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Geopolitica

I servizi segreti russi e occidentali di fronte alla ribellione di Evgenij Prigozhin

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

Ribellandosi in piena guerra allo scopo di tenersi a nome proprio le armi ricevute, Evgenij Prigozhin ha minacciato la coesione del Paese. La vicenda, che avrebbe potuto essere drammatica, si è invece risolta senza danni. Indipendentemente dall’iniziativa del capo della Wagner, sia i servizi segreti occidentali sia quelli russi avevano già calcolato i vantaggi che avrebbero potuto trarne.

 

 

I servizi segreti russi e occidentali seguivano con attenzione il deterioramento delle relazioni tra Evgenij Prigozhin e il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, evidentemente interpretandolo in modo diverso e desumendone conclusioni divergenti.

 

I servizi occidentali credevano che il conflitto fosse incoraggiato dal capo del Cremlino: un modo per Putin di pungolare le due parti per indurle a dare il meglio di sé.

 

Ma la rivalità si esacerbava, dividendo le forze russe invece di rafforzarle. Era quindi il momento, per gli Occidentali, di approfittare della debolezza di Mosca per lanciare il programma di smantellamento del Paese – messo a punto a luglio 2022 – appoggiandosi su alcune minoranze (1). Questa è la sintesi della presentazione fatta dalla CIA ai parlamentari Usa, pochi giorni prima della ribellione di Prigozhin.

 

Per i servizi russi, che non intendevano immischiarsi nel modo in cui Putin gestiva la rivalità, il conflitto si sarebbe inevitabilmente allargato e gli ufficiali e gli alti funzionari contrari al regime non si sarebbero schierati non con una parte o con l’altra, ma per un cambiamento di sistema. Occorreva identificarli immediatamente e prepararsi a rimuoverli dall’apparato dello Stato.

 

Naturalmente né gli uni né gli altri pensavano che Prighohzin avrebbe agito come ha fatto, né sapevano quando sarebbe passato all’azione. Per questa ragione, quando il capo della Wagner si è diretto verso il quartier generale di Rostov sul Don (ore 2.30), nessuno sapeva se la mossa rientrava nell’inevitabile spirale del conflitto con il ministero della Difesa o se stava per accadere qualcosa di nuovo. Nella notte, quando Prighozhin ha occupato il quartier generale di Rostov sul Don (ore 7.30) e iniziato la marcia su Mosca si è capito che era il momento di agire (2).

 

La CIA, l’MI6 e il Mossad hanno allertato i loro contatti sia in Russia sia negli altri Stati dell’ex Unione Sovietica, tuttora alleati di Mosca; innanzitutto in Bielorussia, Kazakistan e Uzbekistan, Stati in cui negli ultimi due anni gli Occidentali hanno fallito il tentativo di organizzare «rivoluzioni colorate».

 

I dirigenti ucraini hanno chiesto al migliaio di bielorussi che combattono in Ucraina nel Battaglione Kastous-Kalinozski di sollecitare le loro famiglie a rovesciare il presidente Alexandre Lukashenko. Analoghi appelli sono stati lanciati contro i presidenti kazako, Kassym-Jomart Tokaïev, e uzbeko, Shavkat Mirziyoyev. I contatti degli Occidentali in Cecenia sembra non abbiano risposto agli appelli.

 

Il presidente Vladimir Putin, dopo essersi rivolto alla Nazione (ore 10.00), ha telefonato agli presidenti di Bielorussia, Kazakistan e Uzbekistan (ore 13.30), rammentando loro la ribellione fomentata dagli Occidentali, da cui erano usciti indenni; li ha anche rassicurati sul fatto la Russia non avrebbe ceduto e li ha invitati a intensificare la vigilanza in patria.

 

L’opposizione russa in esilio (ossia quella sostenuta dagli Occidentali) ha lanciato appelli per rovesciare il regime di Mosca. L’ex oligarca Mikhail Khodorkovsky, arrestato nel 2003 per frode fiscale, nel momento in cui stava per lanciare un golpe (3), ha twittato che la ribellione di Progozhin è la dimostrazione che è possibile rovesciare Putin e che tutti devono prepararsi a una simile eventualità. Il campione di scacchi Garri Kasparov, sostenitore di Boris Eltsin, ha fatto altrettanto. Pensava fosse il momento della rivincita. L’avvocato Alexei Navalny ha fatto sapere dalla prigione della Siberia in cui è detenuto che sosteneva il movimento.

 

Khodorkovsky, Kasparov e Navalny sono le principali carte degli Occidentali in Russia. Ma diversamente da quanto raccontano molti media internazionali, i tre non sono popolari in Russia, come non lo erano i capi dell’opposizione filo-USA durante le operazioni militari contro la Libia e la Siria.

 

Tutti e tre denunciano l’intervento della Russia in Ucraina come un’ingerenza imperialista. Chiedono l’arresto immediato delle ostilità e che i dirigenti russi vengano giudicati da un tribunale penale internazionale. All’inizio dell’operazione militare speciale hanno fondato in Lituania il Comitato di Azione Russa (Russian Action Committee), ma l’iniziativa non ha avuto eco in Russia.

 

Cogliendo tutti di sorpresa, la ribellione è terminata in serata (ore 20.00); nessuno sa quale accordo abbia firmato Prigozhin. La rivolta è durata 18 ore, troppo poco perché i servizi segreti occidentali e russi avessero il tempo di realizzare i propri obiettivi.

 

Ciononostante, gli agenti occidentali bielorussi sono stati allertati. Sviatlana Tsikhanouskaya, ex candidata alla presidenza in esilio in Lituania, ha formato il governo in esilio che aveva in cantiere dal 24 febbraio 2022, ossia dal primo giorno dell’operazione speciale russa. È stata ricevuta dalle rappresentanze europee, che tuttavia si sono ben guardate dal riconoscerlo.

 

I servizi ucraini hanno annunciato che Prigozhin era sulla lista degli uomini da uccidere dell’FSB. È evidentemente una notizia falsa: Putin si è impegnato a non punirlo. Il Moscow Times (filorusso) ha invece assicurato che il generale Sergei Surovikin è stato arrestato per complicità con i ribelli. In effetti è stato interrogato a lungo dall’FSB in quanto membro d’onore di Wagner, un riconoscimento per il servizio prestato in Siria.

 

 

Thierry Meyssan

 

 

NOTE

1) «La strategia occidentale per smantellare la Federazione di Russia», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 16 agosto 2022.

2) «La ribellione di Evgenij Prigozhin», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 27 giugno 2023.

3) «Bush, Khodorkovsky & Associates», Réseau Voltaire, 13 novembre 2003.

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

 

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Geopolitica

Truppe israeliane subiscono perdite in un’incursione in Siria

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Venerdì Israele ha sferrato un ulteriore assalto ingiustificato e su vasta scala contro il territorio siriano, mietendo almeno 13 vittime – tra cui bambini – e causando il ferimento di una ventina di persone.

 

L’incursione ha riguardato il centro abitato di Beit Jinn, nel meridione siriano, e ha rappresentato un’insolita operazione di penetrazione via terra da parte delle truppe israeliane, verosimilmente coadiuvata da copertura aerea e colpi di cannone.

 

«L’esercito israeliano ha reso noto che sei suoi militari hanno subito lesioni, tre delle quali di entità grave, a seguito di sparatorie con miliziani durante l’operazione nel borgo di Beit Jinn», ha riferito Reuters citando fonti ufficiali. Non è dato sapere se l’IDF abbia registrato caduti, ma in caso affermativo è plausibile che Tel Aviv mantenga il silenzio.

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L’irruzione e i bombardamenti israeliani all’alba hanno indotto decine di nuclei familiari a evacuare il sito in direzione di aree meno esposte. La diplomazia siriana ha immediatamente stigmatizzato «l’attacco criminale compiuto da una pattuglia dell’esercito di occupazione israeliano a Beit Jinn».

 

Nel comunicato si legge: «Il fatto che le forze di occupazione abbiano preso di mira la città di Beit Jinn con bombardamenti brutali e deliberati, in seguito al fallimento della loro incursione, costituisce un vero e proprio crimine di guerra».

 

Diverse fonti indicano che l’offensiva israeliana ha compreso pure tiri di obici, elemento che potrebbe spiegare l’elevato numero di perdite civili.

 

Stando alla Syrian Arab News Agency (SANA), i cadaveri di almeno cinque siriani, inclusi due minori, sono stati trasferiti all’ospedale nazionale del Golan nella località di al-Salam a Quneitra.

 

Anche droni israeliani hanno operato nella regione. Nella Siria post-Assad, le IDF hanno progressivamente intensificato le intrusioni nel suolo siriano, dilatando in misura cospicua l’occupazione delle alture del Golan.

 

Le forze armate israeliane hanno motivato l’operazione ad alto rischio con l’intento di catturare sospetti legati a Jama’a Islamiya, formazione islamista sunnita libanese accusata di aver lanciato missili contro Israele dal Libano nel corso della guerra di Gaza, e di aver ordito «comploti terroristici».

 

Tale episodio configura un caso eccezionale in cui le IDF hanno patito perdite così consistenti nelle loro missioni siriane, secondo Reuters.

 

In un avviso su X, l’esercito israeliano ha precisato che sei suoi effettivi sono rimasti colpiti, tre in modo serio, in uno scontro a fuoco.

 

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L’esercito ha proseguito affermando che, pur essendosi l’operazione «conclusa» con l’arresto o l’eliminazione di tutti i ricercati, le sue unità permangono sul terreno «e proseguiranno contro qualsivoglia pericolo» per Israele.

 

Non sfugge l’ironia nell’improvviso zelo israeliano per debellare gli islamisti sunniti al proprio confine, dal momento che, per anni durante il conflitto per il rovesciamento di Assad, Israele ha tollerato – e in taluni frangenti persino favorito – alcuni di questi medesimi jihadisti.

 

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Trump «molto soddisfatto» della nuova leadership siriana

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Il presidente statunitense Donald Trump ha espresso «grande compiacimento» per l’operato del nuovo esecutivo siriano insediatosi al potere.   Una coalizione capitanata dal fronte jihadista Hayat Tahrir al-Sham (HTS), affiliato regionale di Al-Qaeda, ha espugnato Damasco e spodestato il trentennale capo di Stato Bashar al-Assad alla fine dello scorso anno.   «Gli Stati Uniti sono estremamente soddisfatti dei progressi conseguiti» dopo l’ascesa al governo, ha proclamato Trump lunedì su Truth Social.    

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Il neopresidente siriano Ahmed al-Sharaa, ex comandante dell’HTS conosciuto come al-Jolani, «si prodiga con impegno affinché si verifichino sviluppi positivi e che Siria e Israele instaurino un legame duraturo e fruttuoso», ha precisato.   È essenziale che Gerusalemme «non ostacoli la metamorfosi della Siria in una nazione fiorente», ha aggiunto Trump.   Qualche giorno prima, testate israeliane avevano reso noto che le Forze di difesa (IDF) avevano subito perdite in uno scontro con miliziani armati nel meridione siriano, dove l’anno scorso Israele ha annesso una fascia territoriale adiacente alle alture del Golan sotto occupazione.   Di recente, l’area ha ospitato pure azioni coordinate tra Stati Uniti e Siria. Le truppe americane e il dicastero dell’Interno siriano hanno smantellato oltre 15 magazzini di armamenti e narcotici riconducibili all’ISIS nel sud della nazione la settimana scorsa, come comunicato domenica dal Centcom.   Al-Sharaa ha ribadito il proprio impegno contro lo Stato Islamico nel corso della sua visita a Washington all’inizio del mese.   Dall’insediamento dei jihadisti nella stanza dei bottoni damascena ondate di violenza interconfessionale si sono ripetute, con migliaia di persone delle minoranze druse, alawite e cristiane uccise senza pietà.   Jolani, ex comandante jihadista legato ad Al-Qaeda e in passato nella lista nera del governo statunitense che aveva posto su di lui una taglia da 10 milioni di dollari, ha destituito il leader storico siriano Bashar Assad nel dicembre 2024. Da allora si è impegnato a ricostruire il Paese devastato dalla guerra e a tutelare le minoranze etniche e religiose.   Nonostante le promesse di al-Jolani di costruire una società «inclusiva», il suo governo «luminoso e sostenibile» è stato segnato da ondate di violenza settaria contro le comunità druse e cristiane, suscitando la condanna degli Stati Uniti.

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Pochi giorni prima della visita di Jolani alla Casa Bianca, Stati Uniti, Gran Bretagna e Nazioni Unite hanno rimosso al-Sharaa/ Jolani dalle rispettive liste di terroristi. Lunedì, Washington ha prorogato per altri 180 giorni la sospensione delle sanzioni, mentre la Siria cerca di normalizzare i rapporti bilaterali e ampliare la cooperazione in materia di sicurezza. Trump aveva ordinato una revisione della de-designazione come «terrorista» del Jolani ancora quattro mesi fa, all’altezza del loro primo incontro a Riadh.   Come riportato da Renovatio 21, tre mesi fa, proprio a ridosso dell’anniversario della megastrage delle Due Torri, al-Jolani visitò Nuova York per la plenaria ONU, venendo ricevuto in pompa magna dal segretario di Stato USA Marco Rubio e dall’ex generale americano, già direttore CIA, David Petraeus.   Come riportato da Renovatio 21al-Jolani sta incontrando alti funzionari israeliani in un «silenzioso» sforzo di normalizzazione dei rapporti tra Damasco e lo Stato degli ebrei in stile accordi di Abramo.
Intanto, i massacri sono vittime dei massacri takfiri della «nuova Siria».

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Geopolitica

Papa Leone dice che l’unica soluzione è uno Stato palestinese

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Il Pontefice Leone XIV ha ribadito che l’unica via per assicurare equità a israeliani e palestinesi resta la soluzione dei due Stati.

 

Le parole sono state pronunciate domenica a bordo dell’aereo papale, durante il volo dalla Turchia al Libano, seconda tappa del suo primo periplo estero da Sommo Pontefice.

 

La Santa Sede ha sancito il riconoscimento ufficiale dello Stato palestinese nel 2015 e ha più volte caldeggiato l’ipotesi di due entità sovrane.

 

Tuttavia, le sue osservazioni in volo rappresentano l’esortazione più decisa a un pieno avallo internazionale, nel bel mezzo del conflitto nella Striscia di Gaza.

 

«Santa Sede, già da diversi anni, appoggia pubblicamente la proposta di una soluzione di due Stati. Sappiamo tutti che in questo momento Israele non accetta ancora quella soluzione, ma la vediamo come l’unica strada che potrebbe offrire una soluzione al conflitto che continuamente vivono, ha dichiarato Leone XIV ai cronisti». «Noi siamo anche amici di Israele, e cerchiamo di essere con le due parti una voce, diciamo, mediatrice che possa aiutare ad avvicinarci ad una soluzione con giustizia per tutti».

 

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Rispondendo a domande sui colloqui riservati con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ad Ankara – in cui si è discusso dei teatri di guerra a Gaza e in Ucraina –, il papa ha confermato l’argomento, sottolineando il «ruolo cruciale» che Ankara può svolgere per dirimere entrambe le crisi. Sul fronte dei negoziati russo-ucraini, ha elogiato Erdogan per aver «fatto tanto per convocare le parti», pur lamentando l’assenza di una soluzione concreta.

 

«Oggi, però, circolano iniziative tangibili per la pace, e confidiamo che il presidente Erdogan, grazie ai suoi legami con i leader di Ucraina, Russia e Stati Uniti, possa favorire un dialogo, un armistizio e una via d’uscita da questa guerra in Ucraina».

 

Su Gaza, Leone XIV ha riaffermato il sostegno ventennale della Santa Sede alla formula dei due Stati. La nascita di una Palestina sovrana è da lustri indicata dalla comunità internazionale come l’unica strada per chiudere il contenzioso decennale.

 

All’inizio di questo mese, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito che l’avversione di Gerusalemme a uno Stato palestinese «non ha subito variazioni minime» e non è scalfita da sollecitazioni interne o esterne. «Non ho bisogno di proclami, cinguettii o sermoni da chicchessia», ha chiosato.

 

La tregua del 10 ottobre, orchestrata dagli Stati Uniti, contemplava il disimpegno israeliano dalla Striscia in cambio del rilascio di 20 ostaggi ebraici a fronte di circa 2.000 detenuti palestinesi. Nondimeno, le offensive di Tel Aviv persistono, gli aiuti umanitari ristagnano e le condizioni restano catastrofiche, come denunciano agenzie ONU e mediatori regionali.

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