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Francia, lettera aperta di ex militari: un complotto contro la Repubblica?

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire.

 

 

Negli ultimi tre anni la Francia ha attraversato due grandi crisi, cui non è stata data risposta: la messa in discussione della globalizzazione da parte dei Gilet Gialli e la denuncia da parte dei sindacati di polizia del disgregamento dello Stato. Entrambe non hanno ricevuto risposte adeguate alla sostanza dei problemi sollevati. Sebbene le ragioni di coloro che hanno suonato l’allarme siano condivise da tutti, è impossibile discuterne pubblicamente. Così la democrazia muore, non già per mancanza di confronto, ma perché si ergono tabù.

 

 

Nel 2018 la Francia è stata scossa da un vasto movimento popolare, i Gilet Gialli. Nato da una protesta contro il rialzo delle imposte sulla benzina, molto presto si è palesato come contestazione degli effetti sociologici della globalizzazione degli scambi: scomparsa delle classi medie occidentali, emarginazione in zone rurali malservite

I Gilet Gialli contro la globalizzazione

Nel 2018 la Francia è stata scossa da un vasto movimento popolare, i Gilet Gialli. Nato da una protesta contro il rialzo delle imposte sulla benzina, molto presto si è palesato come contestazione degli effetti sociologici della globalizzazione degli scambi: scomparsa delle classi medie occidentali, emarginazione in zone rurali malservite. (1)

 

Due settimane dopo l’inizio delle manifestazioni, gruppi non identificati si sono infiltrati nel movimento e l’hanno sabotato dall’interno. Così, dopo 15 giorni in cui tutti i manifestanti brandivano con fierezza la bandiera francese e cantavano la Marsigliese – cosa che da cinquant’anni non accadeva nelle manifestazioni popolari – teppisti incappucciati e vestiti di nero vandalizzavano l’Arco di Trionfo, in particolare la scultura della Marsigliese. Al processo che seguì si dimostrò come questo gruppo di provocatori non avesse alcun rapporto con i Gilet Gialli, che però furono gli unici a venire arrestati.

 

In mancanza di un leader che denunciasse l’infiltrazione, nel giro di un anno il movimento dei Gilet Gialli si smorzò progressivamente. Tuttavia, i problemi che erano all’origine permangono.

 

Due settimane dopo l’inizio delle manifestazioni, gruppi non identificati si sono infiltrati nel movimento e l’hanno sabotato dall’interno

In altri tempi i politici creavano le «commissioni Théodule» [ossia commissioni che servono a poco o a nulla, espressione creata dal generale De Gaulle, ndt], per affossare i problemi che volevano ignorare. Al tempo dei media che sfornano ininterrottamente informazione, il presidente Macron ha inventato, con il medesimo obiettivo, il «Grande dibattito nazionale»: tutti dicono la loro, ma nessuno riceve una risposta pertinente, né dall’Esecutivo né dall’Assemblea.

 

 

I poliziotti contro lo sfaldamento della nazione

Recentemente è stato suonato un secondo allarme. Il problema è l’affossamento del terzo dei diritti proclamati nella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 – diritti che non vanno confusi con i Diritti dell’uomo intesi in senso anglosassone: la sicurezza. Vale a dire la garanzia ai cittadini di poter esercitare i diritti imprescrindibili della libertà e della proprietà.

 

In effetti si può constatare non tanto un aumento generale della delinquenza, ma una disparità geografica sempre più accentuata. Se i cittadini del VII arrondissement di Parigi non si sentono minacciati, quelli del XV arrondissement di Marsiglia temono in continuazione le aggressioni dei delinquenti.

 

Parallelamente, la polizia, che dovrebbe difenderli, ha cambiato mansioni: esita a inoltrarsi in alcuni quartieri dove viene sempre più di frequente attaccata.

Alcuni poliziotti hanno fatto un uso sproporzionato della forza, prima contro i Gilet Gialli, ora contro i contestatori della politica sanitaria. Benché si tratti di casi non molto numerosi a livello nazionale, essi dimostrano che non si tratta di un orientamento occasionale, ma deliberato, sostenuto dai vertici dello Stato

 

Molti poliziotti temono, a ragion veduta, per la loro vita: ogni anno ne muoiono una decina. Inoltre, alcuni di loro cominciano a trasformarsi in agenti di repressione dell’opposizione politica. Così, in molti casi, alcuni poliziotti hanno fatto un uso sproporzionato della forza, prima contro i Gilet Gialli, ora contro i contestatori della politica sanitaria. Benché si tratti di casi non molto numerosi a livello nazionale, essi dimostrano che non si tratta di un orientamento occasionale, ma deliberato, sostenuto dai vertici dello Stato.

 

Al momento, la mentalità dei poliziotti è ancora repubblicana: si ritengono al servizio dei cittadini e non soltanto delle autorità politiche. Ma i loro sindacati moltiplicano gli allarmi e denunciano le norme di reclutamento oggi in vigore. Vengono infatti ammessi alla scuola di polizia sia persone che hanno sofferto di problemi psichiatrici sia piccoli delinquenti.

 

 

Le elezioni presidenziali del 2022

Questo movimento, che segue quello dei Gilet Gialli, arriva proprio quando il Paese si prepara alla campagna elettorale: a maggio 2022 si eleggerà il presidente della Repubblica. Già ora, due terzi dell’elettorato è contrario alla ricandidatura del presidente Emmanuel Macron.

I sindacati dei poliziotti  moltiplicano gli allarmi e denunciano le norme di reclutamento oggi in vigore. Vengono infatti ammessi alla scuola di polizia sia persone che hanno sofferto di problemi psichiatrici sia piccoli delinquenti

 

In considerazione dei fallimenti di Nicolas Sarkozy e di François Hollande – entrambi sconfitti dopo il loro primo e unico mandato – Macron può sperare di ottenere una seconda investitura soltanto mostrandosi sensibile alle aspettative popolari. A quella dei Gilet Gialli contro la globalizzazione e a quella dei sindacati di polizia contro l’arretramento della Repubblica, ossia dell’Interesse Generale.

 

Pur non avendo alcuna intenzione di aderirvi, il presidente Macron può però tentare una manovra elettorale:

 

  • Moltiplicare artificiosamente le candidature per poi screditare i candidati che potrebbero risultare vincenti al primo turno, a eccezione di quello di propria scelta, in modo da vedersela con quest’ultimo al secondo turno.

 

Macron può sperare di ottenere una seconda investitura soltanto mostrandosi sensibile alle aspettative popolari

  • Organizzare un secondo turno contro Marine Le Pen, ma dopo averla demonizzata, in modo da costringere la maggior parte dei propri oppositori a dargli il voto, in nome di un «fronte repubblicano» contro il fascismo.

 

Una strategia che funzionò nel 2002, quando Jacques Chirac riportò l’82% dei voti contro il 17% di Jean-Marie Le Pen. Una strategia che oggi potrebbe essere azzardata, perché Marine Le Pen, a differenza del padre, non ha l’immagine di fascista, ma di repubblicana. L’Eliseo è perciò a caccia di opportunità per trasformarla in mostro.

 

 

L’appello degli ex militari

Recentemente è accaduto che alcuni ex militari abbiano scritto una Lettera aperta ai governanti, ove sottolineano l’attuale disgregazione delle istituzioni e prospettano un possibile ricorso alle forze armate, ove fosse inevitabile per risolvere il problema della sicurezza.

 

Recentemente è accaduto che alcuni ex militari abbiano scritto una Lettera aperta ai governanti, ove sottolineano l’attuale disgregazione delle istituzioni e prospettano un possibile ricorso alle forze armate, ove fosse inevitabile per risolvere il problema della sicurezza

L’appello è stato pubblicato il 13 aprile 2021 sul loro sito internet, Place d’armes. Il 21 aprile 2021 il settimanale di destra, Valeurs actuelles, l’ha ripreso, ma non nell’edizione cartacea, bensì sul sito. Marine Le Pen, che ha dichiarato di condividere da molto tempo la diagnosi degli ex militari, li ha esortati a votarla alle prossime elezioni presidenziali.

 

L’Eliseo ha colto al volo l’occasione e ha mandato tutti i propri ministri, a turno, a denunciare davanti ai media un «pugno di generali a riposo» che, secondo loro, esortano i colleghi in attività a perpetrare un colpo di Stato. Tutti hanno finto di credere che l’appello fosse datato 21 aprile, e non il 13, in modo da poterlo stigmatizzare come una manovra faziosa, a sessant’anni esatti dal golpe dei generali di Algeri contro l’indipendenza dell’Algeria. Per finire, tutti hanno denunciato la fascinazione di Marine Le Pen per «il tintinnar di sciabole».

 

Consapevole dell’opportunità di battere Macron al primo turno del 2022, il leader della France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon, si è rivolto al procuratore della Repubblica per denunciare i «generali faziosi». Mélenchon era infatti arrivato terzo al primo turno delle ultime elezioni presidenziali, ottenendo il 19% dei voti, contro il 21% di Marine Le Pen e il 24% di Macron.

 

 

La collocazione dei militari nel pubblico dibattito

Invitiamo i lettori a leggere il testo della Lettera aperta (2) e constatare che si tratta di molto rumore per nulla.

 

L’Eliseo ha colto al volo l’occasione e ha mandato tutti i propri ministri, a turno, a denunciare davanti ai media un «pugno di generali a riposo» che, secondo loro, esortano i colleghi in attività a perpetrare un colpo di Stato

La facoltà del governo di ricorrere all’esercito per mantenere l’ordine viene chiamata «stato di emergenza». Ma i militari non sono addestrati per questa mansione e il loro intervento potrebbe causare perdite umane che soltanto pompieri e gendarmi sono addestrati ad affrontare.

 

Lo «stato d’emergenza» è stato decretato da alcuni governi nel 2005, 2015 e 2017. Attualmente 10 mila militari possono essere precettati nell’ambito dell’Operazione Sentinella, per proteggere i cittadini dal rischio di atti terroristici. È così anche in Belgio e nel Regno Unito.

 

Inoltre, l’art. 36 della Costituzione del 1958 prevede la possibilità di trasferire in casi estremi i poteri di polizia e di ordine pubblico dal ministero dell’Interno alle forze armate. È lo «stato d’assedio», cui non si è mai ricorso durante la V Repubblica, nemmeno in occasione del colpo di Stato dei generali del 1961.

 

Governo e France Insoumise sottolineano come gli ex militari firmatari della Lettera aperta non affermino di collocarsi nel quadro costituzionale, insinuando che abbiano una volontà golpista. È un processo alle intenzioni sbagliatissimo. Nella lettera non ci sono assolutamente elementi che giustifichino l’accusa agli ex militari di avere intenti faziosi.

 

Nella lettera non ci sono assolutamente elementi che giustifichino l’accusa agli ex militari di avere intenti faziosi

Tutto questo chiasso è servito solo ad attirare l’attenzione sul testo: è stato firmato da oltre 10 mila ex militari, fra cui una trentina di generali. Tutti ora possono valutare i problemi sollevati nella lettera ed è ormai palese l’inerzia di chi ci governa, senza distinzione di partito.

 

 

Sanzioni contro chi ha lanciato l’allarme

La ministra della Difesa ha annunciato di voler sanzionare i firmatari: si vuole estendere l’infamia destinata a colpire Marine Le Pen a tutti quelli cui lei si rivolge.

 

Peccato che dei 10 mila militari firmatari soltanto 18 siano ancora in servizio. Questi ultimi rischiano di essere radiati per violazione del dovere di riserbo. Quanto ai militari a riposo, godono del pieno diritto della libertà di parola. Possono solo incorrere nel biasimo per l’allarme suscitato; sarebbe invece quantomeno sorprendente che 10 mila persone fossero sanzionate collettivamente per aver esercitato il legittimo diritto di cittadini a esprimersi liberamente.

 

I militari, che siano in servizio o a riposo, non sono più sudditi, ma cittadini come gli altri

I militari, che siano in servizio o a riposo, non sono più sudditi, ma cittadini come gli altri.

 

Dopo il golpe di Algeri il presidente Charles de Gaulle avviò una profonda riforma delle forze armate. I militari che si rifiutarono di obbedire ai generali golpisti erano infatti passibili di essere puniti per disobbedienza agli ordini. Il generale De Gaulle – che nel 1940 si rifiutò di obbedire al proprio superiore, il maresciallo Philippe Pétain, e creò la Francia Libera – introdusse una distinzione fra quel che è da ritenere «legale» e quel che invece è “legittimo”. Il Codice della Difesa fu quindi modificato: non consente ai militari di scegliere il campo, ma impone loro l’obbligo di rifiutarsi di eseguire ordini illegittimi o contrari all’onore, nonché di arrestare i superiori che li emettono.

 

Non c’è quindi nessun complotto contro la Repubblica, nessun maneggio fazioso.

 

È a giusto titolo che i firmatari della Lettera aperta hanno chiesto di «parlare da pari a pari» con il loro capo di stato-maggiore che li ha insultati. Ogni soldato, in servizio attivo o a riposo, gode di tale diritto in qualità di cittadino. Un diritto che fa da corollario all’obbligo dei militari di Obbedire e Servire

Ed è a giusto titolo che i firmatari della Lettera aperta hanno chiesto di «parlare da pari a pari» con il loro capo di stato-maggiore che li ha insultati. Ogni soldato, in servizio attivo o a riposo, gode di tale diritto in qualità di cittadino. Un diritto che fa da corollario all’obbligo dei militari di Obbedire e Servire.

 

Bollando come «faziosi» i firmatari della lettera, il guardasigilli, Éric Dupont-Moretti, si è esposto a un’azione giudiziaria penale. L’ex avvocato non stava infatti facendo un’arringa in un’aula di tribunale. È chiamato perciò a rispondere delle proprie affermazioni.

 

 

Tabù

Il fatto che alcuni dei 10 mila firmatari siano membri del partito di Marine Le Pen, il Rassemblement National – uscito dal partito storico, fondato da ex collaboratori dei nazisti e dei golpisti d’Algeri, il Front National – o a esso vicini, non autorizza a condannare né Marine Le Pen né collettivamente i militari firmatari. Nella Repubblica francese non c’è colpevolezza ereditaria né collettiva. Tutti sono cittadini francesi a pieno titolo.

Con la loro diagnosi, gli ex militari non si sono accontentati di denunciare la retorica del woke, che vorrebbe impedire l’uso del monopolio pubblico della violenza, né di denunciare l’ideologia dell’islam politico. Hanno voluto anche esprimere il timore per l’uso in chiave antirepubblicana delle forze dell’ordine contro i Gilet Gialli

 

Nessuno dei 10 mila firmatari si è macchiato di reati contro la Nazione, anzi molti hanno servito il Paese con onore.

 

Con la loro diagnosi, gli ex militari non si sono accontentati di denunciare la retorica del woke, che vorrebbe impedire l’uso del monopolio pubblico della violenza, né di denunciare l’ideologia dell’islam politico. Hanno voluto anche esprimere il timore per l’uso in chiave antirepubblicana delle forze dell’ordine contro i Gilet Gialli. La reazione sproporzionata alla loro Lettera aperta dimostra che hanno toccato un punto dolente.

 

Siamo in presenza di un rovesciamento di valori che sottopone al giudizio mediatico – e in futuro fors’anche al giudizio dei corpi militari d’appartenenza – persone, non per quanto fatto, né per le opinioni espresse, ma perché espongono una diagnosi che tutti sottoscrivono ma che pochi osano enunciare a voce alta.

 

Il discorso politico si è progressivamente allontanato dalla realtà. Ora si sta inoltrando in una zona torbida ove, come in alcune società della Polinesia, quel che non si controlla diventa tabù. «Il circolo della ragione» (3) non solo cerca da trent’anni di vietare opinioni controcorrente, ora tenta anche d’impedire che si affrontino determinati argomenti.

Il discorso politico si è progressivamente allontanato dalla realtà. Ora si sta inoltrando in una zona torbida ove, come in alcune società della Polinesia, quel che non si controlla diventa tabù

 

Dal momento che i primi tre diritti enunciati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino sono andati perduti – la libertà, la proprietà e la sicurezza – è lecito ricorrere al quarto: «la resistenza all’oppressione» (articolo 2).

 

 

Thierry Meyssan

 

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

 

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

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Geopolitica

Gli Stati Uniti sequestrano una petroliera al largo delle coste del Venezuela

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Il procuratore generale statunitense Pam Bondi ha annunciato il sequestro di una petroliera sospettata di trasportare greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran.

 

L’operazione, condotta al largo delle coste venezuelane, si inserisce in un’escalation delle attività militari americane nella regione, unitamente a raid contro quelle che Washington qualifica come imbarcazioni legate ai cartelli della droga.

 

«Oggi, l’FBI, la Homeland Security Investigations e la Guardia costiera degli Stati Uniti, con il supporto del Dipartimento della Difesa, hanno eseguito un mandato di sequestro per una petroliera utilizzata per trasportare petrolio greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran», ha scritto Bondi su X mercoledì.

 

Ha precisato che la nave era stata sanzionata «a causa del suo coinvolgimento in una rete di trasporto illecito di petrolio a sostegno di organizzazioni terroristiche straniere».

 

Nel video diffuso da Bondi si vedono agenti delle forze dell’ordine, pesantemente armati, calarsi dall’elicottero sulla tolda della nave. Secondo il portale di tracciamento MarineTraffic e vari media, l’imbarcazione è stata identificata come «The Skipper», che batteva bandiera della Guyana. Fonti come ABC News riportano che la petroliera, con una capacità fino a 2 milioni di barili di greggio, era diretta a Cuba.

 

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Gli Stati Uniti avevano sanzionato la The Skipper già nel 2022, accusandola di aver contrabbandato petrolio a beneficio del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniana e del gruppo militante libanese Hezbollah.

 

Un gruppo di parlamentari statunitensi ha di recente sollecitato un’inchiesta sugli attacchi condotti su oltre 20 imbarcazioni da settembre, ipotizzando che possano configurare crimini di guerra.

 

Il senatore democratico Chris Coons, intervistato martedì su MSNBC, ha accusato Trump di «trascinarci come sonnambuli verso una guerra con il Venezuela». Ha argomentato che l’obiettivo reale del presidente sia l’accesso alle risorse petrolifere e minerarie del paese sudamericano.

 

Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha rigettato le affermazioni di Trump sul presunto ruolo del suo governo nel narcotraffico, ammonendo Washington contro l’avvio di «una guerra folle».

 

Il Venezuela ha denunciato gli Stati Uniti per pirateria di Stato dopo che la Guardia costiera americana, coadiuvata da altre forze federali, ha abbordato e sequestrato una petroliera sanzionata nel Mar dei Caraibi.

 

Caracas ha reagito con durezza, definendo l’intervento «un furto manifesto e un atto di pirateria internazionale» finalizzato a sottrarre le risorse energetiche del Paese.

 

«L’obiettivo di Washington è sempre stato quello di mettere le mani sul nostro petrolio, nell’ambito di un piano deliberato di saccheggio delle nostre ricchezze», ha dichiarato il ministro degli Esteri Yvan Gil.

 

Il governo venezuelano ha condannato gli «arroganti abusi imperiali» degli Stati Uniti e ha giurato di difendere «con assoluta determinazione la sovranità, le risorse naturali e la dignità nazionale».

 

Da anni Caracas considera le sanzioni americane illegittime e contrarie al diritto internazionale. Il presidente Nicolas Maduro le ha definite parte del tentativo di Donald Trump di rovesciarlo e ha respinto come infondate le accuse di legami con i narcos, avvertendo che qualsiasi escalation militare condurrebbe a «una guerra folle».

 

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Geopolitica

Putin: la Russia raggiungerà tutti i suoi obiettivi nel conflitto ucraino

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La Russia porterà a compimento tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale in Ucraina, ha dichiarato il presidente Vladimir Putin.   Tra gli scopi principali enunciati da Putin nel 2022 vi sono la protezione degli abitanti delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk dall’aggressione delle forze di Kiev, nonché la smilitarizzazione e la denazificazione dell’Ucraina.   «Naturalmente porteremo a termine questa operazione fino alla sua logica conclusione, fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale», ha affermato Putin in videocollegamento durante la riunione del Consiglio presidenziale per i diritti umani di martedì.   Il presidente russo quindi ricordato che il conflitto è scoppiato quando l’esercito ucraino è stato inviato nel Donbass, regione storicamente russa che nel 2014 aveva respinto il colpo di Stato di Maidan sostenuto dall’Occidente. Questo, secondo il presidente, ha reso inevitabile l’intervento delle forze armate russe per porre fine alle ostilità.

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«Si tratta delle persone. Persone che non hanno accettato il colpo di Stato in Ucraina nel 2014 e contro le quali è stata scatenata una guerra: con artiglieria, armi pesanti, carri armati e aviazione. È lì che è iniziata la guerra. Noi stiamo cercando di mettervi fine e siamo costretti a farlo con le armi in pugno».   Putin ha ribadito che per otto anni la Russia ha cercato di risolvere la crisi per via diplomatica e «ha firmato gli accordi di Minsk nella speranza di una soluzione pacifica». Tuttavia, ha aggiunto la settimana scorsa in un’intervista a India Today, «i leader occidentali hanno poi ammesso apertamente di non aver mai avuto intenzione di rispettarli», avendoli sottoscritti unicamente per guadagnare tempo e permettere all’Ucraina di riarmarsi.   Mosca ha accolto positivamente il nuovo slancio diplomatico impresso dal presidente statunitense Donald Trump, che ha proposto il suo piano di pace in 28 punti come base per un’intesa.   Lunedì Trump ha pubblicamente invitato Volodymyr Zelens’kyj ad accettare le proposte di pace, lasciando intendere che il leader ucraino non abbia nemmeno preso in esame l’ultima offerta americana.  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0) 
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Lavrov elogia la comprensione di Trump delle cause del conflitto in Ucraina

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Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato che il presidente statunitense Donald Trump rappresenta l’unico leader occidentale in grado di cogliere le vere motivazioni alla base del conflitto ucraino.

 

Parlando mercoledì al Consiglio della Federazione, la camera alta del parlamento russo, Lavrov ha spiegato che, mentre gli Stati Uniti manifestano una «crescente impazienza» verso il percorso diplomatico mirato a cessare le ostilità, Trump è tra i pochissimi esponenti occidentali a comprendere le dinamiche che hanno originato la crisi.

 

«Il presidente Trump… è l’unico tra tutti i leader occidentali che, subito dopo il suo arrivo alla Casa Bianca nel gennaio di quest’anno, ha iniziato a dimostrare di aver compreso le ragioni per cui la guerra in Ucraina era stata inevitabile», ha dichiarato.

 

Lavrov ha proseguito sottolineando che Trump possiede una «chiara comprensione» delle dinamiche che hanno forgiato le politiche ostili nei confronti della Russia da parte dell’Occidente e dell’ex presidente statunitense Joe Biden, strategie che, a suo dire, «erano state coltivate per molti anni».

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Il ministro ha indicato che «si sta avvicinando il culmine dell’intera saga» ucraina, affermando che Trump ha sostanzialmente ammesso che «le cause profonde identificate dalla Russia devono essere eliminate».

 

Il vertice della diplomazia russa ha menzionato in modo specifico le storiche riserve di Mosca sull’aspirazione ucraina all’adesione alla NATO e la persistente violazione dei diritti della popolazione locale.

 

Lavrov ha poi precisato che Trump resta «l’unico leader occidentale a cui stanno a cuore i diritti umani in questa situazione», contrapposto ai governi dell’UE che, secondo Mosca, evadono il tema. Ha svelato che la roadmap statunitense per un’intesa includeva esplicitamente la tutela dei diritti delle minoranze etniche e delle libertà religiose in Ucraina, «in linea con gli obblighi internazionali».

 

Tuttavia, sempre secondo Lavrov, tali clausole sono state indebolite nel momento in cui il documento è stato sottoposto all’UE: il testo è stato modificato per indicare che l’Ucraina dovrebbe attenersi agli standard «adottati nell’Unione Europea».

 

Da tempo Mosca denuncia la soppressione della lingua e della cultura russa da parte di Kiev, oltre ai sforzi per limitare i diritti delle altre minoranze nazionali, e al contempo accusa i leader ucraini di fomentare apertamente il neonazismo nel paese.

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Immagine dell’Ufficio stampa della Duma di Stato della Federazione Russa via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

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