Geopolitica
Il venerdì diverrà giornata lavorativa anche in Arabia Saudita?

L’Arabia Saudita seguirà l’esempio degli Emirati Arabi Uniti facendo del venerdì, giorno sacro per l’Islam, un giorno lavorativo? In ogni caso, un sondaggio è appena stato lanciato da uno dei maggiori quotidiani del regno.
«Venerdì è un giorno lavorativo». L’articolo è apparso all’inizio di agosto 2023 sulle colonne del quotidiano Okaz, dalla penna di una donna, Mona al-Otaibi.
La giornalista spiega che le perdite finanziarie subite dall’Arabia Saudita a causa della chiusura delle attività commerciali e dei centri finanziari del regno il venerdì potrebbero cambiare le cose, seguendo l’esempio degli Emirati Arabi Uniti (EAU) che nel 2021 hanno spostato la festività del venerdì alla domenica.
Il Qatar, membro del Gulf Cooperation Council (GCC), è stato uno dei primi ad adottare il fine settimana venerdì-sabato circa 20 anni fa, seguito dal Bahrain nel 2006 e dal Kuwait l’anno successivo. Il Sultanato dell’Oman ha attuato il cambiamento nel 2013. Nel mondo arabo, Algeria, Egitto, Giordania, Libia e Iraq hanno adottato questo regime, mentre Libano, Marocco e Tunisia rendono il sabato e la domenica giorni liberi, anche se sono previste chiusure temporanee per partecipare alla preghiera del venerdì.
Inutile dire che la riflessione di Mona al-Otaibi ha infiammato i social del Paese, tra sostenitori e oppositori di una concessione alla modernità vista da molti come una vera e propria eresia: non è forse scritto nel Corano, «O credenti, quando viene fatto l’annuncio per l’orazione del Venerdì, accorrete al ricordo di Allah e lasciate ogni traffico. Ciò è meglio per voi, se lo sapeste»? (Sura 62, versetto 9)
«Le preghiere del venerdì diventeranno preghiere di mezzogiorno nei luoghi di lavoro», si offende un utente di Internet, mentre un altro suggerisce che il regno un giorno inizierà a emulare la Gente del Libro (ebrei e cristiani). Infine, c’è chi critica l’idea di un cambiamento che metterebbe il Paese di Maometto dietro ai suoi grandi rivali nella penisola arabica.
Un eminente dissidente saudita, reagendo su Twitter, vede in questo articolo la mano nascosta di Saud al-Qahtani, ex consigliere del re Abadallah ed erede principale Mohammed bin Salman (MbS), destituito nel 2018 per la sua comprovata partecipazione all’assassinio dell’avversario Jamal Khashoggi, strangolato e poi smembrato presso l’ambasciata dell’Arabia Saudita a Istanbul.
Con l’attuazione del piano «Vision 2030» nel 2016, MvS, che è attualmente l’uomo forte del regno wahhabita, intende riformare il Paese in profondità per portarlo fuori dalla sua storica dipendenza dal petrolio diversificando la sua economia e ricorrendo alla privatizzazione. Per realizzare il suo progetto, il futuro re si adopera per liberare la sfera sociale dal peso della sharia quando gli sembra contraria agli interessi del Paese.
Tuttavia, gli arresti dei dissidenti e le regolari epurazioni hanno gettato più ombre su un vero cambiamento il cui vero motore sembra essere più Mammona che il Corano, secondo più di un osservatore.
I cristiani rappresentano circa il 4% della popolazione dell’Arabia Saudita – ovvero 1,5 milioni – e sono principalmente espatriati residenti nel Paese. Prevalentemente cattolica, questa minoranza dipende dal Vicariato apostolico dell’Arabia settentrionale, a capo del quale dal gennaio 2023 è padre Aldo Berardi, francese appartenente all’Ordine dei Trinitari fondato da San Giovanni de Matha nel 1193, il cui obiettivo era liberare i cristiani catturati o perseguitati dai musulmani.
Articolo previamente apparso su FSSPX.news.
Geopolitica
L’incontro Trump-Zelensky è stato «pessimo». Accenni al tunnel eurasiatico-americano

L’incontro di venerdì alla Casa Bianca tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj è stato descritto come «teso», con Zelensky che non è riuscito a ottenere la consegna dei missili a lungo raggio Tomahawk. Lo riporta la testata Axios, citando fonti informate.
Trump ha comunicato allo Zelens’kyj che non intende fornire i Tomahawk «almeno per il momento», hanno rivelato due fonti a conoscenza dell’incontro. I colloqui, durati circa due ore e mezza, sono stati definiti da una fonte come «non facili» e da un’altra come «difficili». A momenti, la discussione è diventata «un po’ emotiva», secondo il rapporto.
«Nessuno ha alzato la voce, ma Trump è stato fermo», ha dichiarato una fonte ad Axios. L’incontro si è concluso bruscamente quando Trump avrebbe detto: «Penso che abbiamo finito. Vediamo cosa succede la prossima settimana», probabilmente riferendosi ai colloqui imminenti tra Russia e Stati Uniti.
Parlando successivamente con i giornalisti, lo Zelens’kyj ha evitato di rispondere a domande sulle forniture di Tomahawk, limitandosi a dire che gli Stati Uniti «non desiderano un’escalation».
Trump ha sottolineato che per Washington «non è semplice» fornire i missili, poiché gli Stati Uniti devono preservare le proprie scorte per la difesa nazionale. Ha anche riconosciuto che autorizzare Kiev a condurre attacchi in profondità in Russia potrebbe portare a un’escalation del conflitto.
Mosca ha avvertito che fornire missili all’Ucraina «non cambierebbe la situazione sul campo di battaglia», ma «comprometterebbe gravemente le prospettive di una soluzione pacifica» e danneggerebbe le relazioni tra Russia e Stati Uniti.
Lo Zelens’kyj ha cercato per settimane di ottenere i missili Tomahawk, con una gittata massima di 2.500 km, insistendo che l’Ucraina li avrebbe utilizzati solo contro obiettivi militari per aumentare la pressione sulla Russia e favorire un accordo di pace. Tuttavia, il leader ucraino ha minacciato blackout nelle regioni di confine russe e a Mosca. Funzionari russi hanno anche suggerito che Kiev intenda usare i missili per «attacchi terroristici».
Durante i momenti con la stampa, il presidente ha prodotto una scena imprevedibile quando ha parlato della discussione avuta con Putin di un tunnel tra l’Alaska e la Siberia, chiedendo quindi allo Zelens’kyj cosa ne pensasse. L’ex attore ha risposto con tempi comici «non sono felice di questa cosa», sorridendo. «Non credo che gli piaccia» ha detto Trump ridendo.
Reporter: Are you interested in a Putin-Trump tunnel to connect Russia and Alaska?
Trump: Just heard about that one. Interesting idea — we’ll think about it. What do you think, Mr. President?
Zelensky: I’m not happy about this
— Alice Williams (@afreegirlll) October 18, 2025
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Il progetto di tunnello sotto lo stretto di Bering, che tocca le isole Diomede, esiste da molto tempo.
Il concetto di un collegamento tra i due continenti (un ponte o tunnel chiamato «Kennedy-Khrushchev World Peace Bridge») è emerso durante la Guerra Fredda, con proposte già nel 1905 dall’Impero Russo e nel 1904 da magnati ferroviari americani. Nel 2007, la Russia ha pianificato un tunnel da $65 miliardi come parte di una rete ferroviaria trans-siberiana. Nel 2011, funzionari russi hanno sostenuto un tunnel da 100 km per collegare Yakutsk a Komsomolsk-on-Amur, estendendolo all’Alaska. Nel 2015, si è parlato di una collaborazione Russia-Cina per un ponte stradale con oleodotti.
Il 16 ottobre 2025, Kirill Dmitriev, inviato per gli investimenti del presidente russo Vladimir Putin e CEO del Fondo Russo per gli Investimenti Diretti (RDIF), ha proposto il «Putin-Trump Tunnel» su X (ex Twitter), rivolgendosi direttamente a Elon Musk e alla sua Boring Company, l’azienda che crea tunnelli stradali. Il Dmitriev lo ha descritto come un «simbolo di unità» per collegare le Americhe all’Eurasia.
Dmitriev ha rivelato che uno studio di fattibilità è iniziato sei mesi fa (aprile 2025), con RDIF che ha già esperienza in ponti come quello Russia-Cina.
Con i suoi 112 chilometri di lunghezza, si tratterebbe del tunnel più lungo del mondo. Un costo stimato sarebbe di 65 miliardi, ma riducibile, per una durata di lavori di meno di otto anni.
Come riportato da Renovatio 21, l’incontro Trump-Zelens’kyj è seguito a una telefonata tra Trump e Putin, dopo la quale entrambe le parti hanno espresso l’intenzione di organizzare un vertice a Budapest, in Ungheria, nel prossimo futuro.
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr
Geopolitica
Trump e Putin si telefonano: «può portare alla pace»

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Geopolitica
Budapest si prepara ad ospitare il vertice Putin-Trump

L’Ungheria e la Russia hanno avviato discussioni sui preparativi per il vertice tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, previsto a Budapest, ha annunciato il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto.
In un post su Facebook pubblicato venerdì, Szijjarto ha riferito di aver avuto una conversazione telefonica con Yury Ushakov, principale consigliere di Putin per la politica estera, confermando che «i preparativi sono in pieno svolgimento».
Il primo ministro ungherese Viktor Orban ha dichiarato di aver parlato al telefono con Putin venerdì. Szijjártó ha aggiunto che il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov e il Segretario di Stato americano Marco Rubio si incontreranno più tardi nella stessa giornata.
Szijjarto ha sottolineato che l’Ungheria è pronta a garantire la sicurezza dei colloqui tra Russia e Stati Uniti, che si concentreranno sul conflitto ucraino, e che Budapest accoglierà Putin con rispetto, assicurandogli libertà di movimento da e per il Paese.
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Giovedì Orban aveva annunciato che Budapest è pronta a ospitare l’incontro tra i due presidenti, definendolo «una grande notizia per i popoli amanti della pace nel mondo» e descrivendo l’Ungheria come «un’isola di pace».
L’incontro tra Trump e Putin è stato annunciato per la prima volta dal presidente statunitense giovedì, dopo una telefonata tra i due leader, la prima in quasi due mesi, durata oltre due ore secondo il Cremlino e la Casa Bianca. Trump ha definito la conversazione «molto produttiva», sottolineando che «sono stati compiuti grandi progressi».
Anche il Cremlino ha confermato il vertice programmato, con Ushakov che ha dichiarato che i preparativi sarebbero iniziati «senza indugio». Ha precisato che Budapest era stata proposta come sede dell’incontro da Trump e che Putin aveva subito appoggiato l’idea.
L’ultimo incontro tra Putin e Trump si era tenuto a metà agosto in Alaska, incentrato sul conflitto in Ucraina e sul rilancio delle relazioni tra Russia e Stati Uniti. È stato il loro primo faccia a faccia dal 2019. Entrambi i leader avevano definito il vertice produttivo, pur senza registrare progressi significativi.
Sebbene i contatti tra Mosca e Washington siano successivamente diminuiti, Lavrov ha dichiarato all’inizio di questa settimana che il processo avviato in Alaska «non è concluso» e che le due nazioni hanno ancora «molto da fare».
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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