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Civiltà

La lingua russa, l’amicizia fra i popoli, la civiltà

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Lo scorso 20 settembre l’ambasciatore della Federazione Russa in Italia, Alexey Paramonov, ha aperto le porte della sua residenza romana agli studenti italiani di lingua e letteratura russa presso la scuola della Casa Russa.

 

Io c’ero. Eravamo in tanti, dall’estremo Nord della penisola fino alla Sicilia.

 

Dell’accoglienza, impeccabile, nella splendida cornice di Villa Abamelek, ha colpito sopratutto ciò che è andato oltre i canoni della diplomazia: ci hanno conquistati la cordialità e il calore con cui l’ambasciatore si è rivolto a noi che, attraverso la via maestra della lingua, mostriamo il desiderio di avvicinarci alla sensibilità e alla cultura di un popolo la cui storia in parte parla anche italiano.

 

 

 

 

In un tempo in cui i codici comunicativi tendono inesorabilmente a immiserirsi, omologarsi, imbarbarirsi, intraprendere lo studio di un idioma identitario dalla straordinaria ricchezza espressiva – anche perché flesso e quindi più che mai duttile – e avventurarsi nei suoi meandri stilistici e nelle sue sonorità arcane, implica essere attratti dalla civiltà che ne è nutrita. Una civiltà, infatti, vive dentro la sua lingua – dentro la lingua che le fa da madre.

 

Per molte ragioni, sondate e insondate, il richiamo è reciproco. Sono rimasta ammirata, in questi anni, dalla conoscenza profonda che tanti russi vantano del nostro patrimonio artistico e letterario e dalla curiosità inesausta con cui continuano a esplorarlo.

 

Ancor più, sono rimasta stupita dall’affetto che, nonostante tutto, essi continuano a manifestare per l’Italia e per gli italiani.

 

Come per me, così per altri studenti con cui ho avuto modo di confrontarmi, cominciare a scoprire questa lingua dalle infinite suggestioni, è stata sì una scelta figlia della passione per la cultura lussureggiante che ne è intessuta, ma non solo: discende anche da una reazione istintiva alla demonizzazione illogica, innaturale, assurda, di tutto quanto proviene da una nazione legata all’Italia da un rapporto di scambio e di amicizia radicato nei secoli. Vuole essere un modo concreto per tendere la mano a un popolo che non ci è mai stato ostile.

 

Davanti alla mono-narrazione mediatica che ci è imposta senza soluzione di continuità, impermeabile alle fonti e a ogni voce alternativa; davanti a decisioni sciagurate di amministrazioni sciagurate giunte fino a impunemente bandire concerti di musicisti russi, gare di atleti russi, conferenze su grandi autori russi, siamo in tanti a sentire la necessità e il dovere di alzarci e dire: non in mio nome.

 

Elisabetta Frezza

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Renovatio 21 pubblica il discorso tenuto il 20 settembre agli studenti e amici della lingua russa dall’ambasciatore della Federazione Russa in Italia Aleksey Paramonov. Il discorso è stato pubblicato sul sito del ministero degli Esteri di Mosca.

 

Cari amici!

È proprio così che mi rivolgo a Voi, poiché chi è amico della lingua russa lo è anche della Russia e dell’Ambasciata russa in Italia. Vi do il benvenuto qui a Villa Abamelek, luogo dove si parla russo già da oltre 120 anni.

La lingua è strettamente legata alla mentalità e allo spirito di ciascun popolo. Sotto questo aspetto, la lingua russa è molto vicina a quella italiana. Nella vostra lingua, infatti, si riflette tutta la profondità storica che è propria di una civiltà romanza. Anche la lingua russa, così come la vostra lingua italiana, è l’articolata, pluridimensionale manifestazione di una civiltà, e non soltanto uno strumento atto a consentire la comunicazione. Non intendo certo offendere nessuno, ma ai nostri giorni la lingua inglese, anziché farsi mezzo di espressione culturale, si tramuta sempre più in uno strumento vuoto e privo di anima.

Per noi russi, la lingua e la cultura hanno un valore a sé. Noi appoggiamo l’istanza secondo cui l’identità etnica e culturale di ciascun individuo debba essere rispettata e debba trovare realizzazione nella libera interazione con altri individui. Noi promuoviamo l’importanza di quei valori che sono fondamentali ed eterni, e difendiamo il loro primato sui dettami legati al profitto e alle logiche del mercantilismo. Ci opponiamo fermamente a ogni tentativo di sfruttare la lingua, lo sport, la cultura e l’arte, così come altri aspetti dell’attività umana, come strumento per raggiungere scopi di carattere geopolitico. Tanto più se il fine è quello di dare prova della propria superiorità ed esclusività.

 

Oggi, per noi la cosa più importante è che quanti più individui possibile abbiano accesso a conoscenze oggettive sulla Russia, che la percepiscano e la accolgano nella sua completezza e in tutta la sua molteplicità. Noi non ci chiudiamo né ci nascondiamo da nessuno, al contrario dell’Unione Europea. Certo, potremmo non essere ancora un «Giardino dell’Eden», ma di sicuro non siamo la giungla. Il nostro è un «Giardino dei ciliegi». I «giardinieri» di Bruxelles non ci servono.

 

In occasione della recente presentazione del Concorso Musicale Intervision, il ministro degli Affari Esteri della Federazione Russa Sergej Lavrov si è espresso in modo molto chiaro: «Se osserviamo [l’attuale] contesto globale, la comunicazione tra le persone più diverse si rende necessaria adesso più che mai. Stanno cercando di dividerci, di costruire nuovi “muri”, stanno imponendo sanzioni e inasprendo le normative sui visti per tagliare fuori i russi dall’Occidente. In tali circostanze, la comunicazione saprà consolidare quelle naturali tendenze positive che spingono l’umanità a perseguire una sua evoluzione; umanità che, peraltro, in generale desidera soltanto vivere in pace e in prosperità, nonché avere la possibilità di comunicare e di farsi partecipe delle culture degli altri popoli».

 

Perciò, comunichiamo. Noi siamo sempre pronti e disposti alla comunicazione.

 

Ma parliamo adesso di ciò che riguarda il bello. Il grande scrittore russo Nikolaj Gogol’, originario dell’Ucraina, in una lettera indirizzata al suo amico Sergej Aksakov nel dicembre 1844, seppe descrivere con grande accuratezza la ricchezza della lingua russa: «di fronte a Voi si estende la vastità: è la lingua russa! E allora un profondo piacere Vi chiama, il piacere di immergerVi in tutta la sua immensità e di comprenderne le meravigliose leggi …».

 

Anche lo scrittore russo Konstantin Paustovskij seppe esprimersi in maniera accurata e concisa sulla lingua russa: «con la lingua russa si possono fare miracoli. Non esiste nulla, nella vita così come nella nostra coscienza, che non possa trovare espressione attraverso le parole russe. Le sonorità della musica, lo splendore dei colori in tutto il loro spettro cromatico, i giochi di luce, i rumori e le ombre nei giardini, quella vaghezza sperimentata in sogno, il grave brontolio del temporale, il bisbigliare dei bambini, fino allo scalpiccio generato dalla ghiaia sul mare. Non esistono suoni, colori, immagini o pensieri per i quali nella nostra lingua non vi sia già un’espressione ben precisa».

 

Dal bello, passiamo adesso al lato pratico. Al giorno d’oggi, la lingua russa è parlata da 255 milioni di persone in tutto il mondo. La lingua russa si trova al quinto posto tra le lingue più parlate. Il russo è lingua ufficiale o di lavoro in ben 15 organizzazioni internazionali. Da questo punto di vista, la lingua russa occupa la quarta posizione dopo l’inglese, il francese e lo spagnolo.

 

Il sistema di istruzione in Russia, nel quale rientra anche l’insegnamento della lingua russa, è aperto a tutti. La Russia si colloca tra i primi 10 Paesi al mondo per numero di studenti stranieri. Si stima che quest’anno il numero di studenti stranieri nelle università russe supererà le 400 mila unità, mentre si prevede che entro il 2030 tale cifra raggiungerà le 500 mila unità.

 

Ahimé, amici miei, questo lo si deve perlopiù all’incremento del numero di studenti provenienti dai Paesi dell’Africa, dell’America Latina, dell’India e del Medio Oriente.

 

Tuttavia, anche per gli italiani che desiderano studiare in Russia, la via di accesso alle nostre università è sempre aperta. Gli studenti italiani possono studiare nelle principali università russe gratuitamente, dopo aver superato una selezione che permette loro di ottenere una borsa di studio statale. Di tale procedura si occupa la Casa Russa a Roma. Già da questi giorni sarà possibile presentare la domanda, che potrà pervenire fino alla scadenza del 15 gennaio 2026. Non lasciatevi sfuggire questa opportunità. La quota di domande pervenute da studenti stranieri si distribuisce su tutte le specializzazioni e su tutti i programmi di studio sulla base dei medesimi requisiti stabiliti per i cittadini russi.

 

Sebbene in Italia il russo non sia la lingua più studiata, essa comunque occupa una nicchia importante; e la sua importanza è in crescita in una situazione caratterizzata da un ordine mondiale in rapida evoluzione, dal rafforzamento, al suo interno, del multipolarismo e dall’avvento dei BRICS e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai sul proscenio globale, nonché dal processo di creazione delle basi fondanti di quel Grande Partenariato Eurasiatico dal quale non siano esclusi neppure i Paesi situati sull’estremità più occidentale del continente eurasiatico. E diviene quindi ancor più prezioso il vostro contributo, cari amici, al consolidamento della tendenza legata allo studio della lingua russa in Italia. A frequentare i corsi della Casa Russa a Roma siete già in più di 600. Continuate così!

 

Desidero altresì esprimere la mia più sincera gratitudine dei confronti dei docenti di lingua e letteratura russa delle università di Catania, Venezia, Firenze, Roma e delle altre città italiane per il costante supporto mostrato nei confronti delle nostre iniziative, nonché per il fatto che, persino nel complesso momento attuale, sapete restare fedeli alla vostra missione. State portando avanti quel nobile lavoro, iniziato ormai più di 500 anni fa, atto ad avvicinare la Russia e l’Italia.

 

Il grande scrittore classico Ivan Turgenev, nel suo poema in prosa del 1882, che appunto si intitola «Lingua russa», scrisse: «Nei giorni del dubbio, nei giorni segnati dalla difficile e dolorosa riflessione sul destino della mia patria, tu sola sei per me di appoggio e di supporto, oh grande, potente, veritiera, libera lingua russa!».

 

Per questo motivo desidero rivolgermi a tutti coloro che in Italia parlano, leggono, scrivono, riflettono, amano e creano in lingua russa, o che soltanto adesso si apprestano ad immergersi nel meraviglioso mondo russo. Non lasciatevi cogliere da alcun dubbio! Sappiate che qui voi non siete soli! Le porte dell’Ambasciata della Federazione Russa in Italia e della Casa Russa a Roma rimarranno sempre aperte per Voi, per le Vostre iniziative e per i Vostri progetti, e accoglieranno sempre ogni opportunità di cooperazione culturale e umanistica. Perché dopotutto siamo amici, non è forse così?

 

Vi ringrazio per l’attenzione!

 

Alexej Paramonov

 

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Civiltà

Charlie Kirk e la barbarie social

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Charlie Kirk è stato brutalmente ammazzato durante uno dei suoi comizi in un campus universitario. Le immagini del momento in cui il proiettile gli ha perforato la gola hanno fatto il giro del mondo e sono raccapriccianti.   Questo assassinio porterà con sé implicazioni politiche enormi e imprevedibili. Kirk è uno dei principali artefici della vittoria elettorale di Trump, era in grado di spostare valanghe di voti perché in qualche suo modo calamitava e trascinava i più giovani, era un fenomeno generazionale imponente. Tant’è che la notizia dell’attentato ha colpito in primo luogo i ragazzi: i boomer delle colonie non lo conoscevano nemmeno, era fuori dal loro radar e lambiva solo tangenzialmente le loro stupide bolle algoritmiche.   Al di là di tutte le analisi che ora si ricameranno sul fatto, qui si vuole soltanto mettere in luce una cosa. Preme segnalare il punto di non ritorno a cui è giunta la fu-civiltà occidentale, intesa non nel senso dei Grandi Cattivi accomodati nella cabina di regia a godersi lo spettacolo di cui essi stessi muovono i fili, ma nel senso del resto del mondo: della moltitudine di comparse che quello spettacolo inscenano ogni giorno, per lo più inconsapevoli, obbedienti, passivi, acefali, rimbambiti.

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Tra loro, svettano sì gli scribacchini servi, coi loro inestirpabili automatismi verbali, che si precipitano a descrivere la vittima come putiniano, negazionista climatico, sostenitore della disinformazione sul COVID. Giusto per far intendere al lettore diffuso, già indottrinato a puntino, che quella fatta fuori, in fondo, non era una gran bella persona e dunque pazienza.   E il bravo cittadino progressista, russofobo, superinoculato, raccoglitore differenziato e guidatore di auto elettriche, recepisce la notizia e la archivia senza soverchi traumi.    Ma svettano ancor più quelli che si sentono in dovere di esprimere sui social la propria esultanza, protetti dallo scudo dell’anonimato di qualche nickname improbabile. Sono parecchi gli ellegibittì a fare festa, anche perché guarda caso la pallottola è andata a segno proprio quando Kirk aveva appena finito di rispondere a una domanda sugli stragisti trans.   Subito dietro, i pro-pal pavloviani, che saltellano felici per la morte violenta di un filoisraeliano. Ce ne sono tanti, tantissimi, a commentare in modo indicibile. Da quello che «uno sporco sionista in meno, avanti così»; a quell’altro che si guarderebbe «all’infinito in loop il video dell’attentato». Fino alla maestrina finto-moderata che spiega come Kirk ritenesse che i bambini palestinesi sono massacrati da Hamas e che Israele ha il diritto di difendersi. E dunque – ipertesto – tutto sommato questa morte ci sta, a parziale compensazione della strage della Striscia.    Ecco emergere dall’etere il sottoprodotto deteriore della polarizzazione ideologica indotta. Scatta in automatico la furia disumana e codarda dei tastieranti compulsivi, parassiti attempati con voluttà di orrore praticato per interposta persona. Schiumano rabbia e se ne vantano, sghignazzano e gioiscono alla vista di un giovane uomo che muore. Nessuna differenza dai soldati israeliani che riprendono le torture ai palestinesi e gli spari alla folla, e ridono roboticamente dei propri misfatti.   Tutto questo fa veramente orrore. Vedere i pochi secondi in cui da un ragazzo, padre di famiglia, fluisce via la vita, senza scampo, in un fiotto inarrestabile di sangue, evoca alla mente la morte di Ettore, colpito alla gola, «mortalissima parte», dalla lancia di Achille.   Ma lì c’era il combattimento, il corpo a corpo della battaglia finale tra uomo e uomo narrata dal bardo antico e tramandata ai posteri con la forza didascalica dell’epos: qui, nella confusione ormai piena tra il virtuale e il reale, il vile attacco a una persona inerme schizza in mondovisione come un qualsiasi trailer hollywoodiano.   E, barbarie nella barbarie, quell’atto infame scatena l’esaltazione isterica dei belluini sedentari, pronti ad applaudire la soppressione di un proprio simile che non la pensa come loro. Homo homini lupus, i barbari del terzo millennio vogliono così, sostenuti dalla potenza di fuoco dell’intermediario informatico che sa moltiplicare all’infinito e senza rete l’ebbrezza della ferocia più abietta e sanguinaria.

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La sparata assassina non la fai più al bar, dove qualcuno ti vede in faccia, la butti in pasto al popolo smanettatore e perdigiorno, e ti godi l’approvazione dei compagni d’asilo e del suo gestore, che ti premia perché la violenza tira.   Sarebbero dunque questi, i saggissimi antisistema? Quelli che dovrebbero insegnare alle nuove generazioni a pensare con la propria testa e a vivere da persone libere?   Sono relitti senza pietas, senza onore, senza dignità. Liquidatori delle ultime vestigia di una civiltà.    L’assassinio di Charlie Kirk sta aprendo un altro abisso di male, e di vergogna. Forse era proprio quello l’intento di chi lo ha voluto.   Elisabetta Frezza

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Civiltà

La Civiltà è amare i nostri nonni

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Francesco Rondolini è collaboratore e «complice» di Renovatio 21 da tantissimi anni. Francesco in questi giorni ha perso la nonna – a lui vanno le nostre più sentite condoglianze. Ci ha mandato questo testo sull’importanza dei nostri vecchi. Lo ripubblichiamo pensando a quanto sia vero, e giusto: il valore dei nonni – loro che hanno curato noi, noi che ora curiamo loro – non va dimenticato. Mai. Perché la Civiltà stessa dipende dall’amore che abbiamo per loro, e loro per noi.

 

Da sempre ho vissuto con i nonni e i genitori accompagnandoli fino all’ultimo giorno nelle loro rispettive sofferenze. Oggi siamo rimasti io e mia mamma.

 

Mia nonna, ultima rimasta, all’alba dei quasi cento anni se n’è andata serenamente. D’ora in poi mancherà quella routine giornaliera fatta di faccende domestiche in compagnia dei miei cari fino all’ultimo dei loro giorni, di concerto con il mio lavoro. Accudire e coccolare una persona anziana e bisognosa, è stato un privilegio raro che mi obbliga a ringraziare Dio ogni giorno per il miracolo che mi ha concesso di poterci convivere per oltre quarant’anni.

 

Un tempo speso per accumulare tradizione, sapienza, affetto, amore, coccole, gioie, ma anche dolori e difficoltà. La missione che mi sono trovato è stata senza apparente scelta: rimanere al fianco delle persone a me più care.

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Dopo la perdita di mia nonna, molte cose sono cambiate in un attimo, primo fra tutte, la fine di un’era della vita. Gli scherzi, i dialoghi mattutini dicendosi sempre le stesse cose, il prendersi cura, l’affetto reciproco, davano quello che è l’essenza stessa della vita, ossia la vicinanza sentimentale, la presenza, la condivisione di un qualcosa che con altri è impossibile condividere.

 

Una ricorrenza edificata dagli stessi gesti che dettano le giornate e danno un senso profondo alla quotidianità. Il valore prezioso dei nonni, tanto più se vivono nella stessa casa, è incommensurabile. La crescita, l’educazione impartita, in taluni casi persino il lavoro in condivisione, sono tasselli che si aggiungono ad una crescita formativa e spirituale.

 

In una società utilitaristica come quella in cui viviamo, troppe volte gli anziani appaiono come un peso, un ostacolo ai nostri desideri, un impiccio alla soddisfazione dei nostri effimeri egoismi. L’egoismo come ragion d’essere; «io voglio vivere la mia vita», «pretendo di vivere la mia vita», oscurati da qualsiasi afflato di bontà e carità verso il prossimo.

 

La disumanità che ci vede lasciare «i fragili» abbandonati a loro stessi, senza una telefonata, senza una visita, senza una carezza, senza una parola di conforto. Tutto questo in una società «moderna e inclusiva» è del tutto inaccettabile, ma evidentemente l’inclusività non deve ledere la mia libertà personale, le mie abitudini, la mia palestra, i miei aperitivi, le mie notti in discoteca, perché «ho bisogno dei miei spazi e devo godermi la vita».

 

L’effimero che sovrasta il sacrificio della sostanza, un vizio perverso di questo secolo.

 

Nella «demenza pandemica» dei distanziamenti sociali ci hanno detto che per preservare i nostri nonni dovevamo stargli lontano, isolarli, come dichiarò il capo della sanità dello Stato australiano del Queensland ha detto ai nonni di «non avvicinarsi ai propri nipoti».

 

Come aveva riportato questo sito, in Giappone uno studio accademico aveva registrato un omicidio ogni otto giorni, spesso accompagnato dal suicidio dal coniuge o del figlio che forniva assistenza domiciliare all’anziano. L’isolamento da COVID portò all’esplosione del problema. Il nodo della carenza di personale qualificato in grado di offrire sostegno, ha sottolineato la difficoltà nel reperire badanti o personale disposto ad aiutarci nella gestione dei nostri cari. 

 

 

 

Mi aveva impressionato, sempre su Renovatio 21, la storia di Yusuke Narita, assistente professore di economia a Yale , che ha lanciato una sua proposta per risolvere il problema dell’invecchiamento della popolazione giapponese: bassissimo tasso di nascite (come l’Italia) e il più alto debito pubblico nel mondo sviluppato portano il Paese alla prospettiva di non poter reggere il peso delle pensioni. «Sento che l’unica soluzione è abbastanza chiara. Alla fine, non può essere il suicidio di massa e il seppuku di massa degli anziani?»

 

Il Seppuku è un atto di sventramento rituale che era un codice tra i samurai disonorati nel XIX secolo. Per qualche ragione, in occidente lo chiamiamo harakiri, parola che è scritta con gli stessi ideogrammi ma è di letta in altro modo: il significato è lo stesso, il taglio della pancia, l’autosbudellamento rituale, quello che un po’ in tutto il mondo si conosce come peculiarità del Giappone con i suoi infiniti sensi del dovere.

 

Sempre qui abbiamo parlato degli abusi e delle violenze tanto che secondo una ricerca dell’Australian Institute of Family Studies (AIFS), quasi un anziano australiano su sei (14,8%) riferisce di aver subito abusi negli ultimi 12 mesi e solo circa un terzo di loro ha cercato aiuto.

 

L’utilitarismo nel tempo pandemico è arrivato al punto da sostenere che a fronte di un lieve aumento dei casi COVID, in Svizzera – in cui il suicidio assistito è cosa possibile – si tornò a parlare del protocollo medico per affrontare un eventuale sovraffollamento delle terapie intensive. Tale procedura avrebbe provveduto, in caso di scarsità di posti letto, che il medico competente poteva decidere di non accogliere «persone che avevano un’età superiore agli 85 anni» e persone con un’età superiore ai 75 anni che presentavano una di queste patologie: cirrosi epatica, insufficienza renale cronica al 3º stadio, insufficienza cardiaca di classe NYHA superiore a 1 e un tempo di sopravvivenza stimato meno di 24 mesi.

 

La solitudine e l’abbandono degli anziani è un altro annoso problema. I dati ufficiali del governo canadese mostrano che circa la metà delle persone che non sono malati terminali, desideravano porre fine alla propria vita tramite il suicidio assistito di Stato

 

L’Europa, l’ex culla della civiltà e della cristianità, per bocca del presidente del più grande fondo sanitario belga, Christian Mutualities (CM), ha chiesto una soluzione radicale al problema dell’invecchiamento della popolazione. Il politico Luc Van Gorp dichiarò ai media belgi che alle persone stanche della vita dovrebbe essere permesso di porvi fine.

 

La chiesa, la quale dovrebbe difendere e diffondere certi valori che inneggiano alla vita, spesso è assente e conforme allo spirito del tempo, anzi, a volte pare complice di certe «pratiche necroculturali» tanto che il Vaticano sembra aver spalancato definitivamente le porte all’eutanasia.

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Fortunatamente non tutti i porporati sono silenti su tali argomenti. L’arcivescovo Nikola Eterovic, nunzio apostolico in Germania, ha messo in guardia dal «suicidio» dell’Europa dovuto alla promozione dell’aborto, dell’eutanasia e dell’ideologia di genere. Monsignor Eterovic ha lanciato l’allarme durante un sermone nel suo paese d’origine, la Croazia, in merito alla grave crisi demografica che sta attraversando la civiltà occidentale, aggiungendo che l’Europa è afflitta da una «Cultura della morte» dovuta all’aborto e all’eutanasia. Vede il crollo demografico nella maggior parte dei paesi europei come un «segno di suicidio».

 

«La morte, preceduta dai dolori della malattia e dagli spasimi dell’agonia, è la separazione dell’anima dal corpo. Con la morte cessa il tempo della prova e comincia l’eternità», ci ricorda il bellissimo catechismo di San Pio X.

 

La vita è anche sofferenza e dolore. Non lasciamo i nostri anziani nel dolore dell’animo e della solitudine, non macchiamoci del peccato dell’indifferenza e dell’abbandono.

 

Io, con la mia nonna, ho fatto quanto dovevo – e non è stato nemmeno un sacrificio. Perché, in ultima, è facile capirlo: la civiltà si fonda davvero sull’amore. Anche quello per i nostri nonni.

 

Francesco Rondolini

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Civiltà

Professore universitario mette in guardia dall’«imperialismo cristiano europeo» nello spazio

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La preside di scienze sociali della Wesleyan University Mary-Jane Rubenstein, una «filosofa della scienza e della religione» (che è anche affiliata al programma di studi femministi, di genere e sessualità della scuola), afferma di aver notato come «molti dei fattori che hanno guidato l’imperialismo cristiano europeo» siano stati utilizzati in «forme ad alta velocità e alta tecnologia».   La Rubenstein si chiede se «pratiche coloniali» come «lo sfruttamento delle risorse ambientali e la distruzione dei paesaggi», il tutto «in nome di ideali quali il destino, la civiltà e la salvezza dell’umanità», faranno parte dell’espansione dell’uomo nello spazio.   Lo sfruttamento degli altri corpi celesti, quantomeno nel nostro sistema solare, è stata considerata in quanto vi è una ragionevole certezza che su altri pianeti vicini non vi sia la vita, nemmeno a livello microbico. Quindi, che importanza ha se aiutiamo a salvare la Terra sfruttando Marte, Mercurio, la fascia degli asteroidi, per minerali e altre risorse?

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Rubenstein nota che il presidente della Mars Society Robert Zubrin ha sostenuto esattamente questo. In un editoriale del 2020, Zubrin ha attaccato un «manifesto» da un gruppo NASA DEI (diversità, equità e inclusione) che aveva sostenuto «dobbiamo lavorare attivamente per impedire l’estrazione capitalista su altri mondi».   Ciò «dimostra brillantemente come le ideologie responsabili della distruzione dell’istruzione universitaria in discipline umanistiche possano essere messe al lavoro per abortire anche l’esplorazione spaziale», ha scritto lo Zubrin.   Lo Zubrin ha osservato che poiché il gruppo DEI non ha alcun senso su base scientifica, deve ricorrere a «una combinazione di antico misticismo panteistico e pensiero socialista postmoderno» – come affermare che anche se non ci sono prove nemmeno dell’esistenza di microbi su pianeti come Marte, «danneggiarli sarebbe immorale quanto qualsiasi cosa sia stata fatta ai nativi americani o agli africani».   Tuttavia la Rubenstein afferma che varie credenze indigene «sono in netto contrasto con l’insistenza di molti nel settore sul fatto che lo spazio sia vuoto e inanimato».   Tra questi vi sono un gruppo di nativi australiani che affermano che i loro antenati «guidano la vita umana dalla loro casa nella galassia» (e che i satelliti artificiali sono un pericolo per questa «relazione»), gli Inuit che sostengono che i loro antenati vivono in realtà su “corpi celesti” e i Navajo che considerano sacra la luna terrestre.   «Gli appassionati laici dello spazio non hanno bisogno di accettare che lo spazio sia popolato, animato o sacro per trattarlo con la cura e il rispetto che le comunità indigene richiedono all’industria», afferma la Rubenstein.   In effetti, in una recensione del libro di Rubenstein Astrotopia: The Dangerous Religion of the Corporate Space Race, la testata progressista Vox ha osservato che «in effetti, alcuni credono che questi corpi celesti dovrebbero avere diritti fondamentali propri».   Quindi, l’ordine degli accademici è che gli esseri umani dessero priorità alle credenze dei nativi nell’esplorazione dello spazio rispetto a quelle dei cristiani europei?   Dovremmo rinunciare all’estrazione di minerali preziosi da asteroidi, comete e pianeti vicini, perché hanno tutti una sorta di Carta dei diritti «mistica panteistica»?   I limiti posti ai programmi di esplorazione spaziale sono da sempre legati a movimenti antiumanisti che odiano la civiltà – in una parola alla Cultura della Morte.

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Lo stesso Zubrin, ex dipendente NASA frustrato dalla mancanza di un programma per la conquista di Marte e il suo terraforming, ne ha scritto in libri fondamentali come Merchants of Dispair (2013), dove spiega come la pseudoscienza e l’ambientalismo siano di fatto culti antiumani.   Lo Zubrin era animatore della Mars Society, un’associazione dedicata alla promozione dell’espansione su Marte, quando nei primi anni Duemila si presentò ad una serata del gruppo uno sconosciuto, che alla fine lasciò in donazione un assegno con una cifra inusitata per la Society, ben 5.000 dollari: si trattava di Elon Musk.   Il quale, marzianista convinto al punto da realizzare razzi che dice ci porteranno sul pianeta rosso tra quattro anni, è anche uno dei più accesi nemici del politicamente corretto, della cultura woke e soprattutto dell’antinatalismo, oltre che una persona che attivamente, negli anni – lo testimonia la sua costante attenzione per la storia della Roma antica – ha dimostrato di aver compreso il valore, e la fragilità, della civiltà umana.

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