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La morte del giusto: vi racconto di mio nonno

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DAT, «fine-vita», «cure palliative». Sono termini che sentiamo sempre più spesso. La dimensione della morte oggi conosce  una fioritura di declinazioni in ambito medico ed amministrativo.

Vorrei parlarne partendo proprio da un’esperienza personale, che mi ha toccato molto da vicino – dal momento che riguardava un mio familiare. Mio nonno.

Egli è mancato pochi giorni fa.

 

Era stato ricoverato poco prima in ospedale per acciacchi della vecchiaia – in particolare riconducibili ad un importante scompenso cardiaco diagnosticato da tempo. Una volta «stabilizzata» la terapia per un’insufficienza renale e un versamento pleurico nei polmoni, è stato dimesso dal reparto di medicina in cui era ricoverato.

 

La parola che ricorre è questa: «stabilizzare».
Poco importa se le sue condizioni fisiche fossero precarie: l’importante, per i medici, era quello di «stabilizzare» la sua terapia.

Malati e gli anziani diventano di fatto tutti terminali da «curare» con cure palliative

D’altronde ormai negli ospedali funziona così. Se si viene ricoverati in diabetologia per problemi di insulina, e allo stesso tempo si hanno, ad esempio, dei calcoli ai reni, i medici della diabetologia – statene certi – si occuperanno di stabilizzare il livello di glicemia nel sangue, ma non si preoccuperanno affatto di ciò che non compete al proprio reparto. E, quindi, ecco pronta la dimissione una volta sistemato l’orticello clinico di propria competenza.

 

Ma torniamo a noi. La prassi prevede che, ad una dimissione dall’ospedale, corrisponda la lettera di dimissione solitamente redatta e firmata dal primario del reparto. Leggendo la lettera di dimissione del nonno, mi è subito caduto l’occhio su un dato particolare: vista la gravità dello scompenso cardiaco, vista l’insufficienza renale, e visto il rischio di emorragie, alcuni farmaci – in particolar modo l’anticoagulante che prendeva di prassi – sono stati sospesi per evitare, a quanto ho capito, un male peggiore.

 

Fino a qui, non avendo le competenze ma confrontandomi poi insieme alla mia famiglia con altri medici, tutto par essere logico: tolgo da una parte per non rischiare qualcosa di peggio dall’altra.

 

Ciò che invece mi ha colpito di più – e vengo qui al dunque – è stata una frase inserita nel riassunto medico, che diceva più o meno così: sospesi questi farmaci, consigliamo invece di continuare con l’accompagnamento delle cure palliative già iniziate.

Mio nonno è stato considerato come un terminale pur non essendolo

 

In buona sostanza, mio nonno è stato considerato come un terminale pur non essendolo. In buona sostanza, i malati e gli anziani diventano di fatto tutti terminali da «curare» con cure palliative.

 

Ma cosa cosa sono e a cosa servono, soprattutto, nella maggior parte dei casi, queste «cure palliative»?

 

Parlando con franchezza, potremmo dire che sono terapie in grado di allontanare i sintomi di una determinata malattia, la quale dovrebbe essere sempre considerata grave o, comunque, ad uno stadio terminale. Spesso «cura palliativa» corrisponde a «morfina».

Terminali o non terminali, l’unica volontà è quella di non far sentire dolore al paziente, smettendo le cure terapeutiche e tentando di allontanare i sintomi del male che li affligge

 

Aldilà delle chiacchiere e i sermoni che potrebbero e vorrebbero farvi, le cure palliative servono al  cosiddetto  «accompagnamento alla morte», oggidì tanto in auge. Come detto, però, ormai pare non esserci più limite di casi o situazioni: terminali o non terminali, l’unica volontà è quella di non far sentire dolore al paziente, smettendo le cure terapeutiche e tentando di allontanare i sintomi del male che li affligge. Ciò, ai più, potrebbe apparire comprensibilmente come cosa buona e giusta.

 

Quello che si deve però capire sono le conseguenze dell’allucinante uso improprio che si fa di questi farmaci potentissimi, con l’annessa logica di utilizzo. Se è vero che la morfina allevia il dolore, va compreso che, anche laddove il dolore potrebbe essere minimo – come nel caso del nonno che non era ad uno stadio «terminale» –il farmaco potrebbe dare gravi disturbi alla coscienza e alla vigilanza dei pazienti.

Vogliono eliminare il dolore in cambio dell’incoscienza

 

Ed è in effetti proprio questo il punto. Vi è una ragione «filosofica»,  dietro all’accanimento delle «cure palliative». Io la ritengo una filosofia diabolica.

 

Vogliono eliminare il dolore in cambio dell’incoscienza, in cambio di un percorso che «accompagni» alla «dolce morte».
Il dolore non deve più esistere, ma il prezzo da pagare diventa l’impossibilità di essere lucidi e vigili proprio negli ultimi momenti della vita terrena e, in ultimo, nell’istante della morte.

 

Stiamo parlando di una questione di vitale importanza che non può essere banalizzata.

Il nemico che la medicina moderna vuole abbattere è l’agonia

Il nemico che la medicina moderna vuole abbattere è l’agonia: non vogliono più che esista l’agonia; non vogliono che si affronti la morte con le capacità umane di intendere e di volere

 

Ed ecco perché, allora, possiamo presupporre che il vero nemico contro cui la medicina moderna vuole scontrarsi è Dio: sì, perché negli ultimi istanti della vita di un uomo si decide tutto: il suo passato, il suo ultimo presente, la sua Vita eterna. La grazia di una Buona Morte sta proprio nell’ultima possibilità che Dio offre all’uomo di combattere contro se stesso, di dare all’Angelo Custode la possibilità di assistere nell’ultimo e tremendo scontro un’anima, strappandola dal finale e subdolo tentativo di attacco dei demoni.

Gli fanno credere che l’anzianità sia una malattia

 

L’agonia, per quanto può spaventare, può essere riscatto, redenzione, e, per chi crede, imitazione di Cristo sulla Croce dove, versando il Suo Sangue e patendo lucidamente e coscientemente una morte atroce, il Salvatore ha salvato il mondo.

 

La medicina moderna vuole sottrarre questa possibilità a tutti, vuole fare addormentare nella «dolce morte» i pazienti senza dare a ciascuno la possibilità di fare lucidamente i conti con se stessi prima dell’Eterno Giudizio.
Qui si nasconde il vero e drammatico inganno delle cosiddette «cure palliative».

La medicina moderna vuole sottrarre questa possibilità a tutti, vuole fare addormentare nella «dolce morte» i pazienti senza dare a ciascuno la possibilità di fare lucidamente i conti con se stessi prima dell’Eterno Giudizio.

 

Addormentarsi nell’oblio del nulla eliminando il patibolo della Croce che tutto sana, che tutto monda. Si soffoca la dimensione spirituale sacrificandola sugli altari della medicina ufficiale, che vorrebbe costringere l’Uomo, come Pellegrino di questa terra, a non essere altro che materia vivente.

 

 

Grazie al Cielo, pur avendo subito queste cose, mio nonno è sfuggito alla medicalizzazione di stato, è sfuggito al freddo e bianco ambiente ospedaliero che riduce le anime a numeri e che confina la morte ad un fatto normale, privo di importanza soprannaturale.

 

Grazie al Cielo, mio nonno ha fatto la morte del giusto, morendo come un cristiano «di una volta».
È morto a casa sua, nel suo letto. Sfinito dalla vita ma pronto per la morte, ricevendo i Sacramenti di sempre con lucidità e volontà, e avendo consapevolezza che il tremendo momento era ormai giunto.

 

Possano i nostri anziani tornare a morire nelle loro case. Possano essere risparmiati dalla coercizione sanitaria che vincola, tormenta, fa vivere gli ultimi anni della vita terrena fuori e dentro dagli ospedali, con esami continui, controlli continui, abituando le persone ad uno stato di perenne morte in vita, abbattendo gli anziani psicologicamente, facendogli credere che la malattia sia l’anzianità, e che l’anzianità da malati debba essere l’unica ragione su cui fondare il resto della propria esistenza.

 

Possano i nostri anziani ritornare a morire nel Signore, con la vicinanza dei propri familiari nel focolare domestico e con il conforto di Dio attraverso i Sacramenti e la preghiera.

 

Scrive il libro dell’Apocalisse (14, 17)

«Beati d’ora in poi, i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono»

 

Cristiano Lugli

 

 

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Bioetica

Trump grazia 23 pro-life imprigionati da Biden a poche ore dalla Marcia antiabortista di Washington

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Il presidente Trump ha graziato i pro-life imprigionati durante la presidenza di Joe Biden. Lo riporta LifeSiteNews.

 

Giovedì pomeriggio, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ufficialmente graziato i ventitre pro-life incarcerati dal Dipartimento di Giustizia di Biden per i loro tentativi di salvare i bambini non ancora nati.

 

Prima di firmare la grazia, Trump ha commentato che nessuno dei ventitre pro-life avrebbe dovuto essere «perseguito», aggiungendo che firmare la grazia è un «grande onore».

 

I pro-life ora graziati sono: Joan Bell, Coleman Boyd, Joel Curry, Jonathan Darnel, Eva Edl, Chester Gallagher, Rosemary «Herb» Geraghty, William Goodman, Dennis Green, Lauren Handy, Paulette Harlow, John Hinshaw, Heather Idoni, Jean Marshall, Padre Fidelis Moscinski, Justin Phillips, Paul Place, Bevelyn Beatty Williams e Calvin, Eva e James Zastrow.

 


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In precedenza, nel corso della giornata, era stata diffusa la notizia che la grazia sarebbe stata concessa al «Law of Life Summit» dagli avvocati che rappresentano la Thomas More Society.

 

La testata Daily Wire aveva riferito che Trump avrebbe graziato «gli attivisti pro-life imprigionati dal Dipartimento di Giustizia di Biden entro pochi giorni».

 

I giornalisti avevano sostenuto che due fonti anonime avevano assicurato al loro giornale che la «situazione» dei prigionieri pro-life è «una priorità immediata per il team di Trump» e che «probabilmente saranno graziati entro pochi giorni».

 

La notizia galvanizzerà sicuramente i partecipanti alla March for Life di oggi 24 gennaio, durante la quale Trump dovrebbe parlare ai partecipanti al raduno tramite video. Trump è stato il primo presidente a parlare dal palco della marcia antiabortista pochi anni fa. Quest’anno il vicepresidente JD Vance, convertito al cattolicesimo, dovrebbe parlarvi di persona.

 

In precedenza, oggi, il senatore Josh Hawley del Missouri ha menzionato su X di aver parlato con il presidente Trump dei pro-life imprigionati:

 


«Stamattina ho avuto una bella conversazione con [Donald Trump] sui prigionieri pro-life ingiustamente perseguitati e imprigionati dalla corrotta amministrazione Biden», ha scritto, riferendosi all’account X del presidente. «L’ho esortato a perdonarli rapidamente».

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Durante le audizioni per la conferma della nomina del nuovo segretario del Dipartimento di Giustizia Pam Bondi lo Holloway ha chiesto se permetterà che si ripeta una situazione come quella dell’attivista pro-life Mark Houck, sette figli, che si è visto entrare in casa una squadra d’assalto dell’FBI armata fino ai denti, per eseguirne l’arresto in un raid di violenza terrificante.

 


Lo Houck aveva la colpa di avere difeso il figlio piccolo in un alterco con un attivista abortista.

 

Durante la scorsa amministrazione si è visto come attacchi a centri per la Vita, con incendi ed altro, non sono stati minimamente perseguiti dalla Giustizia americana. Perfino le minacce al giudice della Corte Suprema Brett Kavanaugh, coinvolto nella storica sentenza che ha defederalizzato l’aborto in America Dobbs v. Jackson, sembrano essere state prese sul serio dalle autorità.

 

Come riportato da Renovatio 21, sotto Biden l’FBI aveva inoltre programmato di infiltrare le messe in latine, perché ritenute fucine di «terrorismo domestico».

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«Non utilizzare gli organi di una ragazza di 16 anni mi pareva un delitto»: parla «l’uomo dei trapianti»

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Un quotidiano a tiratura nazionale, Il Giornale, lo scorso 20 gennaio ha pubblicato un singolare articolo-intervista a colui che nel titolo è definito «l’uomo dei trapianti».    Si tratta di un professore ordinario di malattie infettive e tropicali considerato il principale soggetto di riferimento a livello nazionale per il trapianto di organi in caso di problematiche infettivologiche.   Apprendiamo così che dal 1999 il professore «vive reperibile giorno e notte, tutti i giorni dell’anno, Natale, compleanni, influenza, vacanze comprese perché è a lui che i centri di coordinamento regionali trapianti di tutta Italia fanno riferimento quando ci sono organi da donare». Da più di un quarto di secolo, dunque, costui «sceglie a chi dare gli organi», è scritto nell’occhiello del pezzo. Egli «è da 25 anni la Second Opinion Nazionale per le problematiche infettivologhe [sic] quando si tratta di donare gli organi. A lui spetta l’ultima parola, accendere o meno la luce verde anche quando i segnali non sono così chiari».

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«Un impasto perfetto di prontezza e coraggio e la responsabilità pesa a volte quanto la solitudine nell’essere un numero primo» continua l’articolo, che cita la spiegazione dell’uomo: «Da quando il soggetto diventa donatore, abbiamo tre ore di tempo per decidere se è o meno idoneo».   Sono forniti dati numerici interessanti: «ogni quanto mi squilla il telefono? Ho appena finito di stilare il report di fine anno: sono 900 telefonate, una media di tre al giorno».   Viene poi riportato un episodio specifico. «Un paio di anni fa venne trovata una giovane su una spiaggia in Puglia. Stava male e morì poco dopo. Aveva partecipato a un Rave party e non si sa cosa avesse fatto e con chi era stata. Mi chiedono cosa fare. Non era semplice decidere, i chirurghi di riferimento dei riceventi cercavano di convincere i pazienti a rinunciare».   «Eppure non utilizzare organi di una ragazza di 16 anni mi sembrava un delitto. Ho parlato con loro e ho condiviso gli algoritmi di compatibilità, ho spiegato la situazione, rischi e vantaggi. Alla fine hanno firmato tutti il consenso, si sono fidati e oggi stanno tutti bene» racconta il professore, definito da Il Giornale come un «pioniere dall’aria modesto, che parla delle sue straordinarie conquiste come se fosse cosa di tutti i giorni».   Apprendiamo che «è stato il primo a vincere una scommessa che tutti davano per folle: trapiantare gli organi di malati di COVID».   «Primi al mondo a usare donatori positivi. Era novembre del 2020, il vaccino non c’era ancora. Eravamo in piena pandemia e mi arriva una chiamata. Un ragazzo di 14 anni, si era suicidato» rammenta il professore. «Abbiamo trapiantato gli organi a pazienti guariti dal COVID. Pochi mesi dopo ci hanno seguito gli altri Paesi. Sembrava un azzardo ma abbiamo aperto la strada a centinaia di vite salvate».   A questo punto, l’intervistato si lascia andare ad alcune amare riflessioni: «si perdono tanti organi. L’Italia purtroppo è il secondo Paese con un tasso elevatissimo di germi resistenti all’antibiotico. Peggio di noi solo la Grecia, Questo significa che davanti ad alcune infezioni non abbiamo armi e gli organi sono inutilizzabili».   Tuttavia, «per l’HIV è un discorso diverso. Oggi si cura facilmente. Nel 2017 siamo stati il primo Paese in Europa a trapiantare organi tra HIV positivi. Il modello italiano è stato ancora una volta pionieristico. Da anni sono nel Consiglio d’Europa e ho potuto fare l’estensore delle linee guida europee in materia».   Si delinea dunque il prossimo obiettivo: «c’è altro che possiamo fare: il trapianto da positivi a negativi», dice il professore, e l’articolista conclude con un tono di utopica speranza: «sarebbe un’altra vittoria per l’uomo».   Ricordiamo, infine, il titolo dato al pezzo dal quotidiano: «Io sempre al telefono decido in un momento a chi donare una vita».   Come può vedere il lettore, non commentiamo nulla riguardo ai contenuti dell’articolo.   Ci sia consentito tuttavia andare indietro con la memoria al 1962: nel novembre di quell’anno la rivista Life pubblica un articolo intitolato «Decidono chi vive, chi muore: il miracolo medico pone il peso morale su un piccolo comitato». Si parlava di una «commissione-dio» di un ospedale che decideva quali pazienti si dovessero curare con i macchinari per la dialisi, allora appena introdotti e rarissimi.

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L’articolo, scritto dalla celebre giornalista americana Shana Alexander (1925-2005), aprì un immenso dibattito negli Stati Uniti e in tutto il mondo: davvero degli uomini potevano arrogarsi decisioni sulla vita e sulla morte del prossimo? In base a quali criteri? Chi stabiliva quali fossero questi criteri? Cosa accadeva poi a chi non veniva prescelto? E a chi veniva prescelto?   Si trattava del problema dell’allocazione delle risorse sanitarie, rispuntato – molto in sordina ma con episodi inquietanti se non sconvolgenti – anche durante il COVID. Nel 1962, la questione della dialisi favorì lo sviluppo di quel ramo della conoscenza chiamato Bioetica, con comitati e pensatori pronti a riflettere su questo dilemma.   Ora ci domandiamo: il «dilemma», in medicina, esiste ancora?   Parlare di poteri immensi in mano ai medici oggi non scandalizza più, anzi, può essere visto come una virtuosa responsabilità.   Vogliamo chiedere al lettore se non pare anche a lui che il mondo sia cambiato un pochino: chiamatelo pendìo scivoloso, chiamatela Finestra di Overton, chiamatela rana bollita, chiamatelo «Progresso».   Per noi non è altro che lo scivolamento della società verso la negazione della dignità umana, biologica e morale: in una parola, Necrocultura, vero volto della medicina moderna.   Roberto Dal Bosco Alfredo De Matteo

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Bioetica

Provette per tutti: ecco la società disumana dei cornuti genetici

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Le provette ormai sono ovunque: è inutile nasconderselo ed è bene capire perché. Le statistiche ci parlano dell’impennata della riproduzione artificiale; le stime degli embrioni parcheggiati in azoto liquido sono impressionanti; in Italia è visibile a tutti lo sforzo istituzionale di promuovere il bambino sintetico, con la FIVET inserita nei LEA come da ordine centrale della Lorenzin e di governatori regionali famelici di modernità.

 

E allora può capitare di andare alla riunione indetta dalla scuola elementare per presentare i supercorsi di educazione sessuale, e sentirsi dire dalla giovane psicologa pagata per istruire tuo figlio che certo non spiegherà in classe che il sesso si fa per fare i bambini: i bambini oggi si fanno in provetta, e chissà quanti nella scuola sono venuti al mondo così.

 

Può succedere anche di captare, in conversazioni con conoscenti, realtà di cui non ci si immaginava l’esistenza.

 

Ci si accorge che le persone che ricorrono alla fecondazione in vitro sono ormai tantissime. È una pratica legale, quindi bella e giusta, persino offerta dallo Stato. E del resto, chi mai potrebbe interferire con il desiderio tanto nobile di avere tra le mani – dopo anni di weekend Ryanair, Ibiza, cane, carriera, magari qualche aborto – un pupattolo tutto per sé?

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Ecco che, tuttavia, molte donne della borghesia nullipara si trovano ad affrontare una realtà inaspettata: la procedura per estrarre gli ovuli da miscelare nell’alambicco da cui salterà fuori, si spera, un figlio (altri verranno trucidati en passant) è più dura di quello che si pensa.

 

Procacciarsi gli spermatozoi si sa che non è difficile, è operazione veloce e indolore, ma il cosiddetto recupero transvaginale di ovociti (TVOR) – o semplicemente recupero di ovociti (OCR) – può comportare lesioni agli organi pelvici, emorragie e infezioni. L’emorragia ovarica dopo TVOR è una complicanza non troppo rara e potenzialmente catastrofica. 

 

Ulteriori guai possono derivare dalla sedazione o dall’anestesia generale. 

 

Le tecniche anestetiche a base di propofol producono concentrazioni significative del farmaco ipnotico nel liquido follicolare. Poiché è stato dimostrato (in un modello murino) che la sostanza ha effetti deleteri sulla fecondazione degli ovociti, qualche esperto ha suggerito che la dose dovrebbe essere limitata e gli ovociti recuperati sottoposti a lavaggio.

 

Il bombardamento ormonale è comunque uno sconquasso, fisico e psichico, e si sentono storie tremende di signore che si gonfiano a dismisura, che incorrono in squilibri nervosi, che rischiano danni gravi e irreversibili. Qualcuno testimonia di aver avuto, in cambio della «donazione» degli ovuli, il cancro.

 

Si rendono conto che conquistare il «bimbo in braccio» non è una passeggiata: tirarsi fuori gli ovuli è faticoso e pericoloso. Vuoi un figlio, sì, ma il destino e la medicina moderna ti fanno soffrire, magari pure ammalare – bella maledizione. Par di capire che, allora, più di qualcuno abbia adocchiato una alternativa per raggiungere l’agognato obiettivo senza pagarne lo scotto in salute, ma solo in denaro: basta acquistare gli ovuli prodotti da qualcun’altra, ripiegare sull’eterologa.

 

Pare di capire, cioè, che alle coppie borghesi che procreano in vitro oramai non importi più nulla di avere un figlio in continuità genetica. L’importante è vivere l’esperienza della «genitorialità» – come una sorta di prurigine edonista, una meta turistica da consumare con il correlato di foto e social – procurandosi il bambino-suppellettile, versione premium del cane, l’animale domestico umanoide da spupazzarsi ed esibire in società.

 

Il prodotto che dà senso, prima ancora che alla propria vita, alla station wagon o al SUV in leasing, alla cameretta iperaccessoriata. L’oggetto animato che permette di entrare finalmente nel giro delle amiche che sono diventate mamme. Un hobby stupendo: l’esperienza del pancione (cosa per cui la medicina si sta attrezzando con trapianti di utero, anche da morti e anche verso maschi), mille cose da fare, viaggi da programmare, scuole da decidere, vestitini da ordinare, foto di rito.

 

Il bimbo come un pacchetto Amazon: desiderato, ordinato, consegnato. Non stupiamoci se, a breve, potremo scegliere il modello e i colori prima di schiacciare sul tasto del pagamento per carta di credito.

 

Obnubilati dalle apparenze, non ci si rende conto che il piccolo essere umano è totalmente oggettualizzato, è divenuto un accessorio della coppietta moderna sradicata ed evacuata di ogni senso del sacro, di ogni legge naturale, di ogni principio umanizzante.

 

Ecco perché, una volta entrati nell’industria della vita sintetica, si viene risucchiati dalle sue logiche e non importa più a nessuno se il bambino sia cromosomicamente e geneticamente tuo figlio, oppure no. Nell’immoralità biologica più conclamata, molte fanno il pensiero ulteriore del «salto ovaiolo». 

 

Ecco perché la fecondazione eterologa, paletto cretino infilato nelle leggi procreatiche di 20 anni fa dai democristiani venduti, e spazzato via come da programma dalla magistratura costituzionale, dilaga in ogni dove senza più alcun argine possibile.

 

In pratica, uomini e donne accettano di diventare cornuti genetici.

 

Come riconosciuto da qualche anno negli USA, quello dell’ovocita diventa un ulteriore tema di sfruttamento: la signora borghese paga la studentessa squattrinata che deve mantenersi dall’università e, magari a lato di un’attività di meretricio, viene indotta ad essere depredate delle sue cellule uovo, dietro compenso.

 

La parte più dura la si fa fare ad altri. La si compra. Chiunque capisce quanto ciò sia diverso dall’adottare un bambino. 

 

La legge della giungla nazista, l’orrore della schiavitù del più debole è digerito e tollerato dallo spirito generale: siamo appena un gradino sotto all’utero in affitto, pratica amata non solo dagli omosessuali, ma anche dalle cosiddette too posh to push, troppo «eleganti per spingere», troppo sciure per la fatica del parto.

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Quindi apprendiamo che, nemmeno tanto sotto la superficie, pullula un mondo mostruoso di wannabe mamme sintetiche che comunicano e si consigliano. Immaginiamo: Gruppo Facebook «Essere Mamme in provetta». Gruppo Telegram «Scambio ovuli freschi». Gruppo Whatsapp «Gimme FIVET». Sappiamo che gli spermatozoi già vengono trafficati così. Con gli ovuli è più difficile, ma la mano invisibile del mercato non si ferma davanti a nulla.

 

Aggiungiamo, a mo’ di nota di terrore per le borghesi riprogenetiche, un piccolo particolare, sul quale in verità solo noi continuiamo ad insistere: nessuna delle signore in vitro ha per la mente il fatto che quello che si tengono in grembo, e poi si spupazzano là fuori, potrebbe essere una chimera umana. Cioè, tecnicamente, geneticamente, un piccolo «mostro».

 

La FIVET, con l’impianto di più embrioni, aumenta la possibilità non solo che gli embrioni più deboli possano morire, ma che – caso sempre meno raro visti i grandi numeri della pratica – i due embrioni si fondano in uno solo. Si ottengono così esseri con due DNA: alcuni organi dell’individuo appartengono al fratello mai nato, anzi, sono il fratello mai nato. Ci sono stati casi in cui il fratellino è divenuto l’apparato genitale: ecco che i suoi figli non saranno propriamente suoi, ma del «gemello» zootecnico mai nato e fuso con lui. In altri casi, si racconta, il «fratellino» chimerico continua a crescere, per tutta la vita, dentro al corpo del fratello ospite: troviamo occhi, capelli… Mostruoso. Sì. Letteralmente.

 

Questa storia non la racconta nessuno, perché anche chi dovrebbe farlo – i «prolife», i «cattolici», le «destre» – come per vaccini e altre aberrazioni, non vuole nemmeno iniziare a guardarci dentro. Basta abbaiare qualche slogan consunto passato dalla stanza dei bottoni, che per l’arrivo dei bambini scientifici briga da decenni.

 

L’abolizione dell’uomo passa da qui: dai borghesi viziati, e dai pusillanimi che non vogliono vedere, capire ed agire.

 

Chi vuole intendere, invece, rilegga la Rivelazione di San Giovanni dove si parla di coloro «il cui nome non è scritto nel libro della vita».

 

Roberto Dal Bosco

Elisabetta Frezza

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