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Persecuzioni

India, demolita arbitrariamente una statua di Gesù

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews.

 

 

L’amministrazione locale ha rimosso l’immagine – presente da 18 anni – nonostante l’opposizione dei residenti. Ha sostenuto di eseguire gli ordini dell’Alta corte, mentre il caso in realtà era ancora pendente in tribunale. Da tempo gli ultranazionalisti indù rivendicano il territorio su cui sorge la chiesa locale.

 

 

Non solo di hijab si discute in Karnataka. Nei giorni scorsi l’ufficio dell’amministrazione regionale a Mulbagal ha demolito una statua di Gesù che si trovava nel villaggio di Gokunte nel distretto di Kolar.

 

Il tehsildar (funzionario regionale) di Mulbagal, Shobhita, ha dato l’assenso alla demolizione sostenendo che la statua era stata costruita su un terreno governativo riservato al pascolo degli animali. Shobhita ha dichiarato che è stata l’Alta corte a ordinarne la demolizione. Ma i cristiani locali hanno risposto che in realtà la statua è stata abbattuta illegalmente perché il caso era ancora pendente in tribunale.

 

Il 14 febbraio l’amministratore e centinaia di poliziotti hanno raggiunto il villaggio di Gokunte. La statua di Gesù, alta circa 6 metri, è stata distrutta verso le 3 del mattino nonostante l’opposizione dei residenti locali.

 

«Abbiamo agito secondo gli ordini dell’Alta corte. Dopo sette o otto udienze il tribunale aveva ordinato la demolizione e aveva mandato un avviso alla Chiesa a riguardo», ha detto il funzionario Shobhita, aggiungendo che l’ordine di demolizione era stato emesso nel marzo dello scorso anno e che l’amministrazione locale doveva presentare entro ieri il rapporto di conformità al tribunale.

 

I leader cristiani hanno però contestato le affermazioni del tehsildar, sostenendo che la questione fosse rimasta in sospeso. Padre Theres Babu, sacerdote e avvocato, ha detto di non aver mai ricevuto alcuna lettera di avviso di demolizione.

 

“La questione risulta ancora pendente in tribunale e aspettavamo l’udienza del 16 febbraio (ieri). Il governo ha detto più volte di aver mandato una lettera, ma non è chiaro se fosse una sentenza. In ogni caso nessuno ci ha mostrato l’ordine”. ha spiegato padre Babu.

 

Ryappa, un fedele cristiano di Gokunte, sostiene che i residenti locali si siano opposti alla decisione: «C’erano centinaia di agenti della polizia. Pregavamo intorno alla statua dal 2004, ma non ci hanno ascoltato e l’hanno rimossa con degli scavatori».

 

«Anche se abbiano chiesto all’amministrazione di rimuovere la statua in sicurezza e di consegnarcela – ha continuato Rayappa – è stata demolita e portata via con un trattore. Anche un arco e una decina di piccole statue sono andate distrutte. Le avevamo costruite mettendo da parte un po’ di fondi e lavorando duramente».

 

La statua sorgeva vicino alla chiesa di San Francesco Saverio ed era stata posizionata lì nel 2004. Secondo gli abitanti di Gokunte il ricorso al tribunale era stato presentato da alcuni membri di organizzaizoni pro-indù.

 

Il prete della chiesa di San Francesco Saverio, che non ha voluto essere nominato, ha dichiarato di essere sotto shock dopo la demolizione.

 

«Per decenni abbiamo ricevuto lettere di rivendicazione sul terreno. Ma abbiamo sempre continuato con le nostre attività perché avevamo il documento di proprietà», ha spiegato ad AsiaNews il religioso. «Ma poi lo scorso anno un sostenitore dell’ultranazionalismo indù di Bangarpet ha presentato una petizione all’Alta corte e ha diffuso notizie false dicendo che abbiamo occupato 300 acri di terra».

 

Il villaggio di Gokunte, a soli due chilometri di confine con l’Andhra Pradesh, ha una popolazione tra le 500 e le 600 persone. Ad esclusione di quattro famiglie, tutti gli abitanti seguono la fede cattolica.

 

 

 

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Persecuzioni

Attaccata una chiesa filippina nella domenica di Pentecoste

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il raid risale al 19 maggio, domenica di Pentecoste. Due uomini a bordo di una motocicletta hanno lanciato una granata durante la funzione. Marybel Atis, 40 anni, e Rosita Tubilo, 65 anni, sono state investite dalle schegge riportando diverse ferite. Card. Quevedo: attentato «scellerato» e «atto sacrilego». Appello alle autorità perché sia fatta giustizia.

 

Dai vertici presidenziali a personalità di primo piano della Chiesa cattolica è unanime la condanna per l’attacco a colpi di granate che si è consumato il 19 maggio scorso, domenica di Pentecoste, in una cappella di preghiera a Cotabato, nel sud della Filippine.

 

Obiettivo dell’assalto la Santo Niño Chapel, nell’area di Barangay Rosary Heights 3, al cui interno era in corso una lettura della Bibbia. Secondo le prime ricostruzioni, due uomini a bordo di una motocicletta hanno lanciato una granata nel luogo di culto colpendo due fedeli presenti al momento della funzione: Marybel Atis, 40 anni, e Rosita Tubilo, 65 anni, sono state investite da alcune schegge riportato diverse ferite.

 

Commentando la vicenda il card. Orlando Quevedo, arcivescovo emerito di Cotabato, parla di «scellerato attentato» e di un «orrendo atto sacrilego che grida al cielo». Per il porporato si tratta di un «crimine che merita una durissima condanna» perché commesso contro semplici fedeli «riuniti per adorare Dio in un luogo sacro».

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Il cardinale, che è anche membro in rappresentanza delle comunità cristiane del Consiglio dei leader della Regione autonoma del Bangsamoro nel Mindanao musulmano, regione travagliata dove è in atto una lotta di potere in vista del voto del 2025, invita le autorità a garantire giustizia alle vittime.

 

«Faccio appello alle nostre forze di sicurezza, militari e investigative – conclude la nota dell’arcivescovo emerito di Cotabato – affinché individuino i responsabili e li consegnino alla giustizia».

 

Immediata e unanime anche la condanna del governo di Manila. L’assalto a colpi di granate a una cappella cattolica nella città di Cotabato è stato un «attacco diretto» alla libertà religiosa, all’impegno «del popolo filippino alla pratica del culto» e alla «convivenza pacifica» come ha sottolineato Carlito Galvez Jr.

 

Il consigliere presidenziale per la Pace, la riconciliazione e l’unità (Opapru) ha quindi ricordato come il raid è avvenuto in occasione della Pentecoste, giorno carico di significato per i cattolici. «Estendiamo la nostra solidarietà – ha concluso – alle famiglie dei feriti in questo incidente e auguriamo loro una completa e rapida guarigione», mentre l’attacco non farà venire meno l’impegno del governo nel perseguire una pace duratura nella regione.

 

Parole che non bastano a placare i timori di una comunità cattolica già oggetto nel recente passato di sanguinosi attentati nell’area. Di questi è ancora viva la memoria della bomba esplosa in una chiesa di Marawi nel dicembre scorso, colpendo un simbolo di pace e convivenza e marchiando con il sangue l’inizio dell’Avvento.

 

Nell’esplosione dell’ordigno durante la messa sono morte quattro persone, decine i feriti in un attacco rivendicato nei giorni successivi dallo Stato islamico, attivo nell’area. Interpellato da AsiaNews padre Sebastiano D’Ambra, 81enne sacerdote del PIME dal 1977 nelle Filippine, profondo conoscitore dei gruppi (anche armati) musulmani attivi nel sud dell’arcipelago, spiegava che l’attacco era collegato agli «scontri» fra militari e gruppi legati a Daesh o alleati.

 

Con questa azione «indiscriminata, si sarebbero vendicati, ottenendo anche la visibilità che cercavano».

 

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Pakistan, conversioni forzate: tentato avvelenamento di un cristiano di 13 anni

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Saim era uscito di casa per andare a tagliarsi i capelli, quando una guardia di sicurezza, che aveva notato addosso al ragazzo una collana con la croce, ha iniziato a chiedergli di recitare preghiere islamiche. Il giovane, dopo essersi rifiutato, è stato costretto a ingerire una sostanza nociva.   In Pakistan si è verificato l’ennesimo tentativo di conversione forzata nei confronti di un ragazzo cristiano di 13 anni, costretto a ingerire una sostanza tossica dopo essersi rifiutato di abbracciare l’Islam.   L’episodio è avvenuto nella città di Lahore il 13 aprile: Saim era uscito di casa per andare a tagliarsi i capelli, ma è stato fermato da una guardia di sicurezza musulmana che aveva notato che il ragazzo aveva al collo una croce. La guardia, di nome Qadar Khan, ha strappato la collana e costretto Saim a recitare una preghiera islamica, ma il ragazzo si è rifiutato, dicendo di essere cristiano. L’uomo ha quindi costretto Saim a ingerire una sostanza tossica nel tentativo di avvelenarlo.   Sono stati i genitori del giovane a trovare il corpo del figlio senza conoscenza dopo diverse ore che Saim mancava da casa. Il padre, Liyaqat Randhava, si è rivolto alla polizia ma ha raccontato di aver ricevuto un trattamento iniquo.   Gli agenti hanno registrato la denuncia solo dopo diverse insistenze e una copia del documento non è stata rilasciata alla famiglia di Saim, ha detto. Inoltre, diverse parti del racconto non sono state incluse nella denuncia (chiamata anche primo rapporto informativo o FIR).   Joseph Johnson, presidente di Voice for Justice, ha espresso profonda preoccupazione per i crescenti episodi di conversioni religiose forzate in Pakistan e ha condannato quanto successo a Saim, aggiungendo che la polizia sta mostrando estrema negligenza nel caso.   «Evitando di includere i dettagli cruciali nel FIR, la polizia ha sottoposto Saim e la sua famiglia a ulteriori abusi», ha affermato Johnson, chiedendo l’intervento del governo per un’indagine.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.  

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Immagine di Guilhem Vellut via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
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Un prete e un laico «spariti» nella diocesi di Baoding in Cina

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Fonti di AsiaNews raccontano l’apprensione per due persone della comunità cattolica clandestina dell’Hebei di cui non si hanno notizie da giorni. Si sospetta siano sottoposte a misure restrittive da parte delle autorità locali come già avvenuto in altri casi. In questa stessa diocesi dove un secolo fa il Concilio di Shanghai volle il santuario mariano di Donglu, restano fortissime le pressioni sulle comunità che rifiutano la registrazione negli organismi «ufficiali» della Chiesa in Cina.

 

Nuove notizie di persone sparite, con molta probabilità vittime di provvedimenti restrittivi da parte delle autorità locali, giungono dalla diocesi di Baoding, nella provincia dell’Hebei, dove vive una delle più folte comunità cattoliche clandestine in Cina. Fonti di AsiaNews hanno segnalato due casi avvenuti nelle ultime settimane.

 

Dal 17 aprile non si hanno più notizie di padre Chi Huitian, un sacerdote della contea di Zhao, scomparso dalla sua casa.

 

«Nato in una famiglia di cattolici devoti – raccontano alcuni fedeli della diocesi di Baoding – è stato uno zelante servitore del Signore fin dall’infanzia. Diventato sacerdote si è dedicato al servizio della parrocchia. Chiediamo ai nostri fratelli e sorelle di pregare per lui e di chiedere al Signore di ricolmarlo dello Spirito Santo per guidarlo e proteggerlo».

 

Pochi giorni dopo – il 29 aprile a Zhangjiakou, sempre nella provincia dell’Hebei – è scomparso anche un laico della comunità, il prof. Chen Hekun. «La sua famiglia e i suoi amici lo stanno cercando» continuano le fonti di AsiaNews. «Ci auguriamo che chi sa dove si trova possa aiutarci. Nello stesso tempo chiediamo di pregare per lui, perché il Signore lo sostenga».

 

La comunità cattolica sotterranea di Baoding è una tra le più colpite in Cina nella repressione della libertà religiosa. Già in passato sono avvenuti casi di sacerdoti sottoposti alla guanzhi, una forma di restrizione di movimenti e attività che può durare fino a tre anni, durante la quale sono sottomessi a sessioni politiche e costrizioni per aderire agli organismi «ufficiali» controllati dal Partito della Chiesa in Cina.

 

Lo stesso vescovo Giacomo Su Zhimin fu arrestato nel 1997 in relazione ai pellegrinaggi a Donglu, luogo legato a una presunta apparizione mariana durante la rivolta dei Boxer nel 1900 e dove un santuario intitolato a Nostra Signora della Cina fu costruito proprio per volontà del Concilio di Shanghai, lo storico incontro dei vescovi del 1924 di cui in questi giorni ricorre il centenario. Mons. Su Zhimin (che oggi avrebbe 92 anni) ricomparve solo una volta nell’ospedale di Baoding nel 2003. Da allora non ci sono più state sue notizie certe su di lui.

 

La diocesi «ufficiale» oggi è guidata da mons. Francis An Shuxin, oggi 77enne, già giovane vescovo ausiliare di Baoding. Anche lui dal 1996 ha trascorso dieci anni agli arresti, ma ha poi deciso di lasciare la comunità sotterranea registrandosi presso le autorità. Ma questo ha creato una spaccatura, con i sacerdoti e i fedeli «clandestini» che non lo riconoscono più come il proprio vescovo.

 

Va anche aggiunto che la diocesi di Baoding è anche quella dove – come raccontavamo su AsiaNews – le autorità locali hanno adottato eccezionali misure di sicurezza in occasione del Natale scorso, imponendo blocchi del traffico e deviazioni dei percorsi degli autobus per evitare la zona della cattedrale, impedendo l’ingresso dei bambini alla Veglia natalizia e vietando di esporre oggetti che richiamino il Natale nei dormitori delle università.

 

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