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Il premier britannico vieta definitavamente le «spade ninje». È ora che l’italiano inizi a chiamarle così

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Le spade ninja sono ora vietate in Inghilterra e Galles in base alle nuove leggi entrate in vigore venerdì, ha confermato il Ministero dell’Interno del Regno Unito. Possederne una in pubblico può comportare una pena detentiva fino a quattro anni.

 

Il cambiamento fa parte di un più ampio sforzo governativo per arginare la violenza con l’uso di coltelli. Oltre 1.000 armi sono state consegnate a luglio durante una campagna di amnistia durata un mese, volta a rimuovere oggetti pericolosi dalle strade, secondo il ministero dell’Interno.

 

Il divieto segue una serie di attacchi mortali con coltello che hanno sconvolto la nazione. Nel 2024, il diciassettenne Axel Rudakubana uccise tre ragazze e ne ferì altre 10 durante un recital per bambini a tema Taylor Swift a Southport.

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L’attacco ha riacceso la rabbia pubblica e ha spinto i ministri a promettere norme più severe sulla vendita di armi online, controlli più rigorosi sull’età e divieti su alcuni oggetti da taglio come coltelli da zombie e machete.

 

Nel 2024, il premier britannico Keir Starmer dichiarò che i crimini legati all’uso di coltelli avevano raggiunto livelli epidemici e promise di reprimere le armi letali. In seguito confermò che le spade ninje sarebbero state vietate e affermò che il governo avrebbe mantenuto le promesse.

 

La nuova legge fa parte della «Legge Ronan», che prende il nome dal sedicenne Ronan Kanda, ucciso nel 2022 con una spada ninja. L’Associazione dei Commissari di Polizia e Criminalità (APCC) ha affermato che il divieto contribuirà a ridurre la presenza di queste armi, soprattutto nei casi di violenza tra bande.

 

L’APCC ha inoltre dichiarato che intende indagare sul perché le persone portino con sé coltelli e su come impedirlo, aggiungendo che il divieto conferisce alla polizia poteri aggiuntivi per sequestrare tali armi e proteggere le comunità.

 

Possedere una spada ninja in casa comporta una pena fino a sei mesi di carcere, ma potrebbe aumentare a due anni in base a un nuovo disegno di legge sulla criminalità e la polizia attualmente all’esame del Parlamento.

 

Secondo i dati ufficiali pubblicati dal ministero degli Interni e dall’Home Office britannici, i reati con arma bianca in Inghilterra e Galles sono aumentati dell’87% nell’ultimo decennio. Solo nell’ultimo anno sono stati segnalati quasi 55.000 episodi legati all’uso di armi bianche, con un aumento del 2% rispetto al 2023.

 

Renovatio 21 non nasconde di aver pubblicato questo articolo per poter trattare, finalmente, della questione della flessione della parola ninja. Si tratta come noto di un lemma giapponese: la parola ninja si compone dei caratteri kanji 忍者, cioè 忍 «rubare, muoversi inosservati» e 者«persona», a indicazione della natura furtiva tipica della ninjitudine. Ninja è la lettura on’yomi, cioè derivata dal Cinese Medio (parlato dal 420 al 1279 d.C.), che integrò potentemente la lingua nipponica. Esiste tuttavia una lettura giapponese (kun’yomi) dei due caratteri, che è Shinobi no mono, abbreviata in Shinobi, parola che certo risuonerà in chi si interessa di ninji o di videogiuochi della SEGA di quattro decadi fa.

 

Ora, sappiamo che la lingua giapponese rifugge la flessione: non c’è declinazione, non c’è genere e nemmeno numero; i plurali sono praticamente quasi del tutto inesistenti. Le parole giapponesi importate in italiano (tantissime, più di quanto computiamo) sono, anche per questo, invariabili: «mangiare un sushi», «attentatore kamikaze», «leggere manga», «amare il bonsai», «praticare l’origami», «indossare un kimono» etc.

 

Riteniamo, tuttavia, che la parola ninja di per sé inviti molto ad iniziare a flettere anche le parole giapponesi, per renderle completamente italiane: si tratta del resto del processo speculare a quello dei gairaigo (外来語, «lingua che è arrivata dall’esterno»), le parole straniere che il giapponese ha assimilato nella lingua sillabica: bēsubōru (ベースボール, baseball), intānetto (インターネット, cioè internet), hottodoggo (ホットドッグ , hot dog), pantsu (パンツ, pantaloni), bakansu (バカンス, vacanza), konpyūtā (コンピュータ, computer), bīru (ビール (cioè beer, birra), toire (トイレ, toilette), terebi (テレビ , televisione), arukōru (アルコール, alcol), ma anche quantità di parole italiane come pasuta (パスタ, pasta), maesutoro (マエストロ, maestro), supagetti (スパゲッティ, spaghetti), burābo (ブラーボ, bravo). Un vecchio piccolo dizionario De Agostini – società peraltro notissima in Giappone per via del commercio di oggetti collezionabili– riportava pure la parola aguritsurizumo (アグリツーリズモ, agriturismo).

 

Quindi, se il giapponese può prendere le nostre parole e possederle storpiandone le sillabe, perché noi non possiamo fare chiralmente altrettanto? Perché non creiamo noi stessi dei gairaigo italiani?

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Quindi, la parola ninja dovrebbe, secondo Renovatio 21, cominciare ad essere usata al femminile: una storia ninja. Mentre il maschile dovrebbe cominciare a comparire nei nostri discorsi: un guerriero ninjo. Plurale: assassini ninji. Plurale anche per il femminile: armi ninje. 

 

A questo punto andiamo oltre: la parola ninja è, come molte altre nella lingua di Yamato, componibile: ad esempio, il ninjutsu (忍術), è, etimologicamente, la tecnica del ninjo – e vi sono scuole anche in Italia, per quanto con video YouTube improbabili assai. Perché anche l’italofonia, a questo punto, non può parlare di ninjitudine, ninjezza, ninjaggio, ninjamento, ninjeria, etc.?

 

Anticipiamo che la medesima tentazione la abbiamo anche per un’altra parola nipponica, ancora più inviante: samurai. «Samurai» dovrebbe essere plurale: i samurai. Al singolare, dovrebbe suonare samuraio. Siamo tentati di mettere la i lunga che fa vetusto: samurajo. Femminile: samuraia, o samuraja: la spada samuraia (cioè la katana, cioè le katane), l’etica samuraja, le tecniche samuraje. Qualcuno potrebbe addirittura arrivare a domandarsi: ma perché, a questo punto, non samuragli, samuraglio? Eh…

 

Ecco, ora abbiamo scritto anche questo: il lettore ha ricevuto forse qualche lume sulle potenti italianizzazioni che incorrono nelle pagine di Renovatio 21. Ebbene sì, questa indomita spinta italofonica – condivisa da nessuno, praticamente, con l’esterofilia glottologica imperante nell’ora presente – questo fremito irrefrenabile al nazionalismo linguistico ha, in verità, pure un’influenza stranierissima, perfino nipponica.

 

Annunciamo quindi che qui a Renovatio 21, alla facciazza dei puristi che epperò non amano davvero l’italiano e nemmeno divertirsi, oltre a non conoscere nulla del giapponese, continueremo a parlare di spade ninje e samuraje, persino combattendone il proibizionismo dilagante.

 

Va così. In giapponese: shikata ga nai ((仕方がない), non c’è niente da fare. Leggete questo giornale, e questo tipo di cose vi beccate.

 

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La polizia di Nuova York sgombra Macron per far passare il corteo di Trump. Presidente francese a piedi

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Lunedì il presidente francese Emmanuel Macron è stato fermato per strada dalla polizia di New York City mentre sgomberava la strada al corteo del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Un filmato condiviso dal canale di notizie francese BFMTV mostra Macron che chiama Trump durante l’incidente a Manhattan.   Macron era in città per l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA), dove la Francia ha formalmente riconosciuto lo Stato di Palestina. Dopo il discorso, Macron e il suo entourage si stavano dirigendo dalla sede delle Nazioni Unite verso l’ambasciata francese quando gli agenti hanno bloccato il traffico per far passare il convoglio di Trump.   Un video mostra Macron in piedi per strada, mentre parla con un agente di polizia che si scusa per il ritardo, spiegando che «un corteo di automobili sta arrivando proprio da questa parte».  

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Macron risponde al poliziotto neoeboraceno: «Se non lo vedi, lasciami passare. Negozierò con te», prima di tirare fuori il telefono e apparentemente chiamare Trump.   «Come stai? Indovina un po’? Ti aspetto in strada perché è tutto chiuso per te», si sente dire Macron.   Secondo quanto riferito, il presidente francese ha dovuto attendere diversi minuti e poi ha proseguito a piedi verso l’ambasciata.   Si dice che Trump abbia fornito il suo numero di telefono privato a leader stranieri per incoraggiare chiamate e messaggi diretti. Politico ha osservato a luglio che Macron era tra coloro che avevano contatti regolari.   L’episodio può far ricordare quando, ad un UNGA del 2019 (la volta che ringhiò «How dare you…»), in una sala del Palazzo di vetro un’attonita Greta Thunberga fu messa da parte per far passare Donald Trump e la sua scorta.     Un’immagine indelebile. Quasi quanto quella di Greta, cresciuta e inserita nella flottilla pro-palla, con look stile He-Man.   Va detto pure che a Jair Messias Bolsonaro, giunto a Nuova York per l’UNGA 2021, andò peggio: con la città blindata dal green pass, il presidente del Brasile, non munito (e ostile al vaccino) fu costretto a mangiare un trancio di pizza con i collaboratori per strada.     Ricordi della tirannide pandemica, verso cui ci scappa di dire, è possibile provare pure una nostalgia canaglia.  

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Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).

 

La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.

 

Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.

 

 

 

 

Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.

 

 

 

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).

 

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

 

Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.

 

 

Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.

 

Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.

 

Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.

 

Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.

 

Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».

 

La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…

 

Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.

 

 

 

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).

 

Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.

 

L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.

 

 

Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.

 

Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.

 

Taro Negishi

Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata

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Chirurgo del servizio sanitario pubblico britannico si è fatto amputare le gambe per «gratificazione sessuale»

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Le autorità britanniche hanno condannato il chirurgo Neil Hopper a 32 mesi di carcere dopo essersi amputato le gambe per gratificazione sessuale.   Il medico presso il Royal Cornwall Hospitals NHS Trust a Truro, in Cornovaglia, dove, secondo diverse fonti, ha effettuato centinaia di interventi di amputazione prima del 2019, anno in cui egli stesso ha subito l’amputazione di entrambe le gambe.   La Corte di Truro ha appreso che l’uomo ha mentito agli assicuratori sostenendo che le lesioni alle gambe erano dovute a sepsi e non autoinflitte. Si è appreso che nel maggio 2019 Hopper aveva subito amputazioni sotto il ginocchio a seguito di una «malattia misteriosa». In realtà, aveva usato ghiaccio e ghiaccio secco per congelarsi le gambe, quindi è stato necessario asportarle, ha affermato il procuratore Nicholas Lee.   I bizzarri dettagli del caso sono emersi durante il processo. Hopper era da tempo eccitato dall’idea di amputarsi le gambe, arrivando addirittura ad acquistare video pornografici di uomini che si facevano estrarre volontariamente i genitali. Secondo quanto appreso dalla corte, i reati di pornografia estrema erano collegati a video di mutilazioni corporee che lo Hopper aveva acquistato online e che non includevano bambini.

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Aveva inviato a un altro personaggio, Marius Gustavson precedentemente incarcerato per aver guidato un’organizzazione di body modification estreme come il sito EunuckMaker («produttore di eunuchi»), una foto del suo pene eretto prima di procedere con l’amputazione delle gambe.   L’operazione ha seguito un iter specifico. Sotto la guida del Gustavson, Hopper aveva immerso i piedi nel ghiaccio secco mentre moglie e figli erano fuori casa. Quando i paramedici sono arrivati, hanno creduto che soffrisse di sepsi.   Lo Hopper ha ricevuto 466.000 sterline dagli assicuratori dopo aver accettato quella richiesta di risarcimento. «Sarà fantastico essere un doppio amputato», ha scritto Hopper in un messaggio di testo prima di commettere il suo crimine.   Prima che emergesse lo scandalo e la frode, il medico della Cornovaglia era stato definito «il più coraggioso di Bretagna» e aveva partecipato a programmi TV in cui raccontava la sua esperienza di amputato. Particolare degno di nota è quello per il quale, secondo quanto si apprende, il chirurgo vascolare prima di programmare la propria auto-amputazione aveva eseguito come medico statale centinaia di amputazioni.   La questione richiama alla mente la possibilità che molti dottori, e infermieri, le cui storie talvolta finiscono nelle cronache, esprimano durante la loro pratica medica impulsi sadici e perversi, arrivando persino a totalizzare, secondo calcoli, centinaia di vittime.   Il medico era stato arrestato nel marzo 2023 ed è sospeso dall’albo dei medici dal dicembre 2023. Lo Hopper soffriva di «disforia corporea» fin dall’infanzia e i suoi piedi rappresentavano per lui un «indesiderato inconveniente» e un «disagio persistente e senza fine», ha un dottore sentito dalla BBC.   Secondo quanto sentito in tribunale, lo Hopper aveva acquistato tre video dal sito web EunuchMaker, rispettivamente per 10 e 35 sterline, che mostravano uomini che si facevano rimuovere volontariamente i genitali, scambiando circa 1.500 messaggi con Gustavson sulle sue amputazioni degli arti inferiori e su come le aveva eseguite, chiedendogli anche quanto ghiaccio secco avesse usato. Gustavson è stato condannato all’ergastolo con una pena minima di 22 anni all’Old Bailey nel 2024 per aver guidato un’organizzazione di body modification estreme, come la castrazione.   Come riportato da Renovatio 21, il Gustavson era stato condannato all’ergastolo con una pena minima di 22 anni nel carcere dell’Old Bailey nel 2024 per aver guidato un’organizzazione che praticava modifiche corporee estreme.   Il sito Eunuch Maker contava circa 23.000 abbonati in tutto il mondo. Secondo la BBC, il sito gli aveva fruttato circa 375.000 dollari. Il Gustavsone e i suoi assistenti filmavano le procedure e le pubblicavano sul sito web dove erano disponibili in pay-per-view.   La presunta «disforia dell’integrità corporea» è un fenomeno in crescita in tutto il mondo. L’anno passato i medici hanno amputato il quarto e il quinto dito sani della mano sinistra di un ventenne del Quebecco perché credeva che non facessero parte del suo corpo.

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Le connessioni di tali pratiche di perversa «cura» amputante di una presunta «disforia» con la questione del transessualismo – promosse dallo Stato moderno e pagate dal contribuente – dovrebbe saltare agli occhi di tutti.   I casi di amputazioni inflitte, anche più prosaicamente, alle truffe di assicurazioni non sono infrequenti. Nel 2001 si parlò di un signore della provincia autonoma di Bolzano che si sarebbe fatto amputare una gamba dal cugino ottenere un risarcimento dalle assicurazioni, con le quali sarebbero state stipulati contratti da oltre un miliardo di lire in caso di invalidità permanente. Contrariamente all’ingegnoso programma, l’uomo perì sul posto, mentre il cugino fu arrestato e messo in carcere.   La vicenda ispirò, dal Trentino al Veronese ed oltre, diverse conversazioni, battute e probabilmente pure la canzone del gruppo rock di estrema destra scaligero «Truffa all’assicurazione» (2003).

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