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Stato

Elon Musk spiega lo Stato e la sua economia in 31 secondi netti

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Il patron di Tesla e SpaceX Elon Musk spiega lo Stato in pochi secondi.

 

«Lo Stato è semplicemente la più grande azienda con un monopolio sulla violenza, contro cui non hai ricorso. Quanti soldi daresti a questa entità?».

 

 

Il discorso è stato fatto in collegamento con un evento del Wall Street Journal.

 

Ammettiamo di trovare veramente utili e dilettevoli i poteri di sintesi di quello che, sulla carta, sarebbe l’uomo più ricco del mondo.

 

Come quando disse, anni prima della pandemia, che «con l’mRNA puoi trasformare una persona in una farfalla».

 

«Credo che ci saranno tante svolte sul fronte della medicina. in particolare riguardo al mRNA sintetico» aveva detto ad un evento organizzato dalla famosa telefonica internazionale per lanciare il 5G.

 

«Fondamentalmente puoi fare qualsiasi cosa con l’RNA/DNA sintetico… è come un programma del computer».

 

Mica è l’unico a pensarla così. Anche un altro top ricconissimo è dell’idea, e pure – come notato da Renovatio 21 di recente – più attivamente impegnato nella cosa.

 

 

Immagine screenshot da YouTube

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Economia

La situazione industriale in Italia. Intervista al prof. Pagliaro

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Ad agosto, l’Italia ha registrato l’ennesimo calo della produzione industriale, perdendo quasi il 3% sul corrispondente mese di agosto del 2024. I sindacati parlano apertamente di «più grande crisi produttiva dal dopoguerra». I dazi imposti dagli USA hanno fatto crollare l’export italiano di oltre il 21% solo ad agosto. E ancora peggio a settembre e ad ottobre, facendo crollare l’export, che era l’unica cosa che ancora reggeva dell’economia italiana a fronte di una domanda interna che ormai decresce persino per i consumi alimentari, i quali a settembre, pur aumentando in valore a causa dell’inflazione, si sono ridotti dell’1,8%: un valore enorme per il consumo più anelastico di tutti, quello alimentare.

 

Siamo quindi tornati a sentire il professor Mario Pagliaro per un aggiornamento sulla questione. Lo scienziato italiano da tempo sostiene come la rifondazione dell’IRI sia un’ineludibile necessità. «Il cambiamento è già iniziato», ci aveva detto a marzo.

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Dobbiamo ricordare ancora una vola che Lei è stato fra i primi a parlare del ritorno dello Stato dell’economia, e certamente il primo a darne conto pubblicamente mettendo in evidenza l’insieme dei nuovi investimenti industriali condotti dallo Stato, tramite la Cassa Depositi e Prestiti e altri veicoli di investimento. Ce ne sono stati di ulteriori?

Certo. Nel settore energetico Italgas ha acquisito e incorporato 2i Rete Gas divenendo il primo operatore della distribuzione del gas in Europa. In quello commerciale, la società del Tesoro Invitalia ha investito 10 milioni per acquisire una quota significativa del capitale di Coin. Non molti sanno lo Stato nel 2020 ha costituito il Fondo Salvaguardia Imprese, affidandone la gestione ad Invitalia, con cui acquisisce partecipazioni di minoranza nel capitale di imprese in difficoltà per rilanciarle e salvaguardare l’occupazione.

 

Nel settore industriale, a fine 2022 Invitalia era già entrata nel capitale sociale del produttore di treni passeggeri Firema ampliando ulteriormente nel 2024 il suo investimento con altri 17 milioni, quando ha anche contribuito a rilanciare lo storico stabilimento ex Ferrosud di Matera. La dotazione iniziale del Fondo era di 300 milioni di euro, ma è stata ulteriormente incrementata. È sufficiente visitare la pagina web del Fondo per vedere come lo Stato sia persino entrato nel capitale delle Terme di Chianciano. 

 

E Lei pensa che questo schema, che di fatto è esattamente ciò che fece l’IRI quando nacque nel 1933, sia estendibile ad esempio al settore automobilistico? 

Occorre chiedersi, piuttosto, cosa accadrà se lo Stato non interverrà ricreando l’industria automobilistica di Stato. La produzione automobilistica ha costituito il cuore dell’industria manifatturiera italiana dalla metà degli anni Trenta alla fine degli anni Novanta. Oggi, è al suo minimo storico. Nel 2025 la produzione di autoveicoli nei primi 6 mesi, è stata di sole 136.500 unità, in calo del 31,7% rispetto al già anemico dato di quasi 200mila veicoli prodotti nel primo semestre del 2024.

 

Quanti posti di lavoro e quante aziende subfornitrici è possibile mantenere con una produzione annua di 370mila autoveicoli? Erano le stesse domande che si ponevano Beneduce e Menichella quando suggerirono al governo di creare l’IRI.

 

In un quadro evidentemente difficile per l’economia italiana, Lei vede anche fatti positivi?

Certo. L’Italia è tornata a proiettarsi economicamente sul Vicino Oriente e sul Nord Africa. L’industria delle costruzioni italiana, che non casualmente vede lo Stato azionista dell’impresa più grande tramite la Cassa depositi e prestiti, è tornata a lavorare in molti Paesi del Vicino Oriente dove è apprezzata per le sue formidabili capacità. Enormi commesse sono state acquisite in Arabia Saudita. A settembre è stata inaugurata in Etiopia la Grand Ethiopian Renaissance Dam, ovvero la più grande diga ad uso idroelettrico mai realizzata in Africa: un’opera monumentale, interamente progettata e realizzata dall’industria italiana, con una capacità installata di oltre 5.000 MW: pari a quasi 5 centrali nucleari.

 

Ancora, pochi giorni fa a Tripoli Libia e l’Italia hanno firmato oggi il contratto per la realizzazione di un importante lotto dell’autostrada costiera libica, per un valore di circa 700 milioni di euro. A realizzare i lavori del lotto sarà un’altra grande azienda delle costruzioni italiana. Inutile forse sottolineare come tali progetti abbiano grandi ricadute in termini di sviluppo dei Paesi africani o mediorientali in questione, eliminando attraverso lo sviluppo economico le condizioni di sottosviluppo economico che portano all’emigrazione di massa verso l’Europa.

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Ritiene che questo nuovo attivismo italiano nel Mediterraneo possa essere durevole?

Lo sarà certamente. Dai tempi di Roma, la ricchezza dell’Italia è dipesa dalla sua capacità di proiettarsi nel mare di cui è al centro proprio sull’Africa e sul Vicino Oriente.

 

Nel farlo, l’Italia portò in questi Paesi anche la sua civiltà, per la quale è amata ed apprezzata da quei popoli ancora oggi. Si tratta esattamente del progetto «Eurafrica» elaborato dai geniali geopolitici italiani della prima metà del Novecento, che poi sarà fatto proprio dai governi italiani succedutisi fino ai primi anni Novanta .

 

Nel farlo, l’Italia conoscerà una vera e propria rinascita economica e infrastrutturale. Infatti, sono finalmente in costruzione la nuova linea ferrata ad alta capacità fra Napoli e Bari, e quella fra Catania e Palermo, oltre a numerosi cantieri di strade e ferrovie già aperti in Calabria.

 

Ai giovani italiani che emigravano fino a pochi mesi fa oltre le Alpi, suggerisco di unirsi invece alle imprese italiane che si stanno proiettando verso il Vicino Oriente, il Nordafrica e il Corno d’Africa. Molte commesse sono già state acquisite, e molte altre lo saranno: non si tratta solo di grandi opportunità di lavoro e di crescita professionale. Ma di cooperazione per la pace e lo sviluppo comune con popolazioni giovani ed entusiaste: curandone la crescita con grandi lavori pubblici e un nuovo e molto più grande interscambio commerciale, l’Italia uscirà dalla depressione economica e dall’inverno demografico, e farà finalmente fiorire il proprio Mezzogiorno.

 

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Immagine di Axel Bührmann via Flickr pubblicata su licenza CC BY 2.0

 

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Pensiero

Separazione delle carriere, equivoci vecchi e nuovi. Appunti minimi in tema di future riforme della Giustizia

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In mezzo alle turbolenze inaudite di questi tempi, è tornata ad alleviare le nostre pene la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Che è un po’ come la polemica calcistica nell’intervallo di un film dell’orrore. E tutto sommato servirebbe a sollevare gli animi se non implicasse cose un po’ più grandi di quelle a cui spesso viene ridotta.   Quella che ad alcuni può apparire una questione nuova, è invece una vecchia diatriba, andata un pò in sordina e tornata ora di prepotenza forse per dare lustro all’affaccendarsi di alcuni volenterosi, infaticabili riformatori della giustizia.   Il tema infatti poteva essere considerato in qualche misura obsoleto, perché emerso quando era in vigore il sistema processuale cancellato nel 1989 con la riforma del processo penale, o rivoluzione che dir si voglia in omaggio ad una data fatale per definizione.   Le ragioni addotte allora, per sostenere la necessità di una separazione delle carriere, si fondavano sulla vicinanza «fisica» tra i soggetti deputati alle funzioni giudicanti e requirenti che, alloggiati negli stessi ambienti giudiziari, potevano intrecciare rapporti troppo amicali, e quindi capaci di compromettere il corretto esercizio delle funzioni svolte rispettivamente da giudici e pubblici ministeri. Si trattava di una querelle che andava per la maggiore, ma confondeva gli effetti con una causa di ben altra portata: quella strutturale del cosiddetto «processo misto». Ovvero si vedeva la pagliuzza e non si vedeva la trave.

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Infatti in varie fasi processuali le funzioni del pubblico ministero venivano a confondersi o a sovrapporsi. Il giudice aveva poteri istruttori non dissimili da quelli del pubblico ministero mentre quest’ultimo, oltre ad essere titolare di una istruzione segreta, dalla quale per lungo tempo sono rimasti esclusi i difensori, anche se non pronunciava sentenze, era fornito di un importante potere decisorio «paragiurisdizionale», come quello di disporre misure cautelari, convalida di arresti e fermi etc.   Insomma, le possibili compromissioni e influenze reciproche, in bene o in male, non derivavano tanto dal fatto che i titolari dei diversi uffici potessero avere l’ abitudine di «prendere il caffè insieme». Derivavano semplicemente dal sistema processuale vigente. E non sarebbe valsa la separazione delle carriere ad ovviare agli inconvenienti di una commistione organica di funzioni e di poteri che di certo la separazione delle carriere non avrebbe potuto risolvere in alcun modo.   Semmai la formazione e l’incardinamento comune, che rendevano plausibile anche il passaggio da una funzione all’altra, passaggio ormai precluso dalla riforma Cartabia, portavano il vantaggio di evitare in qualche misura la sclerotizzazione della mentalità accusatoria, sempre in agguato in chi l’accusatore lo deve fare per mestiere e rischia perciò di trasformarsi in un irriducibile e messianico Javert. Un rischio sentito dallo stesso legislatore che da tempo ha previsto la possibilità per il pubblico ministero di chiedere l’assoluzione dell’imputato.   Ma il vero katechon contro la fissazione pregiudiziale di ogni attitudine critica poteva darsi e deve continuare ad essere riposto in quella solida e interiorizzata formazione giuridica e culturale capace di orientare ogni decisione sui valori etici superiori che il diritto dovrebbe tutelare, in sintonia con una forte etica personale.   Ora, con l’avvento della riforma del processo penale e l’adozione di un sistema radicalmente diverso da quello preesistente, l’esigenza di liberare certe funzioni da schemi anche mentali precostituiti dovrebbe essersi soddisfatta naturalmente. Infatti, nonostante successivi interventi legislativi abbiano ampliato nel tempo i poteri del pubblico ministero, tanto da richiamare alla memoria il vecchio schema della istruzione sommaria nelle fasi preliminari, l’attuale sistema accusatorio lo vede comunque nella scena dibattimentale davanti al giudice quale coprotagonista alla pari con la difesa.. Un quadro che avvalora quella capacità di equidistanza e neutralità, richiesta alle parti pubbliche, e di comprensione reciproca che viene dalla formazione giuridica comune a tutti i protagonisti di questa sacra rappresentazione triadica.   Insomma, all’esigenza di assicurare l’esercizio oggettivo della funzione dialettica richiesta dal sistema, risponde proprio quella formazione culturale comune che se da un lato fornisce a difensore, accusatore e giudice un imprescindibile linguaggio tecnico, dall’altro impone ai due soggetti incardinati nella amministrazione pubblica, la visione più elevata dell’interesse superiore della giustizia al quale hanno giurato di volersi votare. E in questa chiave va considerata come una contraddizione e una perversione dei principi cardine del sistema, quella separazione delle carriere che viene sostenuta con argomenti di lana caprina e della limpidezza delle cui finalità è legittimo dubitare.   Anzitutto proprio la auspicata costituzione di un corpo separato quasi in forma corporativa porterebbe di certo a ricostituire quella figura quasi metafisica dello accusatore per antonomasia e a prescindere, che il sistema sembra aver voluto seppellire. Infatti sembra soprattutto tradire quella aspirazione alla oggettività dello accertamento del fatto penalmente rilevante che il sistema accusatorio pretende di assicurare per quanto possibile.   Tanto più che si ventila già la prospettiva di concorsi i separati e di una formazione ad hoc. Cosicché quella base concettuale e quella identità e unità di linguaggio comune a tutti gli operatori giuridici verrebbe ad essere spezzato all’origine dallo scavo di un fossato pregiudiziale.   E a questo proposito si verifica un fenomeno abbastanza curioso: sono proprio i fautori della separazione delle carriere ad invocare, forse per una suggestione linguistica, il principio accusatorio come presupposto logico che imporrebbe quella separazione,.   Ma si tratta di una argomentazione senza fondamento razionale dal momento che quello cosiddetto «accusatorio», al di là delle assonanze che appunto sembrano suggestionare il presidente delle Camere Penali (come è risultato nel corso di una vivace polemica con un componente della Associazione Nazionale Magistrati), è un criterio di tecnica processuale che attiene alla formazione viva della prova davanti al giudice grazie allo scambio dialettico tra accusa e difesa.   Una tecnica che dovrebbe servire meglio all’ accertamento della verità nel processo e per questo non inchioda affatto il pubblico ministero ad una destinale missione accusatoria, volta ad ottenere ad ogni costo la condanna dell’imputato. Del resto, come dicevamo, la legge stessa prevede da molto tempo che la richiesta di assoluzione possa venire da parte del pubblico ministero sulla base di prove a favore.   Il procedimento si svolge per fasi separate, senza commistione di funzioni, e senza precostituzione di prove. Il principio «accusatorio» che domina la fase dibattimentale, quale tecnica per la formazione non precostituita della prova, non ha nulla a che fare con la supposta esigenza di separare le carriere e assicurare una maggiore indipendenza tra le diverse funzioni processuali attraverso un diverso incardinamento amministrativo dei rispettivi magistrati.   Anzi, proprio questo renderebbe non «neutrale» il magistrato che, incardinato in un organismo diverso da quello canonico, diverrebbe un «accusatore» precostituito. Non per nulla secondo Cassese sostenitore convinto della riforma, occorrerebbe «una preparazione diversificata che miri a formare attitudini diverse: una psicologia giudiziaria secondo capacità e competenze».   Insomma proprio il contrario di quello che serve per una oculata e distaccata ricerca della verità processuale, secondo le finalità proprie della tecnica dialogica del sistema «accusatorio».   Anche in questa figura ipostatizzata dell’accusatore preformato, torna prepotente il modello del processo americano che tanto ha suggestionato il pubblico italiano ai tempi delle serie televisive di Perry Mason. Come è noto la stessa riforma del 1989 ha tratto ispirazione dai modelli anglosassoni, per poi dovere fare i conti con la realtà della propria tradizione giuridica e di una diversa base socioculturale. Ma l’adozione acritica di modelli estranei non è mai senza innocue conseguenze.

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Sta di fatto che ora, come un tempo, la separazione delle carriere avrebbe lo scopo edificante di combattere il malcostume all’interno della amministrazione della giustizia, indotto dalle camarille interne o sul piano delle dipendenze politiche esterne.   Ma anche se questa riforma avesse veramente uno scopo moralizzatore e non, come appare probabile, quello esattamente contrario, di andare incontro ad un più esplicito condizionamento politico, resta il fatto che le leggi, come le famose gride manzoniane, di per sé non moralizzano un bel nulla ma e e quando servono da paravento al medesimo potere politico che le sciorina.   E uno degli indizi che si tratti di una riforma che va in senso contrario alle esigenze di indipendenza di un parte della magistratura e soprattutto a quelle di una corretta applicazione dei principi di garanzia di cui si è dotato il processo penale, è fornito dallo sdoppiamento degli organi di controllo previsto dalla riforma, che oltre a radicalizzare pericolosi antagonismi corporativi, rafforzerebbero le radicalizzazioni politiche e partitiche all’interno di una amministrazione della giustizia per la quale è prescritta in Costituzione la indipendenza politica.   Per la serenità e oculatezza dei giudizi, occorrono coscienze eticamente e culturalmente formate, libere da precondizionamenti e dai lacci di ruoli assegnati e da pregiudizi di sorta, dai nodi scorsoi delle «competenze» che, con buona pace di Cassese, oggi hanno assunto il senso profondo del vuoto a perdere.   Patrizia Fermani

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Immagine: Antonio Canova (1757–1822), La Giustizia (1792), Gallerie d’Italia, Milano Immagine Fondazione Cariplo di via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported; immagine tagliata
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Pensiero

Stato, popolazione e industria nell’Italia del 2025: intervista al professor Pagliaro

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Renovatio 21 torna ad intervistare il professor Mario Pagliaro per una panoramica della politica energetica di questo 2025. «Lo Stato tornerà protagonista dell’economia» ci aveva detto quasi 3 anni fa. Commentando poi la necessità del ritorno dell’IRI, lo scorso marzo aveva aggiunto: «il cambiamento, è già iniziato».

 

Sono passati quasi 6 mesi, e lo Stato – che aveva già riacquisito il controllo di Autostrade, e quello della ex SIP (poi TIM) – ha comperato la divisione veicoli militari Iveco dagli eredi Agnelli, e si appresta a nazionalizzare la ex Ilva. Dirigente di ricerca del CNR, fra i pionieri dello sviluppo dell’energia solare quando, alla metà del primo decennio dei 2000, non ci credeva nessuno, il professor Pagliaro ha dato a Renovatio 21 numerose interviste sui temi dell’energia, dell’industria e anche della sua Sicilia.

 

Sono appena stati varati pesanti dazi sulle esportazioni negli Stati Uniti. Mese dopo mese, la produzione industriale italiana continua a calare da oltre due anni. Con i dazi imposti dagli USA sulle importazioni, e il costo dell’energia radicalmente aumentato a causa della fine delle importazioni in Europa di gas e petrolio dalla Russia, la Germania vede venir meno l’interesse a utilizzare l’euro al posto del marco. Convinti che l’Italia sia attesa nei prossimi mesi sia attesa da profondi cambiamenti, siamo dunque tornati a sentire l’accademico europeo.

 

Le risposte del professor Pagliaro hanno al solito un carattere di antiveggenza che tornerà utile a tutti i lettori della nostra testata.

 

Professor Pagliaro, lei aveva previsto un ritorno dello Stato nell’economia quando, nella cosiddetta Seconda Repubblica, è stata solo una gara fra i cosiddetti «Centrodestra» e «Centrosinistra» a vendere e liquidare il più rapidamente possibile tutte le aziende e le banche pubbliche.

La verità in economia come in politica è ciò che è ineludibile, e non ciò che è dimostrabile. L’Italia negli oltre 20 anni dell’euro è stata costretta a deflazionare i salari per massimizzare le esportazioni, e a comprimere in ogni modo la domanda interna per minimizzare le importazioni, in modo da realizzare ogni anno un forte avanzo primario per avere i soldi con cui comprare risorse energetiche e materie prime di cui manca.

 

Ci sono anche altre ragioni, ma restando ai numeri è sufficiente osservare come fra il 1991 e il 2024, l’Italia abbia registrato un forte avanzo primario quasi ogni ogni anno: con le sole eccezioni del 2009 successivo alla grande crisi finanziaria iniziata nel settembre 2008, e del quadriennio 2020-2023 dovuto ai vari lockdown e al forte incremento della spesa pubblica assistenziale a sostegno di famiglie e imprese. Questo però rende l’Italia un Paese dove nessun giovane vorrebbe aprire un’azienda, men che mai un’azienda manifatturiera.

 

Bastano due numeri per comprenderlo: per pagare a un lavoratore uno stipendio di 3 mila euro al mese (36 mila euro l’anno) un’azienda deve spenderne ben oltre il doppio a causa dell’elevata pressione fiscale e contributiva sul lavoro. In queste condizioni, il Paese è rapidamente deindustrializzato.

 

Così, quando si è trattato di scegliere se seguire l’ideologia del liberismo economico egemone durante il ventennio dell’euro, oppure salvare alcune imprese strategiche, e anche una grande banca, lo Stato è tornato ad investire direttamente acquisendone il controllo.

 

La questione si ripropone adesso con la produzione di acciaio dal minerale ferroso: se l’Italia non vorrà perderla dovrà ricostituire l’Ilva nazionalizzando gli impianti, che peraltro fu proprio lo Stato a costruire.

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Più volte Renovatio 21 ha registrato le sue predizioni sul ruolo che giocherà nella rinascita italiana la grande diaspora degli italiani all’estero. Quanti sono gli italiani che hanno lasciato l’Italia dal 2002, anno dell’introduzione dell’euro?

I numeri sono disvelatori. La nuova diaspora italiana è fatta di molti milioni di persone: molti di più di quelli stimati ufficialmente in base alle cancellazioni anagrafiche nei Comuni. Chi si trasferisce all’estero sarebbe infatti obbligato a iscriversi all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), venendo cancellato dalle anagrafi comunali, ma l’obbligo viene largamente disatteso.

 

Ad esempio, secondo i dati ISTAT, tra il 2002 e il 2021 gli italiani trasferiritisi all’estero sarebbero circa 1,4 milioni. Secondo il CNEL, le cifre reali sono tre volte più grandi di quelle ufficiali. Inoltre, la nuova emigrazione italiana è completamente diversa da quella del passato: le partenze riguardano primariamente le regioni più ricche. Ad andarsene sono persone molto istruite, cioè essenzialmente tecnici altamente specializzati e giovani laureati, che nel 2022 erano la metà (48%) degli emigrati con età compresa fra 18 e 34 anni. Su 10 giovani espatriati, 5 partono dal Nord Italia e 3 dal Mezzogiorno.

 

Chi resta, inoltre, non fa più figli: con sole 370mila nascite nel 2024, la natalità in Italia è ai minimi storici dall’Unità. Emigrano, e non tornano, i giovani italiani qualificati non solo perché i salari all’estero sono molto più alti. Ma soprattutto perché le opportunità di lavoro sono migliori: è migliore, di più elevata qualità, la tipologia di lavoro qualificato offerto all’estero.

 

I giovani italiani emigrano così nei Paesi europei più sviluppati e negli Stati Uniti. Di fatto, oggi, anche nei Paesi arabi del Golfo Persico per le opportunità di lavoro in ricerca, alta formazione accademica e sanità.

 

E in che modo questi giovani che non vogliono tornare potrebbero contribuire, concretamente, alla rinascita dell’Italia?

Nel caso auspicabile, e a nostro avviso ineludibile, del ritorno allo sviluppo economico e industriale guidato dallo Stato, l’Italia vedrebbe un diffuso ricambio di tutte le sue classi dirigenti. A guidare tanto le aziende pubbliche che molte amministrazioni dello Stato sarebbero proprio molti ex giovani italiani emigrati dal 2002, poi divenuti grandi manager, imprenditori, docenti universitari, ricercatori, informatici, finanzieri, esperti di comunicazione, etc.

 

C’è una grande differenza infatti fra l’emigrazione italiana e quella di altri popoli. Gli italiani mantengono un profondo legame con il loro Paese, che dura persino attraverso le generazioni, come mostra ad esempio il caso della grande comunità di origine italiana negli Stati Uniti o in Canada.

 

In breve, molti dei giovani ed ex giovani italiani che hanno lasciato l’Italia a partire dal 2002 tornerebbero in Italia per amore del loro Paese, in un contesto completamente nuovo in cui al posto della deflazione salariale e della deindustrializzazione, torneranno tanto una forte crescita dei salari che della domanda interna accompagnati e sostenuti da un grande piano di reindustrializzazione del Paese.

 

In questo contesto, aiuterà assumere una visione di lungo periodo, che guardi ai tratti essenziali dello sviluppo italiano, tanto quello dovuto alle Partecipazioni statali, che alla capacità imprenditoriale degli italiani.

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Assumendo questa prospettiva, qual’è appunto il tratto essenziale di questa capacità imprenditoriale? 

Il tratto essenziale dell’imprenditorialità italiana è la sua capacità di creare sviluppo «dappertutto e rasoterra» per usare le parole di chi l’ha descritta in oltre 60 anni di studio sociale ed economico come il fondatore del Censis, Giuseppe De Rita. Nel 2006, lo invitai al CNR a Palermo per parlare proprio della vicenda delle Partecipazioni statali, in cui lui era stato coinvolto direttamente dai vertici della Svimez dove lavorava.

 

Il professor De Rita in Sicilia spiegò chiaramente come tutta la programmazione italiana, dal Piano Vanoni al Piano Giolitti fra il ’54 e il ’64, sia stata opera dell’Ufficio studi IRI e di loro giovani economisti e sociologi in servizio allo Svimez. Pur avendo preso parte direttamente alla pianificazione industriale ed economica, sarà proprio De Rita con il Censis a raccontare lo sviluppo diffuso delle piccole imprese italiane a partire dai primi anni Settanta.

 

Uno sviluppo che il grande sociologo ha descritto come esplosione della soggettività italiana: con la nascita dell’economia sommersa con la banca pubblica locale che ne finanziava lo sviluppo. Fino alla nascita dei distretti industriali. Nel censimento del 1981 le imprese industriali italiane erano passate ad oltre 1 milione dalle 480mila di dieci anni prima.

 

Con la nascita di oltre 20 distretti industriali che avevano diffuso l’industria al di fuori del «triangolo industriale» Torino-Genova-Milano. Giustamente, De Rita fa notare come in 10 anni gli italiani avessero creato lo stock di industrie create nei 100 anni precedenti, in pratica dall’Unità d’Itala.

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Esiste ancora, fra i giovani italiani, questa capacità di fare impresa?

Certo che esiste. Solo che non essendo più conveniente economicamente fare impresa in Italia, vanno a farla all’estero. Guardi allo sviluppo delle aziende delle cosiddette criptovalute, e vi scorgerà fin dagli albori informatici, manager e imprenditori italiani. Italiano è uno dei maggiori manager del noto colosso del commercio via Internet. Ma la lista è lunghissima: giovani italiani hanno creato e portato al successo in Europa, in Nordamerica, Medio Oriente e persino negli ex Paesi comunisti imprese di ogni natura.

 

La capacità di intraprendere è tratto essenziale dell’italianità: come tale, non può essere perduto. Non è possibile prevedere il futuro: ma l’Italia, a mio avviso, trarrà grandi benefici dalla ricomposizione dell’ordine economico e politico in corso in Europa e nel mondo.

 

Sostenere questa possibile evoluzione richiede anche la capacità di conoscere meglio, e più da vicino, molti aspetti della storia economica e sociale dell’Italia. Come dice il mio amico Giuseppe De Rita, «economia e cultura in Italia si ignorano». Per risolvere questa storica separazione occorre che un supplemento di impegno anche da parte di chi è impegnato nella formazione e nella ricerca.

 

Al quale spero possano contribuire anche i nostri periodici dialoghi.

 

Grazie professore. Alla prossima.

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Immagine di Andrea Donato via Flickr pubblicata su licenza CC BY-ND 2.0

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