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Consacrazione a mano armata

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«Venerdì 25 marzo, durante la Celebrazione della Penitenza che presiederà alle 17 nella Basilica di San Pietro, Papa Francesco consacrerà all’Immacolato Cuore di Maria la Russia e l’Ucraina. Lo stesso atto, lo stesso giorno, sarà compiuto a Fatima dal cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere pontificio, come inviato dal Santo Padre». La dichiarazione ufficiale è di qualche giorno fa.

 

Entusiasmo corale, anzi ecumenico. Tutti in estasi per l’iniziativa, lungo l’intero arco costituzionale ecclesiastico, dai progressisti ai conservatori passando per le varie sfumature delle contrapposte tifoserie. In effetti la mossa è astuta: intenerisce gli animi dei fedeli, ricompatta le fila, rilancia l’immagine «spirituale» di una struttura che ormai appare ai più come dedita alla fredda gestione del potere.

 

Insomma, un’occasione d’oro, per la chiesa, di rifarsi il trucco. Difficile mettersi contro un (presunto) gesto di fede.

 

E tuttavia bisogna guardarci un po’ oltre, e intorno.

 

Intanto una curiosità: l’elemosiniere spedito a Fatima è lo stesso cardinale salito agli onori delle cronache per avere ridato la corrente al palazzo occupato dai centri sociali, poi divenuto sede di un bel rave party gay per il capodanno.

 

Ma, a parte questa nota di costume, l’importante è il riferimento (tacito) alla Madonna di Fatima, magicamente mai nominata.

 

I cosiddetti tradizionalisti vanno in solluchero. E pazienza se Maria parlò ai pastorelli della conversione della Russia e basta (tanto che i piccoli veggenti credettero si trattasse di una tizia), visto che al tempo l’Ucraina come la conosciamo ora era solo un’idea nella mente di Lenin.

 

Per la cronaca, consacrazioni e affidamenti fatimiti della Russia sono stati celebrati varie volte nel corso del secolo. E ogni volta qualcosa non andava, sostengono gli esegeti. Per qualche motivo, Roma proprio non ce la fa: Pio XII e Paolo VI avevano celebrato riti non corrispondenti alle richieste della Madonna, secondo Suor Lucia, la veggente superstite che lamentava l’assenza dei vescovi e, in particolare, della Russia protagonista.

 

«Verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati. Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace».

 

L’aggiunta dell’Ucraina suona davvero un po’ problematica: perché infatti non la Bielorussia? Il Tajikistan? Il Turkmenistan? L’Azerbaigian? Kaliningrad la contiamo dentro? La Siberia è Russia? L’Uzbekistan? Il Kazakistan? E il Kirghizistan?

 

Non sono domande peregrine: basta leggere i libri di Monsignor Athanasius Schneider per conoscere le storie di vero martirio che la sua famiglia e le comunità cattoliche prigioniere dell’URSS hanno subito in epoche non molto lontane.

 

In quelle epoche non molto lontane il papato inviava segretamente sacerdoti oltre cortina per distribuire la comunione ai cristiani della catacomba sovietica. Venivano formati in un istituto di Roma che si chiamava Collegium Russicum, Russicum in breve, com’è ancora scritto nel palazzo di via Carlo Alberto a Roma. Oggi, secondo il vaticano inclusivo filo-Azov, sarebbe una cosa come Russicum Ucrainumque.

 

Ma, al di là della libera interpretazione del messaggio fatimita, il fatto davvero incredibile è che, contestualmente al lancio di questa iniziativa dalla connotazione mistica, il Vaticano benedice la spedizione di armi al regime tirannico di Zelen’skyj.

 

Sulla questione è intervenuto il Segretario di Stato, il cardinale Parolin: «il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi. Allo stesso tempo, entrambe le parti devono astenersi dall’uso di armi proibite e rispettare pienamente il diritto umanitario internazionale per proteggere i civili e le persone fuori dal combattimento».

 

Bergoglio avrebbe poi parzialmente corretto il suo responsabile agli Esteri. Ma nella sostanza il fatto resta: resta, cioè, la benedizione del traffico internazionale di armi a beneficio dei massacratori neonazisti del Donbass.

 

La cosa, di per sé, va oltre ogni immaginazione. Ancor più se si considera come i fucili distribuiti tra la popolazione siano già filtrati verso la criminalità – cui sappiamo che il «democratico» presidente-comico ucraino in perenne stato di alterazione ha promesso, da subito, amnistia. 

 

Non solo: da testimonianze dirette, si sa che voleva mandare a combattere a Kiev foreign fighters privi di armi. Un americano poi fuggito in Polonia racconta che i soli a cui veniva elargito un fucile ricevevano la grazia di un caricatore con 10 colpi in dotazione.

 

Quindi, cardinale Parolin, ha un’idea di dove stiano andando le armi che l’Occidente, Italia compresa (magari camuffate da aiuti umanitari, come denuncia un sindacato) umanitariamente spedisce ad orientem?

 

Non le viene il sospetto che stiano finendo ai signori della guerra, o a milizie neonaziste, con le loro belle storie di crudeltà e paganesimo sanguinario?

 

Cardinale, esclude che tornino magari proprio nel nostro già martoriato Paese, ad alimentare nuove mafie e altre stagioni di assalti alle villette?

 

Ora, ci rendiamo ben conto che una chiesa che non si occupa più dell’eterno, non credendoci, faccia fatica ad occuparsi del futuro. Essa vive nel presente senza fine dell’8 per mille e delle orge gay del lunedì sera dietro le mura leonine.

 

Ma quello che davvero conta, in questa strana storia, e inquietante, è la tempistica della narrativa vaticana: consacrazione dei belligeranti e benedizione delle armi. Letteralmente: consacrazione a mano armata.

 

Senza entrare troppo nel sacro enigma, c’è poi l’altra parte dei misteri di Fatima. Quella in cui «un vescovo vestito di bianco» viene ucciso da un gruppo di soldati che lo colpiscono con frecce e colpi di arma da fuoco, e allo stesso modo muoiono vescovi, sacerdoti, religiosi, fedeli.

 

Che anche questa profezia sia la prova dell’autodistruzione della chiesa, spinta oggi fino a benedire le armi degli assassini?

 

Cardinale Parolino, se l’è fatta una domanda?

 

In ogni caso, considerato tutto il suo contorno, la faccenda assume materialmente la tinta dei suoi indumenti di principe della chiesa: la porpora, che simboleggia il colore del sangue.

 

E qualcuno dovrà pur farlo notare.  

 

Qualcuno dovrà pure, ad un certo punto, ritenervi responsabili di quello che state facendo.

 

 

Roberto Dal Bosco

Elisabetta Frezza

Geopolitica

La Von der Leyen lancia un ultimatum alla Serbia

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La Serbia non potrà entrare nell’UE senza un pieno allineamento alla politica estera del blocco, incluse tutte le sanzioni contro la Russia, ha dichiarato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.

 

La Serbia, che ha richiesto l’adesione all’UE nel 2009 e ha ottenuto lo status di paese candidato nel 2012, è tra i pochi stati europei a non aver imposto restrizioni a Mosca. Belgrado ha sottolineato i suoi storici legami con la Russia e la dipendenza dalle sue forniture energetiche.

 

Mercoledì, durante una conferenza stampa a Belgrado accanto al presidente serbo Aleksandar Vucic, von der Leyen ha ribadito che la Serbia deve compiere «passi concreti» verso l’adesione e mostrare un «maggiore allineamento» con le posizioni dell’UE, incluse le sanzioni, evidenziando che l’attuale livello di conformità della Serbia alla politica estera dell’UE è del 61%, ma ha insistito che «serve fare di più», sottolineando il desiderio di Bruxelles di vedere Belgrado come un «partner affidabile».

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Vucic ha più volte dichiarato che la Serbia non imporrà sanzioni alla Russia, definendo la sua posizione «indipendente e sovrana». Tuttavia, il rifiuto di Belgrado ha attirato crescenti pressioni da parte di Bruxelles e Washington.

 

La settimana scorsa, gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni alla Petroleum Industry of Serbia (NIS), parzialmente controllata dalla russa Gazprom Neft, spingendo la Croazia a interrompere le forniture di greggio. Vucic ha avvertito che tali misure potrebbero portare alla chiusura dell’unica raffineria petrolifera serba entro novembre, mettendo a rischio l’approvvigionamento di benzina e carburante per aerei.

 

Come riportato da Renovatio 21proteste sempre più violente si susseguono nel Paese, che Belgrado attribuisce a influenze occidentali volte a destabilizzare il governo.

 

Le proteste hanno già portato alle dimissioni del primo ministro Milos Vucevic e all’arresto di diversi funzionari, tra cui un ex ministro del Commercio, con l’accusa di corruzione.

 

Il presidente Aleksandar Vucic ha affermato che i disordini sono stati fomentati dall’estero e ha denunciato quella che ha definito «violenza mascherata da attivismo»: «mancano pochi giorni prima che inizino a uccidere per le strade» aveva detto lo scorso agosto davanti all’ennesima ondata di proteste violente.

 

Come riportato da Renovatio 21, le grandi manifestazioni contro Vucic di marzo erano seguite la visita pubblica del figlio del presidente USA Don Trump jr. al premier di Belgrado.

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Come riportato da Renovatio 21, lo scorso mese il servizio di Intelligence estero russo (SVR) ha sostenuto che l’UE starebbe cercando di orchestrare un «Maidan serbo» per insediare un governo filo-Bruxelles. Belgrado nel dicembre 2023 produsse evidenti segni di «maidanizzazione» in corso. Già allora presidente serbo accusò le potenze occidentali di tentare di «ricattare» la Serbia affinché sostenga le sanzioni e di tentare di orchestrare una «rivoluzione colorata» – una sorta di Maidan belgradese –contro il suo governo a dicembre.

 

Vucic giorni fa ha accusato le potenze occidentali di aver cercato di orchestrare il suo rovesciamento. In un’intervista su Pink TV trasmessa lunedì, il presidente serbo aveva affermato che le «potenze straniere» hanno speso circa 3 miliardi di euro nell’ultimo decennio nel tentativo di estrometterlo dal potere.

 

Come riportato da Renovatio 21, il ministro degli Esteri Pietro Szijjarto ha dichiarato che l’Unione Europea sta tentando di rovesciare i governi di Ungheria, Slovacchia e Serbia perché danno priorità agli interessi nazionali rispetto all’allineamento con Bruxelles.

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Immagine di © European Union, 2025 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

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Pakistan e Afghanistan concordano il cessate il fuoco

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Afghanistan e Pakistan hanno dichiarato un cessate il fuoco temporaneo, mettendo fine agli scontri iniziati mercoledì mattina tra le loro forze. Più di una dozzina di civili sono stati uccisi nell’ultimo conflitto armato tra i due paesi vicini.   Il ministero degli Esteri pakistano ha comunicato, alcune ore dopo lo scontro, che Kabul e Islamabad hanno concordato una tregua di 48 ore, con inizio alle 18:00 ora locale di mercoledì.   Nella sua nota, il ministero ha sottolineato che entrambe le parti «si impegneranno sinceramente attraverso il dialogo per trovare una soluzione positiva ai loro problemi complessi ma risolvibili».   In precedenza, il portavoce dei talebani afghani Zabihullah Mujahid aveva scritto su X che le forze pakistane avevano avviato un attacco, utilizzando «armi leggere e pesanti», causando la morte di 12 civili e il ferimento di oltre 100 persone.

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Il portavoce aggiunto che le forze afghane hanno risposto al fuoco, uccidendo un «gran numero» di soldati, confiscando armi e carri armati pakistani e distruggendo installazioni militari.   Ali Mohammad Haqmal, portavoce del distretto di Spin Boldak, in Afghanistan, luogo dello scontro, ha stimato che le vittime civili siano state 15. Secondo l’AFP, un funzionario dell’ospedale locale ha riferito che tra i feriti ci sarebbero 80 donne e bambini.   Islamabad ha definito le accuse «oltraggiose» e «palesi menzogne», sostenendo che i talebani afghani abbiano iniziato le ostilità attaccando una postazione militare pakistana e altre aree vicino al confine. L’esercito pakistano ha dichiarato di aver respinto l’assalto, uccidendo 37 combattenti talebani in due operazioni distinte.   Secondo l’agenzia Reuters, che cita fonti di sicurezza anonime, lo scontro sarebbe durato circa cinque ore.   Il conflitto segue un’escalation di scontri avvenuta nel fine settimana, durante la quale Afghanistan e Pakistan si sono accusati a vicenda per le vittime. I talebani hanno affermato di aver ucciso 58 soldati pakistani, mentre Islamabad ha dichiarato di aver conquistato 19 posti di frontiera afghani.   Le tensioni transfrontaliere tra Afghanistan e Pakistan sono aumentate negli ultimi anni, con entrambe le parti che si accusano ripetutamente di ospitare militanti.  

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Israele accusa Hamas di aver restituito il corpo sbagliato

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Uno dei corpi restituiti martedì da Hamas non appartiene a nessuno degli ostaggi tenuti prigionieri dal gruppo armato palestinese a Gaza, hanno affermato le Forze di difesa israeliane (IDF).

 

Lunedì Hamas ha liberato gli ultimi 20 ostaggi israeliani ancora in vita in cambio del rilascio di quasi 2.000 prigionieri palestinesi, nell’ambito di un accordo mediato da Stati Uniti, Qatar, Egitto e Turchia. Martedì, il gruppo ha iniziato a consegnare i cadaveri dei prigionieri deceduti a Israele, restituendone sette in due lotti tramite la Croce Rossa.

 

Tuttavia, le IDF hanno dichiarato mercoledì in una dichiarazione su X che un esame presso l’istituto forense Abu Kabir ha rivelato che uno dei quattro corpi del secondo lotto «non appartiene a nessuno degli ostaggi». Si ritiene che i resti appartengano a un palestinese, hanno aggiunto.

 

 

Gli altri tre corpi sono stati confermati come appartenenti ai prigionieri. Sono stati identificati come il sergente maggiore Tamir Nimrodi, 18 anni, Uriel Baruch, 35 anni, ed Eitan Levy, 53 anni, si legge nel comunicato.

 

Il capo di stato maggiore delle IDF, tenente generale Eyal Zamir, ha dichiarato in precedenza che Israele «non avrà pace finché non restituiremo tutti [gli ostaggi]. Questo è il nostro dovere morale, nazionale ed ebraico». Hamas detiene ancora i corpi di 21 prigionieri deceduti.

 

Questa settimana, rifugiati palestinesi e combattenti di Hamas sono tornati a Gaza City e in altre aree dell’enclave, dopo il ritiro parziale delle forze dell’IDF, in linea con l’accordo. A Gaza sono stati segnalati scontri sporadici tra Hamas e fazioni rivali.

 

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Immagine di Chenspec via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

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