Geopolitica
Israele rilancia la ricerca nucleare
Secondo il gruppo International Panel on Fissile Materials, Israele sta edificando nuovi impianti (circa 140 per 50 metri) all’interno della centrale nucleare militare di Dimona, il Centro per la ricerca nucleare nel deserto del Negev.
Dimona è da sempre sospettata di essere luogo di importanza del programma nucleare israeliano. I lavori per i nuovi impianti sarebbero cominciati a inizio 2019.
Israele sta edificando nuovi impianti (circa 140 per 50 metri) all’interno della centrale nucleare militare di Dimona
Israele e Pakistan sono i soli Paesi del Medio Oriente Allargato ad avere a disposizione bombe nucleari strategiche. L’Arabia Saudita ne posseide, ma solo di tipo tattico. Gli altri Stati della regione, come l’Iran, non ne possiedono.
Il programma atomico israeliano venne rivelato al mondo da Mordechai Vanunu, un tecnico nucleare ebreo (poi convertito al cristianesimo) divenuto attivista anti-nucleare.
Nel 1986 Vanunu raccontò al quotidiano britannico Sunday Times delle armi atomiche segrete dello Stato di Israele, ai tempi circa 220 testate nucleari, di cui 200 bombe atomiche più tecnologia e materiali necessarie per produrre 20 bombe all’idrogeno. Vanunu era un addetto alla centrale nucleare di Dimona, che risultava luogo di produzione di energia nucleare per scopi civili.
Israele e Pakistan sono i soli Paesi del Medio Oriente Allargato ad avere a disposizione bombe nucleari strategiche. L’Arabia Saudita ne posseide, ma solo di tipo tattico. Gli altri Stati della regione, come l’Iran, non ne possiedono.
Dopo lo scoop, agenti del Mossad lo rapirono a Roma, e, drogatolo, lo trasportarono portarono Israele, dove – in stile Eichmann – fu condannato per tradimento e spionaggio e condannato a 18 anni di carcere.
Un’altra storia poco nota è quella che riguarda il programma nucleare israeliano e la morte dei Kennedy.
Sulla materia vi è ancora molta nebbia, nonostante nel 2008 all’ONU il colonnello Gheddafi, parlando di Obama, disse al mondo che «abbiamo il sospetto che possa temere di essere ucciso da agenti israeliani e incontrare lo stesso destino di Kennedy quando ha promesso di esaminare il programma nucleare israeliano». I Kennedy infatti erano filosionisti ma pare non volessero in alcun modo accettare l’idea dello Stato ebraico dotato di armi atomiche.
Nel 2008 all’ONU il colonnello Gheddafi, parlando di Obama, disse al mondo che «abbiamo il sospetto che possa temere di essere ucciso da agenti israeliani e incontrare lo stesso destino di Kennedy quando ha promesso di esaminare il programma nucleare israeliano»
La pista israeliana, in particolare riguardo la morte di Kennedy non è praticamente stata mai battuta, e per vari motivi. La grande produzione hollywoodiana che rilanciò la teoria del complotto per uccidere Kennedy, il JFK di Oliver Stone, raccontava che dietro all’omicidio di Kennedy c’era di tutto: la CIA, i cubani anticastristi, apparati deviati, la mafia, perfino gruppi di crudelissimi omosessuali destroidi, ma mai, mai c’era traccia di personalità legate ad Israele, nonostante l’assassino di Oswald, Jack Ruby, fosse un noto esponente della mafia ebraica.
Il produttore del film era tale Arnon Milchan, il quale – come sarebbe emerso definitivamente in una biografia non autorizzata – era una spia israeliana incaricata delle forniture per il programma di armamento nucleare di Tel Aviv. Le sue attività, scrive il libro Confidential – The Life Of Secret Agent Turned Hollywood Tycoon, includevano «l’acquisto di componenti per costruire e mantenere l’arsenale nucleare israeliano» e la supervisione di “«onti sostenuti dal governo e società di copertura che finanziarono le esigenze speciali dell’intera attività di intelligence israeliana al di fuori del Paese».
Lo sforzo nucleare israeliano va avanti da decenni e decenni ed è arrivato toccare, con grande arte, perfino il cinema americano, usato come propaganda obliqua per lasciare le bombe dello Stato ebraico nella spirale del silenzio in cui ancora oggi si trovano
Il presidente israeliano Shimon Peres ebbe a dire di Milchan: «Arnon è un uomo speciale. Sono stato io a reclutarlo… Quando ero al Ministero della Difesa, Arnon era coinvolto in numerose attività di approvvigionamento e operazioni di intelligence legate alla difesa. La sua forza sta nel creare connessioni ai massimi livelli… Le sue attività ci hanno dato un enorme vantaggio, strategicamente, diplomaticamente e tecnologicamente».
Lo sforzo nucleare israeliano va avanti da decenni e decenni ed è arrivato toccare, con grande arte, perfino il cinema americano, usato come propaganda obliqua per lasciare le bombe dello Stato ebraico nella spirale del silenzio in cui ancora oggi si trovano.
Geopolitica
L’UNICEF denuncia come Israele ignora il cessate il fuoco ONU e continua il massacro di Gaza
In una conferenza stampa tenuta il 26 marzo a Rafah James Elders, portavoce del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), ha fornito un rapporto completo sulla devastazione a cui sta assistendo ora, dopo un’assenza di tre mesi. Lo riporta EIRN.
Elders ha riferito che i combattimenti notturni tra lunedì sera, 25 marzo e martedì 26 marzo avevano prodotto «un numero a due cifre di bambini uccisi», avvenuti «solo poche ore dopo l’approvazione della risoluzione» del Consiglio di Sicurezza.
Il funzionario UNICEF ha dichiarato che a Rafag ora si «discute infinitamente di un’operazione militare su larga scala». Questa è «una città di bambini. Ci sono 600.000 ragazze e ragazzi», ha detto, ma è «irriconoscibile a causa della congestione, delle tende agli angoli delle strade e dei terreni sabbiosi. La gente dorme per strada, negli edifici pubblici, in ogni altro spazio vuoto disponibile»
«A Rafah c’è circa un bagno ogni 850 persone. Per quanto riguarda le docce, il numero è quattro volte superiore: una doccia ogni 3.600 persone. Questo è un disprezzo infernale per i bisogni umani fondamentali e la dignità».
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«Un’offensiva militare a Rafah?» si è chiesto l’Elders. «Offensiva è la parola giusta. Rafah, sede di alcuni degli ultimi ospedali, rifugi, mercati e sistemi idrici rimasti a Gaza».
Il portavoce UNICEF ha anche visitato Khan Younis, a nord di Rafah, che secondo lui era irriconoscibile. «Esiste a malapena più. Nei miei 20 anni con le Nazioni Unite, non ho mai visto una tale devastazione. Solo caos e rovina, con macerie e detriti sparsi in ogni direzione. Annientamento totale».
L’ospedale Nasser, «un luogo così critico per i bambini feriti dalla guerra», non è più operativo. Infatti, solo un terzo degli ospedali di Gaza sono «parzialmente funzionanti». Cinque ospedali sono sotto assedio da parte delle forze israeliane.
Visitando la città di Jabalia, nel nord di Gaza, Elders ha riferito che tra l’1 e il 22 marzo, a un quarto delle 40 missioni di aiuto umanitario nel Nord di Gaza è stato negato l’ingresso nella Striscia. Ha assistito a centinaia di camion delle Nazioni Unite e di ONG internazionali, che trasportavano aiuti umanitari salvavita, rimasti indietro sul lato israeliano del confine, in attesa di entrare a Gaza.
Se il vecchio valico di Erez, a 10 minuti di distanza, fosse aperto, «potremmo risolvere questa crisi umanitaria nel nord nel giro di pochi giorni», ha detto Elders. Il portavoce dell’UNICEF ha concluso: «la privazione, la disperazione forzata, significa che la disperazione pervade la popolazione. E i nervi delle persone sono scossi da attacchi incessanti».
«L’indicibile viene regolarmente detto a Gaza. Dalle adolescenti che sperano di essere uccise; sentirsi dire che un bambino è l’ultimo sopravvissuto dell’intera famiglia. Tale orrore non è più unico qui (…) In tutto questo, tanti palestinesi coraggiosi, generosi e instancabili continuano a sostenersi a vicenda, e le agenzie sorelle delle Nazioni Unite e l’UNICEF continuano a farlo».
«Come abbiamo sentito ieri: il cessate il fuoco deve essere sostanziale, non simbolico. Gli ostaggi devono tornare a casa. Alla gente di Gaza deve essere permesso di vivere» ha dichiarato il funzionario onusiano.
«Nei tre mesi tra le mie visite, ogni numero orribile è aumentato drammaticamente. Gaza ha infranto i record dell’umanità nei suoi capitoli più oscuri. L’umanità deve ora scrivere urgentemente un capitolo diverso».
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Immagine di RafahKid Kid via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic; immagine tagliata
Geopolitica
Putin: non ci sono «nazioni ostili» per la Russia, solo «élite ostili»
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Geopolitica
Il presidente serbo lancia l’allarme: minacce dirette alla Serbia e ai serbi bosniaci
La Serbia sta attraversando giorni estremamente difficili, ha dichiarato il presidente Aleksandar Vucic, aggiungendo che sono in gioco gli interessi nazionali del Paese. Lo riporta RT.
La Nazione balcanica si è costantemente opposta ai tentativi della sua provincia separatista del Kosovo di aderire agli organismi internazionali, ma la regione ha recentemente fatto progressi in questo senso.
Mercoledì il leader serbo ha pubblicato un messaggio criptico su Instagram, avvertendo che «si prospettano giorni difficili per la Serbia» e che «in questo momento non è facile dire che tipo di notizie abbiamo ricevuto nelle ultime 48 ore».
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Gli sviluppi «minacciano direttamente gli interessi nazionali vitali sia della Serbia che della [Republika] Srpska», ha osservato Vucic, senza fornire ulteriori dettagli, dicendo solo che presenterà ai suoi concittadini le sfide future nei prossimi giorni.
La Republika Srpska è una regione parzialmente autonoma dominata dai serbi all’interno della Bosnia ed Erzegovina.
«Sarà dura… Combatteremo, la Serbia vincerà», ha aggiunto Vucic.
Anche se non è chiaro a cosa si riferisse Vucic, è pronto a incontrare mercoledì alti diplomatici di Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia e Italia, secondo il sito web Pink.rs. Si prevede che l’ordine del giorno dell’incontro verterà sulla richiesta del Kosovo di aderire al Consiglio d’Europa, organismo internazionale di vigilanza sui diritti umani.
Secondo Pink, Vucic «non perderà l’occasione di ripetere (…) che si è trattato di una mossa perfida che ha anche un peso simbolico poiché è stata compiuta proprio il giorno che è stato scritto a lettere nere nella memoria collettiva dei serbi».
Il giornale si riferiva al 25° anniversario dell’inizio della campagna di bombardamenti della NATO contro l’ex Jugoslavia per quello che il blocco ha definito «uso sproporzionato della forza» contro un’insurrezione di etnia albanese in Kosovo.
Verrà discussa anche la decisione della commissione permanente dell’Assemblea parlamentare della NATO di elevare la regione separatista del Kosovo allo status di membro associato. La decisione finale sulla questione è attesa per la fine di maggio.
Nel frattempo Radio Sarajevo ha fatto intendere che il presidente serbo avrebbe reagito alla decisione dell’alto rappresentante della Bosnia ed Erzegovina Christian Schmidt di modificare la legge elettorale del paese. L’Ufficio dell’Alto Rappresentante è un’organizzazione internazionale che sovrintende all’accordo di Dayton del 1995, che ha posto fine a una sanguinosa guerra nella Nazione balcanica.
Schmidt ha dichiarato martedì che utilizzerà la sua autorità per introdurre riforme del voto digitale come parte di un progetto pilota nel paese.
La mossa è stata accolta con il rifiuto del presidente della Republika Srpska Milorad Dodik, che ha detto che Schmidt non ha nulla a che fare con il processo elettorale, aggiungendo che «appartiene alle persone che vivono in Bosnia ed Erzegovina».
In una intervista all’agenzia russa TASS dello scorso mese il Vucic aveva dichiarato che la comunità internazionale non è più interessata a porre fine ai conflitti e vede invece la pace come un ideale «indesiderato».
Come riportato da Renovatio 21, settimane fa il presidente serbo aveva rincarato la dose accusando l’Occidente di perseguire una politica di «militarizzazione totale» per sconfiggere la Russia, che mette la regione e il mondo sull’orlo del disastro e sull’orlo della Terza Guerra Mondiale.
«Quello che sta succedendo adesso è una follia», aveva detto ai media regionali. «Tutti pensavano che Putin sarebbe stato sconfitto facilmente. Ora vedono che non è così».
Sei mesi fa il presidente serbo aveva detto che le forze di pace NATO hanno dato agli albanesi del Kosovo «carta bianca» per uccidere i serbi. «Il Kosovo vuole iniziare una guerra NATO-Serbia» aveva detto un anno fa il Vucic.
Come riportato da Renovatio 21, l’Italia pare essere già schierata nel teatro balcanico: il premier Giorgia Meloni aveva prima alzato la voce quando truppe italiane del contingente KFOR erano state ferite in un moto dei serbi kosovari, poi l’estate scorsa ha compiuto un bizzarro, enigmatico viaggio privato dal premier albanese Edi Rama, risaputo uomo proveniente dalle file dello speculatore internazionale Giorgio Soros.
In una intervista di mesi fa con Tucker Carlson il presidente ungherese Viktor Orban aveva rivelato che con il presidente serbo Vucic sarebbe d’accordo nel considerare un attacco al gasdotto South Stream, che porta il gas dalla Russia in Ungheria e Serbia, come un atto di guerra, al quale, dice, «reagiremo».
Tre mesi fa si era assistito ad un probabile tentativo di «maidanizzazione», a Belgrado a seguito delle elezioni. Alti funzionari serbi avevano descritto le proteste come un tentativo di «rivoluzione colorata» e hanno affermato di essere stati avvertiti dalla Russia: il presidente serbo Vucic aveva affermato che la protesta è stata sponsorizzata dalle potenze occidentali che volevano rimuoverlo dall’incarico per i suoi cordiali rapporti con la Russia e per il rifiuto di abbandonare le rivendicazioni della Serbia sul Kosovo, citando i rapporti dei servizi segreti stranieri.
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Immagine di European Union via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International; immagine tagliata
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