Salute
I corpi dei maratoneti divorano il loro tessuto cerebrale?
In un recente studio, non ancora sottoposto a revisione paritaria, alcuni scienziati ipotizzano che i corpi dei maratoneti potrebbero trasformarsi in tessuto cerebrale come fonte di energia a metà gara, divorando lo strato protettivo di mielina della mente e trasformandolo in carburante.
La mielina è un tessuto adiposo presente nel sistema nervoso del nostro corpo, che riveste il nostro cervello e le fibre nervose in un ampio involucro di plasma isolante noto come guaina mielinica.
E, cosa importante, come ha detto a Science News Klaus-Armin Nave, neurobiologo di Göttingen, presso l’Istituto Max Planck per le scienze multidisciplinari in Germania, che non è stato coinvolto nello studio, si è a lungo «pensato che le guaine mieliniche fossero assemblate, strutture inerti di isolamento che non cambiano molto dopo che sono state realizzate».
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In altre parole, si pensava che fossero strutture immutabili con un unico compito da svolgere. Ma secondo l’articolo, pubblicato all’inizio di ottobre come prestampa, le scansioni prima e dopo del cervello di una manciata di maratoneti raccontano una storia diversa: che la mielina è un tessuto dinamico e adattabile che non è disponibile solo per il corpo come tessuto riserva di energia durante l’esercizio fisico prolungato, ma anche come fonte di carburante rigenerabile.
Lo studio in sé è abbastanza semplice. Guidati da Carlos Matute, neurobiologo del Centro di neuroscienze spagnolo Achucarro dell’Università dei Paesi Baschi di Leioa, gli scienziati hanno scattato immagini del cervello di quattro maratoneti nelle 48 ore precedenti e nelle 48 ore dopo una gara.
A quanto pare, le differenze prima e dopo nei livelli di mielina sembrano essere piuttosto drastiche, con le scansioni «post» che mostrano forti diminuzioni del tessuto isolante. Questa pare essere una scoperta che sembra supportare l’ipotesi che i corpi dei corridori guardassero al loro cervello per una dose extra di energia per superare il traguardo.
«Questa è sicuramente un’osservazione intrigante», ha detto a Science News Mustapha Bouhrara, scienziato di neuroimaging del National Institute on Aging di Baltimora, non coinvolto nella ricerca. «È abbastanza plausibile che i lipidi della mielina vengano utilizzati come combustibile durante l’esercizio prolungato».
Forse la cosa più affascinante è ciò che sembra essere accaduto nel cervello di alcuni corridori nelle settimane successive alla gara. Secondo lo studio, quando i ricercatori hanno scansionato la testa di due dei quattro maratoneti due settimane dopo aver percorso la maratona, hanno scoperto che la mielina impoverita dei corridori sembrava essersi ripresa completamente, suggerendo che il materiale è molto più adattabile di quello pensato in precedenza.
Lo studio, va ricordato, non è sottoposto a revisione paritaria e quattro persone non costituiscono un campione particolarmente ampio. Come riporta Futurism, C’è anche la possibilità che l’esaurimento osservato nelle scansioni sia in realtà un caso di disidratazione (i canali tra i doppi strati lipidici della mielina sono pieni di acqua), anche se i ricercatori sembrano piuttosto convinti che la disidratazione non abbia nulla a che fare con la i cambiamenti.
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«Secondo noi non è così», ha detto Matute a New Science, sottolineando che le 48 ore tra la gara e le scansioni successive avrebbero dato ai corridori abbastanza tempo per reidratarsi. Un altro segno che la disidratazione non era il colpevole? Come una spugna secca, un cervello disidratato si restringe, ma le scansioni degli atleti, ha detto Matute, non hanno mostrato nulla del genere.
«Abbiamo visto che non c’è alcun restringimento del cervello», ha dichiarato lo scienziato alla rivista scientifica.
Lo studio offre dati molto preliminari, ma i suoi risultati stimolano la riflessione, soprattutto considerando quanto poco sappiamo del nostro cervello.
Si spera che questa ricerca giustifichi ricerche future sull’improbabile dinamismo della guaina mielinica e se i maratoneti siano le uniche persone che potrebbero attingere alla mielina come fonte di energia.
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Salute
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Fertilità
I leggings stanno facendo diventare le donne sterili?
Da anni i leggings – che un tempo si chiamavano fuseaux, o «fusò» nei cartelli delle bancarelle nei mercati cittadini – dominano il guardaroba occidentale da decenni. Indossati al supermercato, nei locali o durante la messa domenicale, sono diventati il simbolo della moda «athleisure»: pratica, comoda e onnipresente. Tuttavia, ciò che per molte donne rappresenta una scelta di libertà e comfort, potrebbe nascondere un lato meno noto e potenzialmente preoccupante.
Molti dei modelli dei marchi più venduti sono realizzati in tessuti sintetici come poliestere, nylon o elastan (spandex). Materiali che offrono elasticità e resistenza, ma che, secondo alcuni studi, potrebbero interferire con il sistema ormonale e la fertilità.
Uno dei riferimenti più citati è una ricerca condotta alcuni decenni fa su animali: a un gruppo di cagne furono fatti indossare «pantaloni» in tessuti diversi – 100% poliestere, 100% cotone, lana e miscele poliestere-cotone. I risultati mostrarono che circa il 75% delle femmine vestite con indumenti in poliestere non rimase incinta, mentre quelle in cotone o lana registrarono un tasso di gravidanza del 100%.
Secondo i ricercatori, il poliestere e le sue miscele avrebbero generato un campo elettrostatico in grado di interferire con la comunicazione ormonale, effetto però reversibile dopo la rimozione del tessuto.
Un esperimento simile, condotto su cani maschi, ha evidenziato una riduzione della conta spermatica nei soggetti che indossavano biancheria in poliestere. In alcuni casi, i valori si sono normalizzati nel tempo; in altri, le alterazioni sono risultate più persistenti.
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Da qui il dubbio: se i tessuti sintetici possono influire sulla fertilità animale, è possibile che abbiano effetti analoghi sull’essere umano?
Il nylon, altro materiale comune nei leggings e nell’abbigliamento sportivo, è noto per rilasciare microplastiche che possono penetrare nell’organismo attraverso la pelle. Studi recenti suggeriscono che tali particelle possano alterare gli ormoni e danneggiare la qualità degli ovuli e dello sperma.
Inoltre, molti tessuti sintetici vengono trattati con ftalati, PFAS e coloranti — sostanze chimiche classificate come interferenti endocrini. «Alti livelli di questi composti sono stati associati a tempi più lunghi per concepire, scarsa qualità degli ovuli e dello sperma e rischio di aborto spontaneo», spiega la dottoressa Lora Shahine, esperta di fertilità.
In un contesto in cui la fertilità è già messa alla prova da fattori come lo stress, l’età sempre più avanzata della maternità, l’obesità o le infezioni sessualmente trasmissibili, l’iniezione mRNA COVID, anche l’abbigliamento potrebbe giocare un ruolo minore ma non trascurabile.
Chi desidera «vestirsi bene anche per la salute», dunque, potrebbe valutare un ritorno ai materiali naturali: cotone, lino o lana. Forse meno elastici, ma – secondo alcune ricerche – decisamente più amici della fertilità.
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Salute
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