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Morte cerebrale

Calciatore cinese dichiarato «morto» in Spagna verrà rimpatriato per essere curato. La morte è divenuta un’opinione?

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Il criterio clinico della cosiddetta morte cerebrale è ascientifico, lacunoso, contraddittorio, privo di oggettività e affidabilità, come è ormai noto ai lettori di Renovatio 21.

 

Eppure, è sulla base di esso che viene decisa la vita e la morte dei pazienti in coma in Italia e in molti altri Paesi europei ed extraeuropei. I mass media, non di rado, riportano notizie alquanto bizzarre, se non decisamente inquietanti, che dimostrano come il suddetto criterio, totalmente disancorato dalla naturalità della morte, sia penetrato nella coscienza collettiva.

 

Nel corso di un’amichevole giocatasi in Spagna tra la squadra cinese del Beijing Guoan e l’RC Alcobendas, Guo Jiaxuan, giovanissimo calciatore cinese proveniente dall’accademia del Bayern Monaco, è crollato a terra in seguito ad un fortuito scontro di gioco con un avversario.

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Lo sfortunato difensore, di anni 18, è stato prontamente portato in ospedale dove gli è stata diagnosticata la morte cerebrale, tant’è che il fratello del calciatore ha postato sui social la foto del referto medico e il seguente comunicato: «il dottore ci dice che ci sono pochissime speranze di sopravvivenza, che è clinicamente morto a causa della mancanza di ossigeno al cervello e che presto dovranno rimuovere i tubi» (cioè i sostegni vitali, ndr).

 

Le cronache riferiscono che né il club di appartenenza del ragazzo né l’associazione sportiva che organizza i tour prestagionali della squadra in Europa volevano farsi carico delle spese mediche del calciatore, incluso il viaggio di ritorno in Cina. Solamente dopo il clamore mediatico sollevato da amici, familiari e tifosi, le due organizzazioni sportive hanno deciso di assicurare alla famiglia del giocatore la copertura di tutte le spese necessarie per il suo trasferimento in patria: «siamo pienamente impegnati a garantire che venga curato nel modo migliore».

 

Ora, al di là dei servizi di cronaca che non sempre brillano per accuratezza e precisione, è interessante notare come nessun cronista, a quanto sembra, abbia rilevato l’intrinseca contraddittorietà del fatto esposto, come se fosse del tutto normale considerare un cadavere bisognoso di cure.

 

Nei diversi resoconti su questo specifico episodio si parla del calciatore al passato e vengono ripercorse le tappe principali della sua giovane carriera, come se appunto fosse ormai morto.

 

In ogni caso, sono numerosi i casi clinici di persone dichiarate cerebralmente morte che sono uscite dal coma oppure sono sopravvissute per anni anche con il distacco dalla ventilazione ausiliaria, ma ovviamente essi non trovano spazio nei mass media e comunque tendono ad essere rubricati come «casi limite» o il risultato di errori diagnostici.

 

C’è anche da considerare quanto sia ritenuto improbabile che un paziente si risvegli dal coma dopo la dichiarazione di morte cerebrale, vuoi per l’estrema invasività di alcune procedure utilizzate per l’accertamento che non di rado complicano il quadro clinico del soggetto (vedi il famigerato test di apnea), vuoi per il subitaneo distacco dai sostegni vitali e dalle cure che lo mantengono in vita (a meno che si tratti di un donatore, il quale viene tenuto in vita al massimo per qualche giorno solo allo scopo di depredarlo degli organi).

 

In sostanza, la morte cerebrale corrisponderebbe alla perdita permanente delle funzioni cerebrali che non possono essere ripristinate mediante interventi medici né riattivarsi in maniera spontanea. Ma con tale assunto si intende la perdita di tutte le funzioni esistenti? Certamente no, visto che la scienza conosce solo una minuscola parte delle attività del cervello umano.

 

Il Decreto Ministeriale n 582/1994, che costituisce il regolamento attuativo della legge n 578/1993, riduce tutte le funzioni alle seguenti: coscienza, alcuni riflessi mediati dal tronco encefalico, respiro spontaneo e risposte elettroencefaliche mediate dalla corteccia di ampiezza superiore ai 2 microvolts. Tale elenco comprende solo una parte delle funzioni conosciute e ne trascura altre anche molto significative di cui è documentata la permanenza attiva in molti casi di morte cerebrale, come ad esempio l’importantissima funzione endocrina-ipotalamica.

 

Per quel che concerne l’attività elettrica cerebrale è bene sottolineare che non esistono criteri scientifici atti a determinare quali tipi di essa rappresentino funzioni significative e quali rappresentino invece funzioni residue o presunte tali. Del resto, l’elettroencefalogramma è stato declassato dalla comunità scientifica internazionale a indagine facoltativa e non decisiva, anche se nel nostro paese occupa ancora un ruolo centrale nell’accertamento diagnostico della morte cerebrale.

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In effetti, oltre al fatto che un tracciato elettroencefalografico può essere normale anche se piatto (ad esempio, adulti ansiosi o neonati possono presentare un tracciato piatto non patologico), le modalità di registrazione elettroencefalografica non garantiscono risultati certi, dal momento che essi possono essere influenzati da diversi fattori, tra cui l’effetto tampone provocato da importanti addensamenti di sangue all’interno del cranio.

 

Non solo, il limite dei 2 microvolts di attività elettrica cerebrale sotto cui non ci sarebbe la vita costituisce una soglia convenzionale valida solo ai fini legali, visto che essa non corrisponde ad un ipotetico zero strumentale e visto che i risultati dell’esame elettroencefalografico dipendono anche dalle cangianti tarature degli apparecchi e dall’impossibilità tecnica di amplificare segnali elettrici più bassi.

 

Inoltre, la scala grafica di registrazione su carta dei segnali elettroencefalici è talmente piccola che per osservare un’escursione leggibile di almeno 0,5 mm rilevante segni di vita sarebbero necessari tre microvolts di ampiezza, bel il 50% in più del minimo fissato per legge.

 

Di fatto, il criterio clinico di accertamento della morte fondato sui soli parametri neurologici nega alla morte lo status di fenomeno oggettivo che gli è proprio per natura e lo declassa ad evento accertabile a tavolino che dipende in una certa misura dalla taratura e dalle capacità amplificative degli apparecchi di registrazione, dall’abilità dell’osservatore e dalle diverse modalità di accertamento.

 

La morte è divenuta un’opinione?

 

Alfredo De Matteo

 

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Immagine generata artificialmente
 

 

Morte cerebrale

La «morte cerebrale» è stata inventata per prelevare più organi

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Renovatio 21 pubblica questo testo della dottoressa Heidi Kleissig apparso su LifeSiteNews.   In un recente editoriale del New York Times, tre medici affiliati a centri trapianti hanno proposto di ampliare la definizione legale di morte per ottenere più organi da trapiantare. È interessante notare che, alla fine del loro articolo, hanno ammesso che lo abbiamo già fatto in passato:   Nel 1968, un comitato di medici ed esperti di etica di Harvard formulò una definizione di morte cerebrale, la stessa definizione di base utilizzata oggi dalla maggior parte degli stati. Nel suo rapporto iniziale, il comitato osservò che «c’è un grande bisogno di tessuti e organi di persone in coma irreparabile per ripristinare la salute di coloro che sono ancora in grado di sopravvivere». Questa valutazione schietta fu eliminata dal rapporto finale a causa dell’obiezione di un revisore. Ma è quella che dovrebbe guidare le politiche odierne in materia di morte e trapianto di organi.

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Morte cerebrale/morte secondo criteri neurologici

Poco dopo che il dottor Christiaan Barnard eseguì il primo trapianto di cuore, 13 uomini della Harvard Medical School proposero l’idea della morte cerebrale in un articolo fondamentale, «Una definizione di coma irreversibile». Il loro articolo non contiene riferimenti scientifici e inizia con queste parole: «il nostro scopo principale è definire il coma irreversibile come un nuovo criterio di morte».   Senza test, studi o prove, questi uomini decisero che alcune persone in coma (che in precedenza erano sempre state considerate vive) potessero essere ridefinite come morte. L’unica motivazione fornita dal comitato per la riclassificazione delle persone in coma come cadaveri era l’utilità. Affermarono che la vita di queste persone era un peso per loro stesse e per gli altri, e che ridefinirle come morte avrebbe già liberato posti letto nelle unità di terapia intensiva e risolto la controversia sul reperimento dei loro organi.   Questa nuova definizione è stata certamente di grande utilità perché ha permesso ai medici di aggirare la regola del donatore morto. La regola del donatore morto è una massima etica che stabilisce che le persone non devono essere né vive al momento dell’espianto degli organi né uccise dal processo di espianto. Semplicemente ridefinendo le persone con gravi lesioni cerebrali come già morte, la lettera della regola del donatore morto viene soddisfatta con un gioco di prestigio. Ma cambiare una definizione non cambia la realtà. Le persone con una diagnosi di morte cerebrale hanno lesioni neurologiche e la loro prognosi può essere di morte, ma non sono già morte.   Dio è l’unico autore e donatore della vita. Egli stesso dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa (At 17,25), perché in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (At 17, 28). Siamo stati creati da Lui come una stretta unione di carne materiale e spirito immateriale, un composto corpo-spirito. La Bibbia contraddice la visione materialista secondo cui siamo solo il nostro cervello. «Formò dunque il Signore Dio l’uomo dal fango della terra, e gli inspirò in faccia lo spirito della vita, e l’uomo divenne persona vivente.» (Gen 2,7). Nel 1312, il Concilio di Vienne riconobbe questo insegnamento biblico e definì l’anima come la forma – il principio immediato della vita e dell’essere – del corpo umano.   La morte avviene quando lo spirito immateriale si separa dal corpo materiale. Ma poiché non disponiamo di strumenti per rilevare il momento esatto in cui lo spirito se ne va, storicamente le persone hanno utilizzato i segni indice della perdita del battito cardiaco, della perdita del respiro e del passare del tempo per essere certi che la morte fosse avvenuta.   Le nostre tradizioni della veglia, della visita e della veglia funebre fornivano sia la certezza che la morte fosse avvenuta sia il tempo per elaborare il lutto. Ma una diagnosi di morte cerebrale ignora la questione se lo spirito donato da Dio se ne sia andato, sostituendola con la scomparsa delle funzioni neurologiche.   Il dottor Edmund D. Pellegrino, direttore fondatore del Pellegrino Center for Bioethics presso la Georgetown University, si è espresso contro la morte cerebrale:   «Gli unici segni indiscutibili della morte sono quelli che conosciamo fin dall’antichità, vale a dire: perdita della sensibilità, del battito cardiaco e della respirazione; pelle screziata e fredda; rigidità muscolare; ed eventuale putrefazione come risultato dell’autolisi generalizzata delle cellule del corpo».   «Ho scelto di dare priorità al benessere del paziente prima che diventi un donatore, perché non si deve arrecare alcun danno, anche se ne deriva un beneficio. Nessuna persona dovrebbe essere sacrificata per il bene di un’altra. Questo è un precetto morale che riconosce il valore intrinseco di ogni essere umano».   Da molti anni i medici mettono in discussione il concetto di morte cerebrale, nonostante il fatto che «mettere in discussione lo status quo riguardo al prelievo di organi da pazienti dichiarati morti secondo criteri neurologici abbia delle conseguenze».   Fin dal suo inizio, la «morte cerebrale» è stata guidata dal desiderio di organi vitali. Il dottor Eelco F. Wijdicks, autore delle linee guida sulla morte cerebrale dell’American Academy of Neurology (AAN) del 1995, 2010 e 2023, ha affermato nel 2006:   «La diagnosi di morte cerebrale è determinata dall’esistenza di un programma di trapianto o dalla presenza di chirurghi specializzati. Non credo che l’esame per la morte cerebrale, nella pratica, avrebbe molto significato se non fosse finalizzato al trapianto». [Questa citazione si trova a p. 50 qui].

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La ricerca ha dimostrato che le persone con diagnosi di morte cerebrale hanno ancora funzioni cerebrali: il 20% (di quelle sottoposte a test) presenta attività EEG e oltre il 50% ha ancora un ipotalamo funzionante , che è una parte del cervello. Inoltre, le ben note capacità delle persone «cerebralmente morte», come la guarigione delle ferite, la lotta contro le infezioni, il parto sano e la risposta intatta allo stress dopo l’incisione per la rimozione degli organi, dimostrano che sono ancora vive.   Le ultime linee guida AAN (2023) sulla morte cerebrale ammettono, nella sezione dedicata ai metodi, che non vi sono prove scientifiche attendibili a sostegno della diagnosi di morte cerebrale. «A causa della mancanza di prove scientifiche di alta qualità sull’argomento», le nuove linee guida sono state definite tramite tre votazioni anonime. È preoccupante che, dopo quasi 60 anni di dichiarazioni di morte cerebrale, non vi siano ancora prove scientifiche di alta qualità a sostegno di questa diagnosi.   Inoltre, il modo in cui i medici diagnosticano la morte cerebrale utilizzando le linee guida AAN non è conforme alla legge ai sensi dell’Uniform Determination of Death Act (UDDA). La legge richiede la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’intero cervello, incluso il tronco encefalico, per una determinazione neurologica della morte.   Tuttavia, l’esame di morte cerebrale AAN verifica solo il coma, la perdita di alcuni riflessi del tronco encefalico e l’assenza di respirazione spontanea. Inoltre, le linee guida AAN affermano esplicitamente che la morte cerebrale può essere dichiarata in presenza di una funzione cerebrale in corso: la funzione dell’ipotalamo. Ciò è in contrasto con la legge, che richiede che tutte le funzioni dell’intero cervello debbano essere cessate irreversibilmente.   La morte cerebrale non è morte perché il concetto di morte cerebrale non riflette la realtà del fenomeno della morte. Pertanto, qualsiasi linea guida per la sua diagnosi non avrà alcun fondamento scientifico.   Le persone dichiarate cerebralmente morte sono neurologicamente disabili e la loro prognosi può essere fatale, ma sono ancora vive. Le persone viventi con una prognosi sfavorevole non dovrebbero essere ridefinite come morte in nome della donazione di organi.   Heidi Klessig   La dottoressa Heidi Klessig è un’anestesista in pensione e specialista nella gestione del dolore. Scrive e parla di etica nella donazione e nel trapianto di organi. È autrice di The Brain Death Fallacy e i suoi lavori sono disponibili su respectforhumanlife.com.

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Morte cerebrale

Persone «cerebralmente morte» vengono utilizzate come topi da laboratorio per trapianti di organi animali geneticamente modificati

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Renovatio 21 traduce e ripubblica questo articolo della dottoressa Heidi Klessig apparso su LifeSiteNews.

 

In una preoccupante violazione dei diritti umani, gli scienziati cinesi hanno recentemente utilizzato un uomo di 39 anni «in morte cerebrale» come ospite per lo xenotrapianto, impiantandogli un polmone di un maiale geneticamente modificato.

 

I ricercatori cinesi hanno riferito sulla rivista Nature Medicine che l’uomo è rimasto emodinamicamente stabile per tutta la durata dell’esperimento: «durante tutto il periodo postoperatorio, i parametri fisiologici ed emodinamici dinamici sono rimasti stabili, indicando la stabilità fisiologica e l’omeostasi del ricevente per un periodo di osservazione di 216 ore».

 

Secondo un servizio giornalistico, l’uomo «morto» ha vissuto per nove giorni producendo anticorpi contro l’organo estraneo prima di morire:

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«Tuttavia, 24 ore dopo il trapianto, il polmone mostrava segni di accumulo di liquidi e danni, probabilmente dovuti inizialmente a un’infiammazione correlata al trapianto. E nonostante al ricevente fossero stati somministrati potenti farmaci immunosoppressori, l’organo trapiantato è stato progressivamente attaccato dagli anticorpi, con conseguenti danni significativi nel tempo».

 

La quantità di doppi sensi orwelliani in questo resoconto è sconcertante. Come si può mantenere in vita un uomo morto? Come si può mantenere un uomo morto sufficientemente stabile da poter essere utilizzato come cavia per l’impianto di un organo animale? Come si può produrre anticorpi in un uomo morto? Come si può morire di nuovo dopo nove giorni?

 

La risposta, ovviamente, è che le persone «cerebralmente morte» non sono morte. Hanno un cuore pulsante, assorbono ossigeno e rilasciano anidride carbonica attraverso i polmoni, metabolizzano i nutrienti, eliminano le scorie, combattono le infezioni e rigettano organi estranei. Si comportano esattamente come ci si aspetterebbe che si comportassero le persone con lesioni cerebrali, e non c’è assolutamente alcuna prova che le loro anime se ne siano andate.

 

Ma queste persone con lesioni neurologiche sono state ridefinite come morte per ottenere legalmente i loro preziosi organi vitali per il trapianto. E proprio perché le persone «cerebralmente morte» sono ancora vive e stabili (ma sono state private dei loro diritti umani), i medici le usano da anni come ospiti di prova per xenotrapianti.

 

Storicamente, lo xenotrapianto, ovvero il trapianto di organi da altre specie nell’uomo, ha sempre fallito a causa di incompatibilità e rigetto. Nel 2022, un paziente americano è stato il primo a ricevere un trapianto di cuore di maiale geneticamente modificato. Il maiale donatore era stato sottoposto all’eliminazione di alcuni geni suini e all’aggiunta di geni umani per rendere il suo cuore meno probabile da riconoscere come estraneo dal ricevente umano. David Bennett sr. è sopravvissuto 45 giorni prima di morire apparentemente a causa di un virus suino che si è insinuato nel suo nuovo cuore.

 

Nell’agosto del 2023, due uomini in «morte cerebrale» sono stati utilizzati come cavie per i test, quando i ricercatori dell’Università dell’Alabama e del Langone Transplant Institute della New York University impiantarono chirurgicamente reni di maiale geneticamente modificati nei loro addominali. «Con il consenso informato dei familiari, il defunto ha ricevuto supporto cardiopolmonare in un ambiente di terapia intensiva per tutta la durata dello studio».

 

Uno di questi uomini indifesi in «morte cerebrale» è stato tenuto in vita come una cavia da laboratorio per oltre un mese, mentre i medici studiavano per quanto tempo avrebbe funzionato il rene xenotrapiantato. Al termine di questi esperimenti, entrambi gli uomini furono sacrificati per l’esame istologico.

 

L’esperto di etica medica Joel Zivot MD non è rimasto impressionato: «in generale, la correttezza o meno di questo tipo di procedura sono le conseguenze di una serie di scelte morali, finora non segnalate e non esaminate, e includono i problemi della morte cerebrale, della sperimentazione umana, del consenso, del razionamento e dei diritti degli animali». Egli sottolinea che il concetto di «morte cerebrale» ha trasformato le persone in risorse, merci da utilizzare per i preziosi organi vitali che possiedono.

 

È difficile immaginare che un esperimento di questa natura riceva il consenso non solo della famiglia, ma anche dei comitati di revisione istituzionale e dei comitati etici di questi rispettivi ospedali. Quando il Consiglio Presidenziale di Bioetica ha scritto il suo libro bianco sulla determinazione della morte nel 2008, giustificò moralmente la dichiarazione di morte secondo criteri neurologici («morte cerebrale»), sostenendo che continuare a ventilare e assistere queste persone violava il rispetto dovuto ai defunti. Chiaramente, quel rispetto ora è andato a farsi benedire.

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E la sperimentazione continua. Nel marzo 2024, scienziati cinesi hanno trapiantato il fegato di un maiale geneticamente modificato in un essere umano in «morte cerebrale». I ricercatori dell’azienda Clonorgan Biotechnology di Chengdu hanno rimosso tre antigeni di maiale dall’animale donatore utilizzando la tecnologia di editing genetico e li hanno sostituiti con tre proteine ​​umane.

 

Il responsabile del team, Dou Kefeng, ha affermato che, poiché le funzioni epatiche sono complesse, i fegati di maiale geneticamente modificati non possono attualmente sostituire completamente i fegati umani. L’esperimento «fornisce una base teorica e dati a supporto dell’applicazione clinica dello xenotrapianto», ha aggiunto. Dopo 10 giorni, l’esperimento è stato interrotto e il paziente è stato sacrificato in modo che il fegato potesse essere studiato.

 

Siamo pronti a dire basta? Oppure i nostri desideri superano la nostra moralità quando consideriamo i potenziali benefici che tale sperimentazione potrebbe portare?

 

La «morte cerebrale» non è la morte, ma un costrutto sociale utilitaristico e una finzione giuridica. Le persone «cerebralmente morte» sono ancora vive e meritano di essere trattate come persone, non usate come cavie da laboratorio.

 

Heidi Klessig

 

La dottoressa Heidi Klessig è un’anestesista in pensione e specialista nella gestione del dolore. Scrive e parla di etica nella donazione e nel trapianto di organi. È autrice di The Brain Death Fallacy e i suoi lavori sono disponibili su respectforhumanlife.com.

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Morte cerebrale

Malori improvvisi e morte cerebrale: combo inarrestabile per la caccia agli organi

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Le cronache sono piene di malori improvvisi, come testimonia il resoconto settimanale che Renovatio 21 pubblica regolarmente da diverso tempo.   Coloro che si ritengono più furbi e intelligenti di coloro che vengono definiti con spregio «complottisti» sostengono che non si tratta di un’anomalia statistica, ma che in realtà tali episodi sono sempre esisti. Sempre costoro accusano i dissenzienti di speculare sulle tragedie e di fare insinuazioni senza avere le prove.   Già, le prove. Come se il sistema criminale che ha in qualche modo costretto milioni di persone a farsi iniettare un siero sperimentale non abbia calcolato tutto, anche il fatto che stabilire un legame diretto tra la vaccinazione di massa e l’innegabile impennata nella popolazione generale di malori improvvisi, turbo-tumori e malattie autoimmuni sia pressoché impossibile.

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Primo, perché per appurare tale nesso causale sono necessarie indagini autoptiche approfondite e specifiche che in genere non vengono fatte; secondo, perché i parenti dei defunti spesso si rifiutano, per svariati motivi, di richiedere l’esame autoptico sul corpo del loro caro; terzo, perché gli effetti dei veleni a mRNA possono manifestarsi anche a medio e lungo termine, soprattutto sotto forma di malattie a decorso molto rapido, rendendo ancora più complicato, se non impossibile, accertarne la correlazione coi sieri.   E poi, anche nel caso in cui il legame tra vaccinazione e patologie mortali venga ufficialmente ammesso, come nel caso della povera Camilla Canepa, nulla cambia a livello di opinione pubblica: il sierato e il plurisierato, infatti, attraverso il meccanismo psicologico di rimozione, tende ad allontanare dalla propria consapevolezza pensieri e situazione che gli provocano ansia e angoscia. Per la massa che si è lasciata «marchiare» sotto ricatto è come se gli anni a cavallo del 2020 non fossero mai esistiti. Ci avete fatto caso?   Ad ogni modo, se è vero che non abbiamo la prova provata che la stragrande maggioranza dei malori improvvisi sia causato dalle «sacre» inoculazioni, abbiamo la certezza matematica che di molti malori o incidenti ne stia approfittando la fiorente industria dei trapianti di organi.   Solo negli ultimi giorni si sono registrati diversi episodi di cronaca in cui giovani e giovanissimi sono stati dichiarati cerebralmente morti e privati dei loro preziosi organi. Nella quasi totalità dei casi la dichiarazione di morte cerebrale sopraggiunge dopo poche ore o giorni dall’evento traumatico, in modo tale da non consentire che le condizioni di salute del malcapitato possano migliorare attraverso la somministrazione di adeguati trattamenti sanitari.   Anzi, per effettuare le invasive procedure di accertamento della morte encefalica  vengono interrotte le cure al paziente, il quale viene sottoposto a test pericolosi e potenzialmente letali che non di rado ne peggiorano il quadro clinico. E’ il caso del famigerato test di apnea di cui abbiamo più volte denunciato l’incredibile  pericolosità dalle pagine di Renovatio 21   Solo per fare alcuni esempi recenti, è possibile che una ragazza di 14 anni, colpita presumibilmente da embolia polmonare, possa essere dichiarata senza speranza solamente poche ore dopo il malore improvviso?    È possibile che un bambino di 6 anni possa essere dichiarato morto dopo solo un giorno dall’essere stato investito da una macchina mentre attraversava la strada?    È plausibile che ad un bambino di 2 anni caduto nella piscina dei nonni e rianimato dai sanitari del 118 possa essere accertato un danno cerebrale irreversibile appena due giorni dopo?   Anche volendo ignorare il fatto che la morte cerebrale sia un criterio inventato dalla comunità scientifica internazionale al solo scopo di consentire la predazione degli organi e l’eliminazione del comatoso, non sarebbe comunque un gesto di opportuna prudenza attendere l’evoluzione dello stato di salute del paziente prima di emettere verdetti definitivi? Soprattutto quando si tratta di giovani vite con grandi e spesso sorprendenti capacità di recupero?   Sono domande  che ci poniamo.   Il problema è che nel momento in cui l’efficientissima rete dei trapianti (in un sistema sanitario che fa acqua da tutte le parti l’unica cosa che funziona a dovere è proprio, chissà perché, la macchina delle predazioni) rileva la compatibilità del potenziale «donatore» con uno o più pazienti in lista di attesa, la priorità non diventa più quella di salvare la vita del malcapitato o assicuragli le migliori cure, ma di procurare organi freschi per il trapianto, soprattutto se si tratta di quelli di bambini o adolescenti.   La nostra non è un’illazione ma una constatazione che si desume dai fatti: qual’è il motivo che può giustificare la fretta con cui i sanitari attivano le procedure di accertamento di morte cerebrale, se non quello di procedere con una certa urgenza all’espianto degli organi?

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Non possiamo sapere con certezza se queste giovani vite avrebbero potuto riprendersi parzialmente o addirittura completamente, come del resto è avvenuto in molti casi documentati in cui era stata dichiarata la morte encefalica.   Sappiamo però che non corrisponde al vero  la frase  «il paziente non ce l’ha fatta», ripetuta automaticamente dalle cronachedei giornali. Si tratta infatti di soggetti che sono stati rianimati e le cui condizioni cliniche erano state stabilizzate.   La morte cerebrale non sopraggiunge naturalmente, visto che non esiste, ma viene attivamente ricercata, attraverso protocolli variabili da Paese a Paese che non di rado producono essi stessi il peggioramento del quadro clinico del paziente.    In altri termini, si va a cercare solo ciò che si vuole attivamente trovare. E si vuole trovare la morte.   Alfredo De Matteo  

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