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Dr. Volodymyr & Mr. Zelens’kyj : Il lato nascosto del presidente ucraino

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

Il deputato svizzero ed ex caporedattore della Tribune de Genève, Guy Mettan, traccia un ritratto del saltimbanco che interpreta il ruolo di presidente dell’Ucraina. Mostra come questo comico di varietà si sia trasformato in alleato dei banderisti e per loro conto instauri una dittatura.

 

 

Héros de la liberté, Hero of Our Time, Der Unbeugsame, The Unlikely Ukrainian Hero Who Defied Putin and United the World, Zelensky, l’Ukraine dans le sang: media e dirigenti occidentali, affascinati dalla «stupefacente resilienza» dell’attore, miracolosamente trasformato in «condottiero di guerra» e «salvatore della democrazia», non sanno più con quali superlativi tessere le lodi del presidente ucraino.

 

Da tre mesi il capo di Stato ucraino è in prima pagina su tutti i giornali, è in apertura dei telegiornali, inaugura il Festival di Cannes, arringa parlamenti, si congratula e ammonisce colleghi a capo di Stati dieci volte più potenti del suo: un successo e un senso tattico finora ineguagliati da un attore del cinema o da un dirigente politico.

 

Come non lasciarsi ammagliare da quest’improbabile Mr. Bean che, dopo aver conquistato il pubblico con le sue smorfie e stravaganze (per esempio passeggiare nudo in un negozio e simulare un pianista suonando con il proprio sesso), ha saputo in una notte barattare le sue pagliacciate e i suoi discorsi sboccati con una T-shirt grigioverde, una barba di una settimana e parole cariche di gravità per galvanizzare truppe aggredite dall’orso cattivo russo?

 

Dal 24 febbraio Volodymyr Zelensky ha incontestabilmente dimostrato di essere un artista di politica internazionale di eccezionale talento. Chi ha seguito la sua carriera di comico non se n’è stupito perché conosceva il suo innato senso dell’improvvisazione, le sue capacità mimetiche, la sua audacia di giocatore.

 

L’eccezionalità del suo talento era già emersa nella conduzione della campagna elettorale, quando in poche settimane, dal 31 dicembre 2018 al 21 aprile 2019, stese avversari coriacei, come l’ex presidente Poroshenko, mobilitando la squadra di produzione televisiva e gli oligarchi, suoi generosi sovvenzionatori. Bisognava passare dalle prove allo spettacolo vero. C’è riuscito.

 

 

Talento per il doppiogioco

Tuttavia, come spesso accade, la facciata corrisponde raramente al retroscena. La luce dei proiettori offusca più di quanto illumini.

 

Nel caso di Zelensky, non si può non prendere atto che il quadro è meno sfavillante di quanto apparisse sulla scena: i risultati come capo di Stato, così come le sue performance di difensore della democrazia, lasciano seriamente a desiderare.

 

Zelensky ha dimostrato talento per il doppiogioco sin dall’elezione. Aveva vinto la competizione elettorale con una percentuale di voti eccezionale, 73,2%, grazie alla promessa di porre fine alla corruzione, di portare l’Ucraina sulla strada del progresso e della civiltà e, soprattutto, di fare la pace con i russofoni del Donbass.

 

Appena eletto ha tradito ogni promessa con zelo talmente intempestivo che la percentuale della sua popolarità a gennaio 2022 si era ridotta al 23%, distanziato dai due maggiori avversari.

 

Da maggio 2019, per esaudire le pretese degli oligarchi che lo sponsorizzano, il neoeletto lancia un massiccio programma di privatizzazione del patrimonio agricolo pubblico: 40 milioni di ettari di suolo fertile, con il pretesto che la moratoria sulla vendita dei terreni avrebbe fatto perdere miliardi di dollari al PIL del Paese.

 

Nell’impeto dei programmi di liberazione dalle vestigia del comunismo e di de-russificazione, avviati dopo il colpo di Stato filo-statunitense di febbraio 2014, Zelensky lancia una vasta operazione di privatizzazione dei beni dello Stato, di austerità di bilancio, di ridimensionamento delle leggi sul lavoro, nonché di smantellamento dei sindacati; provvedimenti che urtano quella maggioranza di ucraini che ancora non ha capito cosa intendesse il loro candidato per «progresso», «occidentalizzazione» e «normalizzazione» dell’economia ucraina. Un Paese in cui il reddito medio per abitane era nel 2020 di 3.726 dollari contro i 10.126 dell’avversaria Russia, al contrario di quel che accadeva nel 1991, quando il reddito medio degli ucraini era più alto di quello dei russi: il confronto non è lusinghiero. È comprensibile che gli ucraini non abbiano plaudito all’ennesima riforma neoliberale.

 

Quanto al percorso verso la civiltà, si concretizzerà in un decreto del 19 maggio 2021, che garantisce il dominio della lingua ucraina e bandisce il russo in tutte le sfere della vita pubblica, nelle amministrazioni, nelle scuole e nelle attività commerciali, con grande soddisfazione dei nazionalisti e stupore dei russofoni del sud-est del Paese.

 

 

Uno sponsor in fuga

Quanto alla corruzione, il bilancio non è migliore. Secondo The Guardian, nel 2015 l’Ucraina era il Paese più corrotto d’Europa. Secondo Transparency International, Ong occidentale con sede a Berlino, nel 2021 l’Ucraina era al 122° posto nella classifica mondiale della corruzione, vicinissima all’odiata Russia (136^). Risultato certo non brillante per una nazione che si reputa modello di virtù rispetto ai barbari russi. Secondo il Kyiv Post la corruzione è ovunque: nei ministeri, nelle amministrazioni, nelle imprese pubbliche, nel parlamento, nella polizia e persino nell’Alta Corte di Giustizia contro la corruzione! Non è raro vedere giudici sfrecciare in Porsche, riportano i giornali.

 

Il più importante sponsor di Zelensky, Ihor Kolomojskij, che risiede a Ginevra ove possiede uffici lussuosi con vista sulla rada, non è certo uno degli oligarchi di secondo piano fra quelli che approfittano della corruzione generale: il 5 marzo 2021 Antony Blinken, che senz’altro non poteva fare diversamente, annunciò che, a causa «dell’implicazione in rilevante fatto di corruzione», il dipartimento di Stato aveva bloccato i beni di Kolomojskij e l’aveva bandito dagli Stati Uniti.

 

Era accusato di aver sottratto 5,5 miliardi di dollari della banca pubblica Privatbank. Per pura coincidenza, il buon Ihor era anche azionista della holding petrolifera Burisma, che dà lavoro al figlio di Joe Biden, Hunter, per il modesto compenso di 50 mila dollari mensili, e che oggi è nel mirino di un’inchiesta del procuratore del Delaware. Saggia precauzione: Kolomojskij , dichiarato persona non grata da Israele e rifugiatosi, secondo alcuni testimoni, in Georgia, non corre il rischio di doversi presentare alla barra dei testimoni.

 

Ed è sempre Kolomojskij da cui l’Ucraina avviata sulla strada del progresso decisamente non può prescindere, l’artefice della carriera di attore di Zelensky. E lo ritroviamo altresì implicato nell’affare Pandora Papers, rivelato dalla stampa a ottobre 2021. Si tratta di documenti che attestano come la rete televisiva 1+1, di proprietà del trasgressivo oligarca, versò dal 2012 non meno di 40 milioni di dollari alla star televisiva Zelensky e come quest’ultimo, poco prima di essere eletto presidente, con l’aiuto della sua guardia del corpo della città di Kryvyi Rih – i due fratelli Shefir: l’uno sceneggiatore di Zelensky, l’altro capo dei servizi di sicurezza di Stato (SBU), nonché produttore e proprietario della comune società di produzione, Kvartal 95 – aveva prudentemente trasferito considerevoli somme di denaro su conti offshore intestati alla moglie, nonché acquistato tre appartamenti a Londra, mai dichiarati, per la modica cifra di 7,5 milioni di dollari.

 

Quest’inclinazione del Servitore del popolo (nome della serie televisiva di cui è protagonista nonché del suo partito politico) per il confort non-proletario è attestato da una foto apparsa sui social network, e subito cancellata dai fact-cheker anti complottisti, che lo ritraeva mentre godeva delle comodità di un lussuoso albergo tropicale, al costo di decine di migliaia di dollari per notte, mentre avrebbe dovuto essere in vacanza in una modesta stazione sciistica dei Carpazi.

 

L’arte dell’ottimizzazione fiscale e la frequentazione assidua di oligarchi a dir poco controversi non depongono sicuramente a favore di un incondizionato impegno presidenziale contro la corruzione.

 

Non più del fatto di aver silurato il fastidioso presidente della Corte costituzionale Oleksandr Tupytskyj, nonché di aver nominato, come successore del primo ministro Oleksyj Hontcharuk – estromesso a causa di uno scandalo – un illustre sconosciuto, Denys Chmynal, che però aveva il pregio di dirigere una delle fabbriche dell’uomo più ricco del Paese, Rinat Akhmetov, proprietario della famosa acciaieria Azovstal, ultimo rifugio degli eroici combattenti per la libertà del battaglione Azov.

 

Combattenti che esibiscono su braccia, collo, schiena o petto tatuaggi che glorificano il Wolfsangel della divisione SS Das Reich, frasi di Adolf Hitler o croci uncinate, come si è potuto vedere negli innumerevoli video diffusi dai russi dopo la resa dell’Azov.

 

 

Ostaggio dei battaglioni Azov

Ma la prossimità dello smagliante Volodymyr con i rappresentanti più estremisti della destra nazionalista ucraina non è la minore delle stranezze del Dr. Zelensky.

 

Questa complicità è stata subito negata con veemenza dalla stampa occidentale, che l’ha giudicata scandalosa per le origini ebraiche del presidente, repentinamente emerse. Come potrebbe un presidente ebreo simpatizzare con neonazisti, per di più fatti passare per un’infima minoranza di marginali? Non bisognerebbe dar credito all’operazione di «denazificazione» condotta da Vladimir Putin…

 

Ma i fatti sono incontrovertibili e tutt’altro che irrilevanti.

 

Certamente Zelensky non è mai stato, a titolo personale, vicino all’ideologia neonazista, nonché all’estrema destra nazionalista ucraina. L’ascendenza ebrea, sebbene relativamente lontana e mai rivendicata prima di febbraio 2022, esclude evidentemente ogni forma di antisemitismo da parte sua. La vicinanza a queste ideologie non è da imputare a un’affinità, ma pertiene all’ordinaria ragione di Stato e a una sapiente mescolanza di pragmatismo e d’istinto di sopravvivenza fisica e politica.

 

Per capire la natura delle relazioni tra Zelensky e l’estrema destra, bisogna risalire a ottobre 2019. Bisogna altresì tener presente che queste formazioni di estrema destra, benché non esprimano più del 2% dell’elettorato, sono tuttavia costituite da quasi un milione di persone, molto motivate e ben organizzate, sparpagliate in molte organizzazioni e movimenti, dei quali il battaglione Azov (finanziato dal 2014 da Kolomojskij, ancora lui!) è il più noto. Cui bisogna aggiungere, per essere esaustivi, Aidar, Dnipro, Safari, Svoboda, Pravy Sektor, C14 e Corpo Nazionale.

 

C14, così battezzato per il numero di parole che compongono la frase del neonazista americano David Lane («We must secure the existence of our people and a future for white children»), è uno dei meno conosciuti all’estero, ma fra i più temuti in Ucraina per la sua violenza razzista. Tutte queste organizzazioni sono state più o meno fuse nella Guardia Nazionale ucraina, per iniziativa del loro promotore, l’ex ministro dell’Interno Arsen Avakov, che ha regnato con pieni poteri sull’apparato di sicurezza ucraino dal 2014 al 2021. Sono costoro che dall’autunno 2019 Zelensky chiama «veterani».

 

Pochi mesi dopo essere stato eletto, il giovane presidente va in Donbass per tentare di mantenere fede alla promessa elettorale e far applicare gli Accordi di Minsk, firmati dal predecessore. Le forze di estrema destra, che dal 2014 bombardano le città delle regioni di Donetsk e Lugansk al prezzo di diecimila morti, lo accolgono con grande circospezione perché diffidano del presidente «pacifista». Sono gli stessi che conducono una campagna senza pietà contro la pace, con lo slogan «Nessuna capitolazione».

 

In un video si vede un livido Zelensky implorarli: «Sono il presidente di questo Paese. Ho 41 anni. Non sono un perdente. Vengo da voi e vi dico: lasciate le armi». Il video dilaga sui social network e Zelensky viene preso di mira da una campagna carica d’odio: fine delle velleità di pace e di applicazione degli accordi di Minsk.

 

Poco dopo la visita del presidente c’è un ritiro minimo delle forze estremiste, poi gli ucraini riprendono ancor più intensamente a bombardare i concittadini russofoni.

 

 

Crociata nazionalista

Il problema è che Zelensky non solo ha ceduto al ricatto dei nazionalisti, ma si è unito alla loro crociata.

 

Dopo il fallimento della missione del 2019, il presidente riceve diversi leader dell’estrema destra, fra cui Yehven Taras, capo del C14; il suo primo ministro si mostra invece a fianco di Andryj Medvedko, neonazista sospettato di omicidio. Zelensky sostiene anche il calciatore Zolzulya contro i tifosi spagnoli, che lo accusano di essere nazista perché proclamato ammiratore di Stepan Bandera, leader nazionalista che durante la guerra collaborò con la Germania nazista (e con la CIA nel dopoguerra), nonché partecipò all’olocausto degli ebrei.

 

La collaborazione con i radicali nazionalisti si consolida. A novembre dello scorso anno Zelensky nomina l’ultranazionalista di Pravy Sektor, Dmytro Yarosh, consigliere speciale del comandante in capo delle forze armate ucraine, nonché, da febbraio 2022, capo dell’Armata dei volontari che dissemina terrore nelle retrovie dell’esercito.

 

Contemporaneamente, nomina Oleksander Pokland, soprannominato «lo strangolatore» per la sua inclinazione alla tortura, capo del controspionaggio dello SBU, il Servizio di Sicurezza Ucraino.

 

A dicembre, due mesi prima della guerra, tocca a un altro capo di Pravij Sektor, il comandante Dmytro Kotsuybaylo, essere ricompensato con il titolo di Eroe dell’Ucraina; a una settimana dall’inizio delle ostilità Zelensky sostituisce inoltre il governatore regionale di Odessa con Maksym Marchenko, comandante del battaglione ultranazionalista Aidar, lo stesso a fianco del quale il francese Bernard-Henri Lévy sarà orgoglioso di sfilare.

 

Volontà di domare l’estrema destra distribuendo incarichi? Condivisione dell’ultra-patriottismo? O semplice convergenza d’interessi di una destra neoliberale, atlantista e filoccidentale, e di un’estrema destra nazionalista, che sogna di prendersela con i russi e di «portare le razze bianche del mondo intero in una crociata finale contro gli Untermenschen [subumani, ndt] guidati dai semiti», secondo le parole dell’ex deputato AndryjBiletsky, capo del Corpo Nazionale? Non è dato saperlo: nessun giornalista ha osato chiederlo a Zelensky.

 

Non ci sono dubbi invece sulla deriva sempre più autoritaria, addirittura criminale, del regime ucraino, al punto che persino gli zeloti di Zelensky dovrebbero riflettere, non una ma due volte, prima di proporlo per il premio Nobel della Pace. Mentre i media guardano altrove, gli eletti locali e nazionali, sospettati di essere agenti russi o di connivenza con il nemico soltanto perché vogliono evitare un’intensificazione del conflitto, sono oggetto di una vera e propria campagna d’intimidazione, di rapimenti e di esecuzioni.

 

«Un traditore in meno in Ucraina! È stato ritrovato ucciso, giudicato dal tribunale del popolo!» con queste parole il consigliere del ministro dell’Interno, Anton Gerashenko, ha annunciato su Telegram l’assassinio di Volodymyr Strok, sindaco ed ex deputato della piccola città di Kremnina. Sospettato di essere un collaboratore dei russi, è stato rapito e torturato prima di essere giustiziato.

 

Il 7 marzo è la volta del sindaco di Gostomel, ucciso perché aveva voluto negoziare un corridoio umanitario con i militari russi. Il 24 marzo il sindaco di Kupyansk chiede a Zelensky di far liberare la propria figlia, rapita dai fanatici dello SBU

 

Contemporaneamente uno dei negoziatori ucraini è ritrovato morto dopo che i media nazionalisti lo avevano accusato di tradimento. A oggi, è stata denunciata la scomparsa di non meno di 11 sindaci, anche in zone mai occupate dai russi…

 

 

Vietati i partiti di opposizione

Ma la repressione non finisce qui: tutti i media che hanno osato criticare sono stati chiusi; tutti i partiti d’opposizione sono stati sciolti.

 

A febbraio 2021 Zelensky ha fatto chiudere tre reti televisive di opposizione, giudicate filorusse. Sono ritenute di proprietà dell’oligarca Viktor Medvedchuk: NewsOne, Zik e 112 Ucraina. Il dipartimento di Stato americano plaude a questi attentati alla libertà di stampa, dichiarando che gli Stati Uniti sostengono gli sforzi dell’Ucraina per contrastare la maligna influenza della Russia…

 

A gennaio 2022 viene chiusa la rete Nash. Dopo l’inizio della guerra il regime dà la caccia a giornalisti, blogger e commentatori di sinistra. A inizio aprile vengono colpite anche due reti di destra, Chanel 5 e Pryamiy. Un decreto presidenziale obbliga tutte le reti a diffondere una sola campana, naturalmente quella filo-presidenziale.

 

Recentemente la caccia alle streghe si è estesa persino al blogger contestatore più popolare del Paese: il Navalny ucraino, Anatoliy Shariy, che il 4 maggio è stato arrestato dalla polizia spagnola su richiesta della polizia politica ucraina. Attacchi alla stampa quantomeno equivalenti a quelli dell’autocrate Putin, ma di cui non si è mai sentito parlare sulla stampa occidentale…

 

La purga è stata ancor più severa nei confronti dei partiti politici. Ha decimato i principali oppositori di Zelensky. A primavera 2021 il più influente tra loro, Medvedchuk, ritenuto vicino a Putin, è stato messo agli arresti domiciliari e la sua casa saccheggiata. Il 12 aprile il deputato oligarca è stato rinchiuso con la forza in un luogo segreto, visibilmente drogato e privato della possibilità di ricevere visite, prima di essere esibito in TV e offerto come scambio per la liberazione dei difensori dell’Azovstal, in spregio a tutte le Convenzioni di Ginevra. Minacciati, i suoi avvocati sono stati costretti a rinunciare a difenderlo; è subentrato un difensore d’ufficio.

 

A dicembre scorso Petro Poroschenko, in rimonta nei sondaggi, è accusato di tradimento. Alle ore 15.07 del 20 dicembre 2021 si poteva leggere sul sito ufficiale dello SBU che era sospettato di tradimento e di sostegno ad attività terroristiche. L’ex presidente, forsennatamente antirusso, veniva rimproverato «di aver reso l’Ucraina energeticamente dipendente dalla Russia e dai leader delle pseudo-repubbliche indipendenti controllate dai russi.»

 

Lo scorso 3 marzo gli attivisti della Sinistra Lizvizia subiscono un raid dello SBU; vengono arrestati a decine.

 

Il 19 marzo la repressione colpisce l’insieme della sinistra ucraina. Undici partiti di sinistra sono messi fuori legge: Partito per la Vita, Opposizione di Sinistra, Partito Socialista Progressista di Ucraina, Partito Socialista di Ucraina, Unione delle Forze di Sinistra, Socialisti, Partito Sharyi, I Nostri, Blocco d’Opposizione, Blocco Volodymyr Saldo.

 

Altri attivisti, blogger e difensori dei diritti umani sono arrestati e torturati: il giornalista Tyan Taksyur, l’attivista Elena Viacheslavova, il cui padre morì carbonizzato durante il pogrom del 2 maggio 2014 alla Casa dei Sindacati di Odessa.

 

Per completare la lista vanno menzionati tutti gli uomini e le donne denudati e scudisciati in pubblico per le vie di Kiev dai nazionalisti; i prigionieri russi picchiati cui si sparava alle gambe prima di giustiziarli; i membri della Legione Georgiana, che in un villaggio vicino a Kiev giustiziavano prigionieri russi mentre il loro capo si vantava di non fare mai prigionieri.

 

Sulla rete Ukraina 24 è il capo del servizio sanitario delle forze armate a comunicare di aver ordinato «di castrare tutti gli uomini russi, subumani peggiori degli scarafaggi.»

 

Per finire, l’Ucraina ricorre massicciamente alla tecnologia di riconoscimento facciale della società Clearview per identificare i morti russi e diffondere le loro foto sui social network russi ridicolizzandoli…

 

 

Un attore da Oscar

Si potrebbero citare esempi a non finire, tanto sono numerose le menzioni e i video delle atrocità commesse dalle truppe del difensore della democrazia e dei diritti umani, che ha in mano il destino dell’Ucraina. Ma avrebbe effetto irritante e controproduttivo su un’opinione pubblica convinta che i comportamenti barbari sono imputabili solo ai russi.

 

Per questo motivo nessuna ONG lancia l’allarme, il Consiglio di Europa se ne sta cheto, il Tribunale Penale Internazionale non indaga, le organizzazioni per la difesa della libertà di stampa tacciono. Nessuno ha ascoltato quello che il mite Volodymyr aveva dichiarato ai primi di aprile, durante una visita a Butcha: «Se non troviamo una via d’uscita civilizzata, conoscete la nostra gente, troverà un’uscita non civilizzata.»

 

Il problema dell’Ucraina è che il suo presidente, volente o nolente, ha ceduto sul piano interno il potere agli estremisti, sul piano esterno lo ha ceduto ai militari della NATO, per il puro e semplice piacere di essere adulato dalle folle del mondo intero.

 

l 5 marzo scorso, dieci giorni dopo l’invasione russa, dichiarava a un giornalista straniero: «Oggi la mia vita è bella. Credo di essere desiderato. Sento che questo è il senso più importante della mia vita: essere desiderato. Sentire che non ci si limita banalmente a respirare, camminare e mangiare una cosa qualunque. Sentire che si è vivi!»

 

Giova ripeterlo: Zelensky è un grande attore. Come il predecessore che nel 1932 interpretò Dr. Jekill e Mr. Hide, anch’egli merita di vincere l’Oscar per il migliore ruolo maschile del decennio. Ma quando dovrà misurarsi con la ricostruzione del Paese devastato da una guerra che avrebbe potuto evitare nel 2019, il ritorno alla realtà potrebbe essere difficile.

 

 

Guy Mettan

 

 

FONTI

Olga Rudenko, «The Comedian-Turned-President is Seriously in Over His Head», New York Times, 21 febbraio 2022 (editoriale ospite dal Kyyiv Post).
Alex Rubinstein e Max Blumenthal,«How Zelensky made Peace With Neo-Nazis» e «Zelensky’s Hardline Internal Purge», Consortium News, 4 marzo and 20 aprile 2022.
Natylie Baldwin, «Olga Baysha Interview about Ukraine’s President»,  The Grayzone, 28 aprile 2022.
«President of Ukraine Zelensky has visited disengaging area in Zolote today», @Liveupmap, 26 ottobre  2019 (da guardare su Twitter).
Adrien Nonjon, «Qu’est-ce que le régiment Azov?»,  The Conversation, 24 maggio 2022.
«Public Designation of Oligarch and Former Ukrainian Public Official Ihor Kolomoyskyy Due to Involvement in Significant Corruption», dichiarazione alla stampa di  Anthony J. Blinken, US Department of State, March 5, 2021.
«Petro Poroshenko notified of suspicion of treason and aiding terrorism», Servizi segreti ucraini, 20 dicembre 2021.
Michel Pralong, «Un maire ukrainien prorusse enlevé et abattu»,  Le Matin, 3 marzo 2022.

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

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Immagine via Flickr pubblicata secondo licenza Pubblico Dominio CC0

 

 

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Geopolitica

Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine

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Il primo ministro Sretta Thavisin ha rinunciato alla visita, ma ha annunciato la creazione di un comitato ad hoc per gestire la situazione. Nel fine settimana, infatti, si sono verificati ulteriori combattimenti lungo la frontiera tra Myanmar e Thailandia e migliaia di rifugiati continuano a spostarsi da una parte all’altra del confine. Per evitare una nuova umiliazione l’esercito birmano ha intensificato i bombardamenti.

 

Il primo ministro della Thailandia Sretta Thavisin questa mattina ha cancellato la visita che aveva in programma a Mae Sot, città al confine con il Myanmar, e ha invece mandato al suo posto il ministro degli Esteri e vicepremier Parnpree Bahidda Nukara.

 

Nei giorni scorsi era stata annunciata la creazione di «un comitato ad hoc per gestire la situazione derivante dai disordini in Myanmar», ha aggiunto il premier. «Sarà un meccanismo di monitoraggio e valutazione» che avrà come scopo quello di «analizzare la situazione complessiva» e «dare pareri e suggerimenti per gestire in modo efficace la situazione».

 

La Thailandia, dopo i ripetuti fallimenti da parte dell’ASEAN (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) di far rispettare l’accordo di pace in Myanmar, sta cercando di evitare che un esodo di rifugiati in fuga dalla guerra civile si riversi sui propri confini proponendosi come mediatore. «Il ruolo della Thailandia è quello di fare tutto il possibile per aiutare a risolvere il conflitto nel Paese vicino, e un ruolo simile è atteso anche dalla comunità internazionale», ha dichiarato ieri il segretario generale del primo ministro Prommin Lertsuridej.

 

Durante il fine settimana si sono verificati ulteriori scontri a Myawaddy (la città birmana dirimpettaia di Mae Sot), nello Stato Karen, tra le truppe dell’esercito golpista e le forze della resistenza, che hanno strappato il controllo della città ai soldati, grazie anche al cambio di bandiera della Border Guard Force, che, trasformatasi nell’Esercito di liberazione Karen (KLA), è passata a sostenere la resistenza e sta combattendo per la creazione di uno Stato Karen autonomo.

 

Giovedì scorso, l’Esercito di Liberazione Nazionale Karen (KNLA, una milizia etnica da non confondere con il KNA) aveva annunciato di aver intercettato l’ultimo gruppo di militari rimasto, il battaglione di fanteria 275. Alla notizia, l’esercito ha risposto con pesanti bombardamenti, lanciando l’Operazione Aung Zeya (dal nome del fondatore della dinastia Konbaung che regnò in Birmania nel XVIII secolo), nel tentativo di riconquistare Myawaddy ed evitare così un’altra umiliante sconfitta.

 

The Irrawaddy scrive che l’aviazione birmana ha sganciato nei pressi del Secondo ponte dell’amicizia (uno dei collegamenti tra Mae Sot e Myawaddy) circa 150 bombe, di cui almeno sette sono cadute vicino al confine thailandese dove sono di stanza le guardie di frontiera. Si tratta di una tattica a cui l’esercito birmano sta facendo ricorso sempre più frequentemente a causa delle sconfitte registrate sul campo a partire da ottobre, quando le milizie etniche e le Forze di Difesa del Popolo (PDF, che fanno capo al Governo di unità nazionale in esilio, composto dai deputati che appartenevano al precedente esecutivo, spodestato con il colpo di Stato militare) hanno lanciato un’offensiva congiunta. Una tattica realizzabile, però, solo grazie al continuo sostegno da parte della Russia. Fonti locali hanno infatti dichiarato che gli aerei e gli elicotteri «utilizzati per bombardare i villaggi e per consegnare rifornimenti e munizioni» a «circa 10 chilometri dal confine tra Thailandia e Myanmar» erano «tutti russi».

 

Bangkok è stata presa alla sprovvista dalla situazione. Sabato un proiettile vagante ha colpito il retro di una casa sulla parte thailandese del confine, senza ferire nessuno, ma l’episodio ha costretto il Paese a rafforzare le proprie difese di confine, aumentando i controlli su coloro che attraversano i due ponti che collegano Myawaddy e Mae Sot, al momento ancora aperti.

 

La polizia thai ha anche arrestato 15 birmani e due thailandesi che stavano cercando di fuggire in Malaysia in cerca di migliori opportunità di lavoro. Il gruppo ha raccontato di aver valicato il confine a Mae Sot grazie all’aiuto di intermediari. Viaggi di questo tipo rischiano di diventare sempre più frequenti con l’esacerbarsi della violenza in Myanmar, sostengono gli esperti, i quali si aspettano un prosieguo dei combattimenti, almeno finché non comincerà la stagione delle piogge, che ogni anno pone un freno agli scontri.

 

Ma la Thailandia ha anche inviato aiuti in Myanmar (sebbene tramite enti gestiti dai generali) e attivato una risposta umanitaria a Mae Sot. Il Governo di unità nazionale in esilio ha ringraziato Bangkok per aver fornito riparo e assistenza ai rifugiati, prevedendo tuttavia ulteriori sfollamenti. Almeno 3mila persone – perlopiù anziani e bambini – hanno varcato il confine solo nel fine settimana, ha dichiarato due giorni fa il ministro degli Esteri Parnpree Bahidda Nukara, ma circa 2mila sono tornati a Myawaddy lunedì.

 

Il mese scorso Parnpree aveva annunciato che il Paese avrebbe potuto ospitare fino a 10mila rifugiati birmani a Mae Sot e dintorni.

 

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Geopolitica

L’Iran minaccia ancora una volta di spazzare via Israele

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Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha minacciato Israele di annientamento se tentasse di attaccare nuovamente l’Iran.   Raisi è arrivato in Pakistan lunedì per una visita di tre giorni. Martedì ha parlato delle recenti tensioni tra Teheran e Gerusalemme Ovest in un evento nel Punjab.   «Se il regime sionista commette ancora una volta un errore e attacca la terra sacra dell’Iran, la situazione sarà diversa, e non è chiaro se rimarrà qualcosa di questo regime», ha detto Raisi all’agenzia di stampa statale IRNA.   Israele non ha mai riconosciuto ufficialmente un attacco aereo del 1° aprile sul consolato iraniano a Damasco, in Siria, che ha ucciso sette alti ufficiali della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). Teheran ha tuttavia reagito il 13 aprile, lanciando decine di droni e missili contro diversi obiettivi in ​​Israele.   L’Iran si è scrollato di dosso una serie di esplosioni segnalate vicino alla città di Isfahan lo scorso venerdì, che si diceva fossero una risposta da parte di Israele. Lo Stato degli ebrei non ha riconosciuto l’attacco denunciato, pur criticando un ministro del governo che ne ha parlato a sproposito. Teheran ha scelto di ignorarlo piuttosto che attuare la rapida e severa rappresaglia promessa.   La Repubblica Islamica ha promesso in più occasioni di spazzare via, distruggere o annientare il «regime sionista», espressione con cui spesso chiama Israele.

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Martedì, parlando a Lahore, il Raisi ha promesso di continuare a «sostenere onorevolmente la resistenza palestinese», denunciando gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo come «i più grandi violatori dei diritti umani», sottolineando il loro sostegno al «genocidio» israeliano a Gaza.   Nel suo viaggio diplomatico il Raisi ha promesso di incrementare il commercio iraniano con il Pakistan portandolo a 10 miliardi di dollari all’anno. Le relazioni tra i due vicini sono difficili da gennaio, quando Iran e Pakistan hanno scambiato attacchi aerei e droni mirati a “campi terroristici” nei rispettivi territori.   Come riportato da Renovatio 21, negli scorsi giorni Teheran ha dichiarato pubblicamente di sapere dove sono nascoste le atomiche israeliane. Nelle scorse settimane lo Stato Ebraico aveva dichiarato di essere pronto ad attaccare i siti nucleari iraniani.   Negli ultimi mesi l’Iran ha accusato Israele di aver fatto saltare i suoi gasdotti. Hacker legati ad Israele avrebbero rivendicato un ulteriore attacco informatico al sistema di distribuzione delle benzine in Iran.   Sei mesi fa l’Iran ha arrestato e giustiziato tre sospetti agenti del Mossad. All’ONU il ministro degli Esteri iraniano aveva dichiaato che gli USA «non saranno risparmiati» in caso di escalation.   Come riportato da Renovatio 21, anche da Israele a novembre 2023 erano partite minacce secondo le quali l’Iran potrebbe essere «cancellato dalla faccia della terra».

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Geopolitica

Fosse comuni negli ospedali di Gaza

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Il capo dei diritti delle Nazioni Unite Volker Turk ha dichiarato martedì di essere «inorridito» dalla distruzione delle strutture mediche di Nasser e Al-Shifa a Gaza da parte delle truppe israeliane e dalle notizie di fosse comuni scopertevi.

 

Le autorità palestinesi hanno riferito di aver trovato decine di corpi in fosse comuni presso l’ospedale Nasser di Khan Younis questa settimana, dopo che era stato abbandonato dall’IDF. Sono stati segnalati corpi anche nel sito di Al-Shifa a seguito di un’operazione delle forze speciali israeliane.

 

Secondo il servizio di emergenza civile di Gaza gestito da Hamas, citato dall’agenzia Reuters, finora sono stati trovati un totale di 310 corpi in una fossa comune presso l’ospedale Nasser, la principale struttura sanitaria nel sud di Gaza. Secondo quanto riferito, altre due fosse comuni sarebbero state identificate ma non ancora scavate.

 

«Sentiamo il bisogno di lanciare l’allarme perché chiaramente sono stati scoperti più corpi», ha detto Turk, rivolgendosi a un briefing delle Nazioni Unite tramite un portavoce.

 

«Alcuni di loro avevano le mani legate, il che ovviamente indica gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale, e queste devono essere sottoposte a ulteriori indagini”, ha affermato il responsabile dei diritti umani delle Nazioni Unite.

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L’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha detto che sta lavorando per corroborare i rapporti dei funzionari palestinesi, sostenendo che alcuni dei corpi erano sepolti sotto cumuli di rifiuti e includevano donne e anziani.

 

Israele afferma di essere stato costretto a combattere all’interno degli ospedali perché i militanti di Hamas usano le strutture come basi, un’affermazione che il personale medico e lo stesso gruppo militante negano. Il governo dello Stato Ebraico ha riferito che le sue forze hanno ucciso circa 200 militanti ad Al-Shifa e hanno evitato di danneggiare i civili.

 

Turk ha anche criticato gli attacchi israeliani su Gaza degli ultimi giorni, che secondo lui hanno ucciso soprattutto donne e bambini.

 

Il dirigente onusiano ha messo ancora una volta in guardia Israele da un’incursione su vasta scala nella città di Rafah, nel sud di Gaza, dove circa 1,4 milioni di sfollati palestinesi hanno cercato rifugio dall’inizio del conflitto Hamas-Israele. L’offensiva potrebbe portare a «ulteriori crimini atroci», ha avvertito il Turk.

 

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sostiene che Israele non può raggiungere il suo obiettivo di «vittoria totale» senza lanciare un’offensiva su Rafah.

 

Come riportato da Renovatio 21, il Turko ha dichiarato il 18 marzo che «la portata delle continue restrizioni poste da Israele all’ingresso di aiuti a Gaza, insieme al modo in cui continua a condurre le ostilità, possono equivalere all’uso della fame come metodo di guerra, che è un crimine di guerra».

 

Il portavoce di Türk, Jeremy Laurence, ha sottolineato che «Israele, in quanto potenza occupante, ha l’obbligo di garantire la fornitura di cibo e assistenza medica alla popolazione in misura adeguata ai suoi bisogni e di facilitare il lavoro delle organizzazioni umanitarie per fornire tale assistenza».

 

Un mese fa l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani aveva affermato che gli insediamenti illegali di Israele in Cisgiordania sono aumentati a livelli record e rischiano di eliminare ogni possibilità pratica di uno Stato palestinese.

 

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Immagine di IDF Spokeperson’s Unit via Wikimedia pubblicata su licenza Pubblico Dominio CC0.

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