Geopolitica
Trump sanziona la Corte Penale Internazionale. E l’Italia di Almasri?
Il presidente statunitense Donaldo J. Trump ha firmato giovedì l’ordine esecutivo che impone sanzioni alla Corte Penale Internazionale (CPI). Il documento afferma che la corte ha «creato un pericoloso precedente» prendendo di mira cittadini statunitensi e alti funzionari israeliani.
L’ente «ha abusato del suo potere emettendo mandati di arresto infondati contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant», ha chiarito l’ordine, riferendosi alla decisione della CPI di novembre. L’organismo internazionale accusa i due di usare la fame come metodo di guerra a Gaza.
Trump ritiene che le azioni della CPI compromettano «il lavoro critico di sicurezza nazionale e di politica estera del governo degli Stati Uniti e dei nostri alleati, tra cui Israele».
L’ordine esecutivo prevede sanzioni finanziarie e relative ai visti per gli individui e i familiari più prossimi di coloro che sostengono le indagini della CPI sui cittadini degli Stati Uniti o dei suoi alleati.
Il Guardian, citando fonti interne all’organizzazione, ha riferito il mese scorso che le misure di Washington potrebbero influenzare l’accesso della CPI ai sistemi bancari, alle infrastrutture IT e ai fornitori di assicurazioni, rappresentando una «minaccia esistenziale» per le sue operazioni.
In precedenza, gli Stati Uniti avevano imposto sanzioni all’allora procuratore della CPI Fatou Bensouda dopo che la corte aveva tentato di indagare sui presunti crimini di guerra americani in Afghanistan nel 2020.
In risposta, la CPI ha dichiarato che continuerà a operare nonostante le sanzioni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
La Corte internazionale con sede all’Aja è stata istituita tramite lo Statuto di Roma del 2002, di cui sono parti 125 paesi. Gli Stati Uniti, Israele, Russia, Cina, India e altri non riconoscono la giurisdizione della corte.
In una dichiarazione di venerdì, la CPI ha affermato di «condannare l’emissione da parte degli Stati Uniti di un ordine esecutivo che mira a imporre sanzioni ai suoi funzionari». L’ente ha sottolineato che «sostiene fermamente il suo personale e si impegna a continuare a fornire giustizia e speranza a milioni di vittime innocenti di atrocità in tutto il mondo».
Nello stesso giorno, 79 nazioni, tra cui Brasile, Francia, Germania, Sudafrica e Spagna, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta, esprimendo «rammarico» per i «tentativi di minare l’indipendenza, l’integrità e l’imparzialità della corte». I firmatari hanno ribadito il loro «continuo e incrollabile sostegno» alla CPI.
La CPI pare essere al centro anche del caso che sta scuotendo la politica italiana, quello del rilascio del funzionario dei servizi libici Al Masri. L’uomo aveva viaggiato per giorni in libertà in Gran Bretagna ed in Europa, ma giunto in Italia la CPI aveva improvvisamente trasmesso un mandato di cattura a Roma, che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha definito come «nullo».
Lo scontro è arrivato al punto che il ministro degli Esteri Antonio Tajani è arrivato a chiedere che la stessa CPI sia indagata: «forse bisogna aprire un’inchiesta sulla Corte penale, bisogna avere chiarimenti su come si è comportata. Comunque confermo, l’atto inviato all’Italia era nullo, condivido al cento per cento quello che ha detto il ministro Nordio» ha dichiarato il segretario di Forza Italia già commissario europeo e vicepresidente dell’Europarlamento.
È stato ipotizzato che Al Masri – definito dai giornali della sinistra establishment come «torturatore» non sia solo fondamentale per il controllo dei flussi di migranti, ma che sia confidente anche dei servizi segreti di altri Paesi.
L’Italia può avere la volontà politica, ora che Donald ha aperto la strada, di sanzionare la Corte dell’Aja?
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Immagine di Hypergio via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
Geopolitica
Netanyahu esclude la creazione di uno Stato palestinese
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Geopolitica
La Danimarca taglia gli aiuti all’Ucraina per la corruzione. Mosca: i crimini di Kiev alla Corte Internazionale
La Danimarca prevede di dimezzare gli aiuti militari all’Ucraina nel 2026, con un taglio ampiamente descritto dai media come massiccio: quasi il 50% rispetto a quanto erogato dal 2022.
Secondo la Danish Broadcasting Corporation, la nazione nordica si è distinta per il suo impegno spropositato nelle fasi iniziali del conflitto, ma ora il governo di Copenaghen intende che altri Stati assumano una quota maggiore del peso finanziario.
Il ministro della Difesa Troels Lund Poulsen ha comunicato al Parlamento che l’esecutivo stanzierà 9,4 miliardi di corone danesi (circa 1,29 miliardi di euro) a sostegno di Kiev nel 2026. Si tratta di una contrazione netta rispetto ai 16,5 miliardi di corone (circa 2,23 miliardi di euro) concessi nel 2025 e ai quasi 19 miliardi di corone del 2024.
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I giornali danesi attribuiscono questa decisione in parte all’esaurimento delle risorse del Fondo per l’Ucraina, creato nel 2023 con ampio consenso bipartisan tra i partner europei. In totale, dal lancio dell’invasione russa nel febbraio 2022, la Danimarca ha riversato su Kiev l’impressionante somma di quasi 9,43 miliardi di euro in assistenza militare. Ha inoltre donato caccia F-16 e accolto corsi di formazione per piloti ucraini.
Simon Kollerup, componente del Comitato Difesa danese, ha commentato che «è naturale che stiamo assistendo a una stabilizzazione del livello di sostegno fornito».
«Abbiamo deciso di essere uno dei Paesi che hanno preso l’iniziativa all’inizio della guerra, fornendo un sostegno su larga scala. Ritengo inoltre che sia giusto affermare che questo sostegno supera di gran lunga quanto effettivamente richiesto dalle dimensioni del nostro Paese. Pertanto, trovo del tutto naturale che il sostegno stia diminuendo», ha proseguito Kollerup.
Questo sviluppo coincide con il ridimensionamento del massiccio supporto statunitense all’Ucraina, mentre l’amministrazione Trump privilegia la cessione di armi all’Europa affinché quest’ultima le rivenda o le trasferisca a Kiev.
La decisione danese di tagliare drasticamente gli aiuti giunge in un frangente delicato per il governo di Volodymyr Zelens’kyj, invischiato in uno scandalo di corruzione che lambisce direttamente l’ufficio presidenziale (con i suoi stretti collaboratori rimossi e sottoposti a indagini), spingendo forse alcuni membri dell’UE a svegliarsi e a cessare di agire con accondiscendenza.
Anche il New York Times ha recentemente ammesso in un pezzo che «l’amministrazione del presidente Volodymyr Zelens’kyj ha riempito i consigli di amministrazione di fedelissimi, ha lasciato posti vuoti o ne ha bloccato la costituzione. I leader di Kiev hanno persino riscritto gli statuti aziendali per limitare la supervisione, mantenendo il controllo del governo e consentendo che centinaia di milioni di dollari venissero spesi senza che estranei potessero curiosare».
Nel frattempo pesanti accuse a Kiev arrivano dalla Russia ben oltre la questione della corruzione. Il 5 dicembre il ministero degli Esteri russo ha diffuso un comunicato in cui annuncia che la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha accolto le contro-domande presentate dalla Russia nei confronti dell’Ucraina, riconoscendo che Kiev viola la Convenzione sul Genocidio del 1948.
«Tutte le obiezioni sollevate da Kiev in merito alla presunta inammissibilità delle contro-richieste della Russia sono state respinte integralmente e le osservazioni della Federazione Russa sono state accolte integralmente dalla Corte», si legge nella nota.
La dichiarazione prosegue ricordando che «La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, emessa il 5 dicembre, segna uno sviluppo logico dopo i vani tentativi dell’Ucraina di ritenere la Russia responsabile dell’avvio dell’operazione militare speciale. Questo contenzioso era stato avviato dal regime di Kiev e dai suoi sponsor occidentali già nel febbraio 2022. All’epoca, Kiev, sostenuta da 33 stati allineati all’Occidente, presentò un ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia sostenendo che la Russia aveva violato la Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.»
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Si aggiunge che «Il 18 novembre 2024, la parte russa ha presentato alla Corte un consistente corpus di prove, di oltre 10.000 pagine, che comprova la perpetrazione di un genocidio da parte del criminale regime di Kiev ai danni della popolazione russa e russofona del Donbass. Il materiale probatorio includeva la documentazione di oltre 140 episodi di deliberati attacchi contro civili nel Donbass, corroborati dalle testimonianze di oltre 300 testimoni e vittime, nonché da analisi e indagini di esperti».
Il testo accusa poi Kiev di aver compiuto «omicidi di massa, torture, bombardamenti indiscriminati» e di aver condotto «in tutta l’Ucraina una politica di cancellazione forzata dell’identità etnica russa, vietando la lingua e la cultura russa, perseguitando la Chiesa ortodossa russofona, glorificando al contempo i collaboratori del Terzo Reich e cancellando la memoria della Vittoria sul nazismo».
In conclusione, il ministero russo sottolinea che «affermando oggi l’ammissibilità legale delle rivendicazioni russe, la Corte Internazionale di Giustizia ha segnalato la sua disponibilità a valutare l’intera portata dei crimini commessi dal regime di Kiev e dai suoi complici».
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Immagine di EPP Group via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0
Geopolitica
Zakharova: l’UE che odia la Russia «è caduta nella follia politica». Il comandante NATO: l’alleanza può «creare dilemmi» a Mosca
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