

 

Fonte: «L’Artsakh (Karabakh) potrebbe essere la tomba di Erdoğan», Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 15  settembre 2020

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Geopolitica

Gli Stati Uniti sequestrano una petroliera al largo delle coste del Venezuela

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Il procuratore generale statunitense Pam Bondi ha annunciato il sequestro di una petroliera sospettata di trasportare greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran.

 

L’operazione, condotta al largo delle coste venezuelane, si inserisce in un’escalation delle attività militari americane nella regione, unitamente a raid contro quelle che Washington qualifica come imbarcazioni legate ai cartelli della droga.

 

«Oggi, l’FBI, la Homeland Security Investigations e la Guardia costiera degli Stati Uniti, con il supporto del Dipartimento della Difesa, hanno eseguito un mandato di sequestro per una petroliera utilizzata per trasportare petrolio greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran», ha scritto Bondi su X mercoledì.

 

Ha precisato che la nave era stata sanzionata «a causa del suo coinvolgimento in una rete di trasporto illecito di petrolio a sostegno di organizzazioni terroristiche straniere».

 

Nel video diffuso da Bondi si vedono agenti delle forze dell’ordine, pesantemente armati, calarsi dall’elicottero sulla tolda della nave. Secondo il portale di tracciamento MarineTraffic e vari media, l’imbarcazione è stata identificata come «The Skipper», che batteva bandiera della Guyana. Fonti come ABC News riportano che la petroliera, con una capacità fino a 2 milioni di barili di greggio, era diretta a Cuba.

 

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Gli Stati Uniti avevano sanzionato la The Skipper già nel 2022, accusandola di aver contrabbandato petrolio a beneficio del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniana e del gruppo militante libanese Hezbollah.

 

Un gruppo di parlamentari statunitensi ha di recente sollecitato un’inchiesta sugli attacchi condotti su oltre 20 imbarcazioni da settembre, ipotizzando che possano configurare crimini di guerra.

 

Il senatore democratico Chris Coons, intervistato martedì su MSNBC, ha accusato Trump di «trascinarci come sonnambuli verso una guerra con il Venezuela». Ha argomentato che l’obiettivo reale del presidente sia l’accesso alle risorse petrolifere e minerarie del paese sudamericano.

 

Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha rigettato le affermazioni di Trump sul presunto ruolo del suo governo nel narcotraffico, ammonendo Washington contro l’avvio di «una guerra folle».

 

Il Venezuela ha denunciato gli Stati Uniti per pirateria di Stato dopo che la Guardia costiera americana, coadiuvata da altre forze federali, ha abbordato e sequestrato una petroliera sanzionata nel Mar dei Caraibi.

 

Caracas ha reagito con durezza, definendo l’intervento «un furto manifesto e un atto di pirateria internazionale» finalizzato a sottrarre le risorse energetiche del Paese.

 

«L’obiettivo di Washington è sempre stato quello di mettere le mani sul nostro petrolio, nell’ambito di un piano deliberato di saccheggio delle nostre ricchezze», ha dichiarato il ministro degli Esteri Yvan Gil.

 

Il governo venezuelano ha condannato gli «arroganti abusi imperiali» degli Stati Uniti e ha giurato di difendere «con assoluta determinazione la sovranità, le risorse naturali e la dignità nazionale».

 

Da anni Caracas considera le sanzioni americane illegittime e contrarie al diritto internazionale. Il presidente Nicolas Maduro le ha definite parte del tentativo di Donald Trump di rovesciarlo e ha respinto come infondate le accuse di legami con i narcos, avvertendo che qualsiasi escalation militare condurrebbe a «una guerra folle».

 

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Geopolitica

Putin: la Russia raggiungerà tutti i suoi obiettivi nel conflitto ucraino

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La Russia porterà a compimento tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale in Ucraina, ha dichiarato il presidente Vladimir Putin.   Tra gli scopi principali enunciati da Putin nel 2022 vi sono la protezione degli abitanti delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk dall’aggressione delle forze di Kiev, nonché la smilitarizzazione e la denazificazione dell’Ucraina.   «Naturalmente porteremo a termine questa operazione fino alla sua logica conclusione, fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale», ha affermato Putin in videocollegamento durante la riunione del Consiglio presidenziale per i diritti umani di martedì.   Il presidente russo quindi ricordato che il conflitto è scoppiato quando l’esercito ucraino è stato inviato nel Donbass, regione storicamente russa che nel 2014 aveva respinto il colpo di Stato di Maidan sostenuto dall’Occidente. Questo, secondo il presidente, ha reso inevitabile l’intervento delle forze armate russe per porre fine alle ostilità.

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«Si tratta delle persone. Persone che non hanno accettato il colpo di Stato in Ucraina nel 2014 e contro le quali è stata scatenata una guerra: con artiglieria, armi pesanti, carri armati e aviazione. È lì che è iniziata la guerra. Noi stiamo cercando di mettervi fine e siamo costretti a farlo con le armi in pugno».   Putin ha ribadito che per otto anni la Russia ha cercato di risolvere la crisi per via diplomatica e «ha firmato gli accordi di Minsk nella speranza di una soluzione pacifica». Tuttavia, ha aggiunto la settimana scorsa in un’intervista a India Today, «i leader occidentali hanno poi ammesso apertamente di non aver mai avuto intenzione di rispettarli», avendoli sottoscritti unicamente per guadagnare tempo e permettere all’Ucraina di riarmarsi.   Mosca ha accolto positivamente il nuovo slancio diplomatico impresso dal presidente statunitense Donald Trump, che ha proposto il suo piano di pace in 28 punti come base per un’intesa.   Lunedì Trump ha pubblicamente invitato Volodymyr Zelens’kyj ad accettare le proposte di pace, lasciando intendere che il leader ucraino non abbia nemmeno preso in esame l’ultima offerta americana.  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0) 
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Lavrov elogia la comprensione di Trump delle cause del conflitto in Ucraina

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Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato che il presidente statunitense Donald Trump rappresenta l’unico leader occidentale in grado di cogliere le vere motivazioni alla base del conflitto ucraino.

 

Parlando mercoledì al Consiglio della Federazione, la camera alta del parlamento russo, Lavrov ha spiegato che, mentre gli Stati Uniti manifestano una «crescente impazienza» verso il percorso diplomatico mirato a cessare le ostilità, Trump è tra i pochissimi esponenti occidentali a comprendere le dinamiche che hanno originato la crisi.

 

«Il presidente Trump… è l’unico tra tutti i leader occidentali che, subito dopo il suo arrivo alla Casa Bianca nel gennaio di quest’anno, ha iniziato a dimostrare di aver compreso le ragioni per cui la guerra in Ucraina era stata inevitabile», ha dichiarato.

 

Lavrov ha proseguito sottolineando che Trump possiede una «chiara comprensione» delle dinamiche che hanno forgiato le politiche ostili nei confronti della Russia da parte dell’Occidente e dell’ex presidente statunitense Joe Biden, strategie che, a suo dire, «erano state coltivate per molti anni».

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Il ministro ha indicato che «si sta avvicinando il culmine dell’intera saga» ucraina, affermando che Trump ha sostanzialmente ammesso che «le cause profonde identificate dalla Russia devono essere eliminate».

 

Il vertice della diplomazia russa ha menzionato in modo specifico le storiche riserve di Mosca sull’aspirazione ucraina all’adesione alla NATO e la persistente violazione dei diritti della popolazione locale.

 

Lavrov ha poi precisato che Trump resta «l’unico leader occidentale a cui stanno a cuore i diritti umani in questa situazione», contrapposto ai governi dell’UE che, secondo Mosca, evadono il tema. Ha svelato che la roadmap statunitense per un’intesa includeva esplicitamente la tutela dei diritti delle minoranze etniche e delle libertà religiose in Ucraina, «in linea con gli obblighi internazionali».

 

Tuttavia, sempre secondo Lavrov, tali clausole sono state indebolite nel momento in cui il documento è stato sottoposto all’UE: il testo è stato modificato per indicare che l’Ucraina dovrebbe attenersi agli standard «adottati nell’Unione Europea».

 

Da tempo Mosca denuncia la soppressione della lingua e della cultura russa da parte di Kiev, oltre ai sforzi per limitare i diritti delle altre minoranze nazionali, e al contempo accusa i leader ucraini di fomentare apertamente il neonazismo nel paese.

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Immagine dell’Ufficio stampa della Duma di Stato della Federazione Russa via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

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