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Riemerge un libro del cardinale Fernandez sull’orgasmo

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Un libro definito come sessualmente esplicito scritto nel 1998 dal cardinale Victor Manuel «Tucho» Fernandez è riemerso causando polemiche e vero proprio shock nel mondo cattolico conservatore e non solo quello. Il testo, scrive al capitolo 9, parla della «possibilità di raggiungere una sorta di orgasmo appagante nella nostra relazione con Dio», ma descrive fisicamente e metafisicamente l’orgasmo sessuale dell’uomo e donna con grande puntiglio.

 

«Dio può essere presente a quel livello della nostra esistenza, può essere presente anche quando due esseri umani si amano e raggiungono l’orgasmo; e quell’orgasmo, vissuto alla presenza di Dio, può essere anche un sublime atto di adorazione a Dio» è scritto.

 

Nel volume, l’attuale capo del Dicastero per la Dottrina della Fede confronta come «le particolarità degli uomini e delle donne nell’orgasmo si verificano in qualche modo anche nella relazione mistica con Dio». Secondo quanto riportato da LifeSite, che sostiene di aver ricevuto una copia del testo da una fonte attendibile, l’opera – scritta più di un quarto di secolo fa – minimizzerebbe anche la natura immorale dell’omosessualità.

 

Intitolata La Pasión mistica: espiritualidad y sensualidadPassione mistica: spiritualità e sensualità»), l’opera del porporato argentino – edita in lingua spagnola dall’editore Dabar ed elencata fra le sue opere pubblicate – si basa sui temi contenuti nella sua ulteriore scandalosa opera Guariscimi con la tua bocca: l’arte di baciare, un libro che il religioso connazionale di Bergoglio aveva dedicato al bacio.

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Secondo quanto riportato, in particolare i capitoli 7, 8 e 9 del libro riemerso conterrebbero contenenti materiale offensivo e sono intitolati rispettivamente: «Orgasmi maschili e femminili», «La strada verso l’orgasmo» e «Dio nell’orgasmo di coppia».

 

Il Fernandez, collegando la pienezza della spiritualità con l’esercizio del rapporto sessuale e dell’orgasmo, ha esaminato la questione «se questa esperienza mistica, in cui tutto l’essere è preso da Dio, se questa specie di “orgasmo mistico” viene vissuta da ciascuno secondo la sua sessualità».

 

Scrivendo in un linguaggio dettaglioso e sessualmente esplicito sull’atto e sul completamento del rapporto sessuale, il Fernandez ha applicato questo concetto alla relazione con Dio: «chiediamoci ora se queste particolarità dell’uomo e della donna nell’orgasmo ricorrono in qualche modo anche nel rapporto mistico con Dio. Potremmo dire che la donna, poiché è più ricettiva, è anche più disposta a lasciarsi prendere da Dio. È più aperta all’esperienza religiosa. Questo potrebbe essere il motivo per cui le donne predominano nelle chiese» scrive il monsignore, già strizzando l’occhio alla questione femminile nella chiesa (dove le donne-prete, dopo le benedizioni gay, potrebbero essere finalmente tra le riforme dietro l’angolo).

 

Nel capitolo 7, intitolato «Orgasmo masculino y femenino» dichiara, secondo la traduzione pubblicata dal sito Messa in Latino, che «a lei piacciono di più le carezze e i baci, e ha bisogno che l’uomo giochi un po’ prima di penetrarla. Ma lui, insomma, è più interessato alla vagina che al clitoride», mentre «al momento dell’orgasmo, lui di solito emette dei grugniti aggressivi; lei, invece, fa dei balbettii o dei sospiri infantili», assicura il consacrato. «Chiediamoci ora se queste particolarità dell’uomo e della donna nell’orgasmo si verificano in qualche modo anche nel rapporto mistico con Dio».

 

C’è una spiegazione scientifica a tutto questo: «non dimentichiamo che le donne hanno un ricco plesso venoso intorno alla vagina, che mantiene un buon flusso sanguigno dopo l’orgasmo. Ecco perché di solito è insaziabile». La parola «insaziabile», scritta in relazione con il sesso, mai l’avremo vista arrivare in un testo religioso, tanto più se scritto da un futuro capo della Propaganda Fidei.

 

Utilizzando il linguaggio del «dominio» e della «ricettività», il Fernandez scrive che «nell’esperienza mistica Dio tocca il centro più intimo dell’amore e del piacere, un centro dove non importa molto se siamo maschi o femmine». Un «centro» così sensuale, scrive il teologo, è quello in cui «siamo tutti ricettivi e viviamo un’esperienza in cui non siamo pienamente padroni di noi stessi», suggerendo che l’unione spirituale con Dio non può essere raggiunta mentre si è in pieno possesso delle proprie personali facoltà mentali.

 

L’argentino continua paragonando il «piacere sensuale» del completamento del rapporto sessuale all’unione spirituale che l’uomo ha con Dio, affermando inoltre che la contemplazione di Dio può essere trovata attraverso tutti i piaceri del mondo: «tutte le attrazioni di questo mondo dovrebbero elevarci, d’ora in poi, all’incontro con la fonte divina, per abbeverarsi a quella fonte inesauribile di bene e di bellezza».

 

Fernandez sembrava anche minimizzare il potere della grazia di Dio insieme alla necessità di conversione personale e castità. In un passaggio che chiude il capitolo 8, «La strada verso l’orgasmo», il monsignore discetta sull’incapacità della grazia divina di aiutare una persona a cessare gli atti di omosessualità: «ma questo non significa necessariamente che questa gioiosa esperienza dell’amore divino, se la realizzo, mi libererà da tutte le mie debolezze psicologiche. Ciò non significa, ad esempio, che un omosessuale smetterà necessariamente di essere omosessuale».

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«Non dimentichiamo che a livello ormonale e psicologico non esistono maschi e femmine puri» scrive Fernandez sul tema, ancora al capitolo 7, aggiungendo una considerazione aneddotica: «Carlo Carretto, un uomo dalle caratteristiche marcatamente maschili, racconta che nel suo incontro più bello con Dio si è sentito come una bambina fiduciosa».

 

La de-genderizzazione come elemento mistico viene quindi spiegata metafisicamente: «nell’esperienza mistica Dio tocca il centro più intimo dell’amore e del piacere, un centro in cui non ha molta importanza se siamo maschi o femmine. E in quel centro siamo tutti ricettivi e viviamo un’esperienza in cui non siamo pienamente padroni di noi stessi. Per questo motivo, gli scienziati sono soliti affermare che le differenze tra uomini e donne si sperimentano nella fase che precede l’orgasmo, ma non tanto nell’orgasmo stesso, dove le differenze tra femminile e maschile non sono più così chiare e sembrano scomparire».

 

Quindi, «nell’esperienza mistica colui che è eminentemente attivo è Dio. La creatura, sia essa maschio o femmina, si diletta a dipendere completamente dal Dio amante, a “lasciarsi amare”».

 

«Ricordiamo che la grazia di Dio può coesistere con le debolezze e anche con i peccati, quando c’è un condizionamento molto forte. In questi casi, la persona può fare cose oggettivamente peccaminose, senza essere colpevole e senza perdere la grazia di Dio o l’esperienza del suo amore».

 

Tale argomento, aggiunge il teologo sudamericano, rientra nei casi in cui esiste «la possibilità di raggiungere una sorta di orgasmo appagante nella nostra relazione con Dio, che non implica tanto alterazioni fisiche, ma semplicemente che Dio riesca a toccare l’anima nel centro corporeo del piacere, affinché si possa sperimentare una soddisfazione che abbraccia tutta la persona».

 

Seguono osservazioni su santità e sensualità: «alcuni santi hanno cominciato ad avere esperienze inebrianti di Dio poco dopo la loro conversione, o alla stessa conversione; altri, come Santa Teresa d’Avila, hanno raggiunto queste esperienze dopo molti anni di aridità spirituale. Santa Teresa di Lisieux, pur sentendosi teneramente amata da Dio, non ha mai avuto esperienze molto “sensuali” del suo amore, e sembra che abbia raggiunto una gioia traboccante e appassionata solo al momento della sua morte». Parrebbe che siamo arrivati dalle parti del noto tropo caro alla psicanalisi e alla letteratura decadente novecentesca dell’«orgasmo come piccola morte».

 

La questione è ribadita pure in quella che sembrerebbe una sorta di esortazione a pregustare durante la propria esistenza tale «piccola morte».

 

«Tutte le attrattive di questo mondo dovrebbero elevarci, d’ora in poi, all’incontro con la fonte divina, per abbeverarci a quella sorgente inesauribile di bene e di bellezza. Fare diversamente sarebbe come passare ottant’anni a sentire l’aroma di un cibo delizioso invece di sedersi a tavola e gustarlo felicemente. Ma, inoltre, aspettare la morte per fare l’esperienza di Dio va contro la logica dell’amore».

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Proseguendo, è scritto o che una relazione stile orgasmo con Dio «ci porta ad un’altra conseguenza importante: ci invita a scoprire che, se Dio può essere presente a quel livello della nostra esistenza, può essere presente anche quando due esseri umani si amano altro e raggiungere l’orgasmo; e quell’orgasmo, sperimentato alla presenza di Dio, può anche essere un sublime atto di adorazione a Dio».

 

«Dio ama la felicità dell’uomo; quindi, è anche un atto di culto a Dio vivere un momento di felicità», ha scritto Fernandez, senza chiarire se tale «felicità» debba essere lecita o naturale.

 

In un palese travisamento della Scrittura, Fernandez si è espresso in difesa dell’attività sessuale senza chiarimenti o specificazioni, affermando: «possiamo quindi dire che stiamo piacendo a Dio e lo adoriamo quando siamo in grado di godere dei piccoli e legittimi piaceri della vita. Quindi, non dobbiamo fuggire o nasconderci da Dio quando godiamo, perché è lui che “ha creato tutte le cose affinché potessimo goderne”» (1 Tim 6:17)

 

«Tutto questo si può dire anche del piacere sessuale, che è stato creato da Dio per la felicità dell’uomo (…) il piacere sessuale ha una particolare nobiltà al di sopra degli altri piaceri del corpo, perché il piacere sessuale è vissuto in due, è condiviso».

 

Come nota LifeSite, l’intero passaggio scritturale presenta in realtà un significato del tutto contraddittorio rispetto a quello suggerito dal cardinale, avvertendo di «non confidare nell’incertezza delle ricchezze» o nei piaceri della terra.

 

«Vediamo quindi che il piacere è anche qualcosa di religioso, perché “è un dono di Dio”. Pertanto, chi è in grado di godere della presenza di Dio, può più facilmente essere consapevole dell’amore di Dio e quindi aprirsi ad amare gli altri. Chi non riesce a godere dei piaceri della vita, perché non ama e non accetta se stesso, difficilmente potrà amare generosamente gli altri» continua il capitolo 9, «Dios en el orgasmo de la pareja» («Dio nell’orgasmo di coppia»).

 

Si tratta di una sorta di edonismo anche corporale che non pensavamo attinente alla religione cristiana, ma forse più ad un certo sensismo riscontrabile, ad esempio, in certe interpretazioni dell’islam, per esempio con la questione delle 72 vergini urì che attendono il martire in paradiso. Di fatto, ad un certo punto, una sorprendente citazione islamica compare anche nel libro di Monsignor Fernandez, quando scrive che «un venerabile teologo egiziano del XV secolo ha fatto la seguente lode a Dio: “Lode ad Allah, che stabilisce peni duri e dritti come lance per fare guerra alle vagine (Al Sonuouti)».

 

Equiparando il «piacere dell’orgasmo» alla perfezione spirituale e alla beatitudine, Fernandez ha scritto che «il piacere dell’orgasmo diventa un’anteprima della meravigliosa festa dell’amore che è il paradiso. Perché non c’è niente che anticipi il paradiso meglio di un atto di carità». Il paradiso, pare di capire, è quindi una dimensione orgasmica.

 

Secondo quanto riportato, l’autore del libro spiritual-erotico evita ogni menzione delle chiare linee guida della Chiesa sulla castità per quanto riguarda l’uso delle proprie funzioni sessuali, minimizzando la natura peccaminosa della masturbazione. Fernández ha invece affermato che la masturbazione è una forma di sesso sottratta al «suo scopo più prezioso», ma non ha fatto menzione della sua natura immorale.

 

Il quotidiano milanese La Verità ha riportato un passo con un’invocazione a Gesù che non ci sentiamo di ripubblicare, per non urtare la sensibilità dei lettori e non offendere ancora la nostra.

 

Damian Thompson, giornalista della testata inglese The Spectator, ha suggerito che questo scandalo segni «la crisi finale di questo pontificato». Thompson dice che a questo punto le dimissioni di Fernandez siano inevitabili. Ciò, immaginiamo tutti, non avverrà: perché la vergogna, in questo papato, è stata soppressa programmaticamente.

 

Certo, sapevamo che il Vaticano era arrivato al definitivo status di farsa. Ma che fosse una farsa a luci rosse, questo non era chiaro a tutti.

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La «Dignitas infinita» promuove una dignità non ben definita

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L’8 aprile 2024 il Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF) ha pubblicato la Dichiarazione Dignitas infinita sulla dignità umana, approvata da Papa Francesco il 25 marzo.   La prima parte del documento presenta la «progressiva consapevolezza della centralità della dignità umana». La seconda parte afferma che «la Chiesa annuncia, promuove e garantisce la dignità umana». La terza parte considera la dignità come «fondamento dei diritti e dei doveri umani».   Infine, l’ultima parte denuncia «alcune gravi violazioni della dignità umana»: teoria di genere, cambiamento di sesso, maternità surrogata, aborto, eutanasia e suicidio assistito…

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Una nozione squilibrata della dignità umana

Purtroppo, come rileva il sito della Fraternità San Pio X, FSSPX.Attualità del 10 aprile: «la dichiarazione riprende, e la aggrava, la nozione disallineata o squilibrata della dignità umana che era al centro del Concilio Vaticano II, affermata nella Dichiarazione sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae)».   «Il Concilio ha parlato della dignità posseduta da “tutti gli uomini, perché sono persone, cioè dotati di ragione e di libera volontà”, dignità chiamata “ontologica”. Su questa dignità ontologica il Concilio ha fondato la libertà religiosa, che porta a una relativizzazione della fede cattolica riconoscendo un “diritto all’errore” in materia religiosa. Diritto “negativo”, ma pur sempre legge».   FSSPX.Attualità rileva «l’aggravamento di questa dottrina con l’uso del termine “infinito” associato alla dignità ontologica, che non è più nemmeno una deviazione, ma un’aberrazione. Solo Dio è infinito».   E ricorda: «l’anima umana, creata direttamente da Dio, è da Lui unita ad un corpo: esercita quindi un duplice ruolo. Essa conferisce innanzitutto la natura umana all’individuo creato, che è quindi persona, secondo la celebre definizione di Boezio, citata nella nota 17 del documento. L’anima è così la fonte della dignità ontologica, che è dunque la stessa per tutti gli esseri umani».   «In secondo luogo, l’anima è il principio dell’azione umana attraverso le sue facoltà: intelligenza e volontà. Questa azione costituisce l’ambito morale. Quando gli atti umani ci permettono di far fiorire la nostra umanità, indirizzandoci verso il nostro fine che è Dio, si caratterizzano come “buoni”. Quando, al contrario, ce ne allontanano, questi sono atti “cattivi”».   «La dignità morale della persona dipende quindi dal suo agire: l’uomo che fa il bene per raggiungere il suo fine ultimo ha una dignità tanto maggiore quanto più ricerca questo fine. Ma chi si allontana dal suo fine e fa il male cade da questa dignità: se ne spoglia».

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Una visione naturalista dell’uomo

In uno studio pubblicato in due parti su Réinformation.tv, l’8 e il 9 aprile, Jeanne Smits denuncia «una visione naturalista dell’uomo», contenuta nel documento romano.   Così, scrive, «la Dignitas infinita, ignorando deliberatamente la natura ferita dell’uomo, basando tutto sul valore della persona, eliminando il bisogno della grazia, nonostante alcune affermazioni contrarie, si colloca generalmente nella sfera dell’utopia orizzontale. Ma questa dichiarazione piacerà senza dubbio a coloro che vi troveranno la condanna di certi eccessi dei tempi».   Più avanti, il giornalista francese cita padre Victor Berto, lui stesso citato da padre Bertrand Labouche nel bollettino del convento di Nantes, L’Hermine (n°46, giugno-luglio 2015). Il teologo privato di mons. Marcel Lefebvre al Concilio Vaticano II scrisse sulla Dignitatis humanæ, all’epoca ancora sotto forma di schema:   «La dignità umana adeguatamente considerata richiede che si tenga conto dei suoi atti. L’ignorante e l’uomo colto non hanno la stessa dignità; e soprattutto, la dignità non è uguale in chi aderisce alla verità e in chi aderisce all’errore, in chi vuole il bene e in chi vuole il male».   «I redattori, che hanno costruito tutto il loro schema su una nozione inadeguata della dignità della persona umana, hanno già presentato con questo un’opera deformata e di straordinaria irrealtà; infatti, che ci piaccia o no, esistono, tra le persone umane adeguatamente considerate, immense differenze di dignità».   «E questo è tanto più vero per quanto riguarda lo schema sulla libertà religiosa; perché evidentemente la libertà religiosa si adatta alla persona non secondo la sua dignità radicale, ma secondo la sua dignità operativa, e quindi la libertà non può essere la stessa nel bambino e nell’adulto, nello stolto e nella mente penetrante, nell’ignorante e nell’uomo colto, in uno posseduto del demonio e in quelli ispirati dallo Spirito Santo, etc.»   «Ora questa dignità, che chiamiamo operativa, non appartiene all’essere fisico, ma riguarda, è ovvio, l’ordine intenzionale. La negligenza di questo elemento intenzionale, cioè la scienza e la virtù, è nello schema un errore molto grave».   In Lo hanno detronizzato, Mons. Lefebvre afferma della dichiarazione conciliare Dignitatis humanæ: «la dignità umana radicale è sì quella di una natura intelligente, capace quindi di scelta personale, ma la sua dignità terminale consiste nell’aderire “in atto” alla verità e al bene».   «È questa dignità terminale che merita a ogni persona la libertà morale (la capacità di agire) e la libertà (la capacità di non essere impedito di agire). Ma nella misura in cui l’uomo aderisce all’errore o si lega al male, perde la sua dignità terminale o non la raggiunge, e su di essa non si può fondare nulla! […]»   «Parlando delle false libertà moderne, Leone XIII scrive nell’Immortale Dei: “se l’intelligenza aderisce a false idee, se la volontà sceglie il male e ad esso si lega, nessuna delle due raggiunge la perfezione, entrambe cadono dalla loro originaria dignità e si corrompono”».   Jeanne Smits conclude il suo studio in questi termini: «basando tutto sulla “dignità infinita dell’uomo”, essendo creato e quindi dipendente da Dio, che solo possiede dignità infinita, la dichiarazione (romana) ipertrofizza il creato in relazione al Creatore ; il culto e il servizio a Lui dovuti passano in secondo piano, impantanati da qualche parte nella palude della “libertà religiosa”».   «[Dignitas infinita] Esalta l’uomo al punto da facilitarne il culto, in attesa che il giusto stupore di fronte alla creazione conduca questo pensiero all’oblio di Dio e al panteismo, una spiritualità globale che già si delinea in modo sempre più preciso. In ogni caso essa non li contraddice, omettendo di ricordare che senza la grazia, l’uomo nella sua condizione decaduta è in uno stato di sottomissione al male».

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Dignitas infinita e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite

In modo meno teologico e più politico, il blog argentino The Wanderer dell’11 aprile rileva un’altra incongruenza nella Dignitas infinita, vale a dire «l’insistenza nel collegare la dignità dell’uomo alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Infatti, questo documento delle Nazioni Unite è menzionato 26 volte».   «La tesi del cardinale Fernández è che se la questione della dignità umana è sempre stata difesa dalla Chiesa, è proprio con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo che essa raggiunge il suo splendore […]»   «Si scopre quindi che una dichiarazione costituzionalmente atea, come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, che non menziona mai Dio, e alla quale la Chiesa ha ufficialmente resistito, diventa con il nuovo pontificato di Francesco la pietra angolare di una parte importante del suo magistero […]»   «Dice il documento romano: “in tal orizzonte, la sua enciclica Fratelli tutti costituisce già una sorta di Magna Charta dei compiti odierni volti a salvaguardare e promuovere la dignità umana’ (n. 6). Dimenticato il De opificio hominis di san Gregorio di Nissa, e l’Agnosce, o christiane, dignitatem tuam della predica della Natività di san Leone Magno».   «La Magna Charta sulla dignità dell’uomo non è data dai Padri e dalla Tradizione della Chiesa, ma da… Fratelli tutti di Papa Bergoglio! Sembra uno scherzo».  Scherzo sinistro.   Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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In corso la beatificazione del missionario che fondò i cistercensi in Vietnam

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Chiusa a Roma la fase diocesana del processo di beatificazione del sacerdote francese che nella diocesi di Hue diede vita nel 1918 al monastero di Nostra Signora di Phuoc Son. Un’esperienza che oggi conta centinaia di monaci in Vietnam.

 

«Un momento di festa per tutta la Chiesa», a Roma come in Vietnam. Così oggi nel Palazzo Lateranense il vicegerente della diocesi di Roma, mons. Baldassare Reina, ha definito la sessione di chiusura della fase diocesana del processo di beatificazione di padre Benoit Thuan, al secolo Henri François Denis (1880-1933), missionario francese in Vietnam dal 1903 e fondatore nel 1918 della prima comunità monastica maschile del Paese, il monastero di Nostra Signora di Annam a Phuoc Son, nell’arcidiocesi di Hue.

 

Come prevedono le procedure canoniche gli atti dell’inchiesta sulla santità di questo servo di Dio tuttora veneratissimo in Vietnam sono stati sigillati per essere trasmessi al dicastero per le Cause dei santi, in una cerimonia a cui erano presenti anche dom Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dell’ordine cistercense, e don Giovanni XXIII, l’abate presidente della Congregazione cistercense della Sacra Famiglia, il ramo fondato in Vietnam da padre Benoit Thuan.

 

Nativo di Boulogne-sur-Mere, in Francia, padre Henri François Denis fu ordinato sacerdote per le Mission Etrangeres de Paris il 7 marzo 1903. Partito pochi mesi dopo per il Vietnam fu destinato alla missione di Hue, dove assunse il nome «Thuan», che in vietnamita significa obbedienza. Si nella cultura locale ponendosi davanti alle persone che incontrava non con uno stile di superiorità ma di servizio. Finché in questo suo apostolato missionario avvertì forte però la chiamata a testimoniare il Vangelo con uno stile monastico. Così nel 1918 – in accordo con il suo vescovo e ottenuta il permesso da Propaganda Fide – diede vita in estrema povertà e inizialmente con un solo compagno al monastero di Nostra Signora di Annam.

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«Al tempo – ha ricordato mons. Reina – in Vietnam vi erano solo i due monasteri femminili che il Carmelo di Lisieux aveva fondato a Saigon e Hanoi. Ed è significativa una lettera che il 2 dicembre 1922, madre Agnese di Gesù – la sorella di santa Teresa di Lisieux che appena l’anno prima era stata dichiarata venerabile dalla Chiesa – scrisse a padre Benoit, ricordando il desiderio della grande carmelitana di partire per il Vietnam e indicandola come l’”angelo custode” di quella nuova comunità monastica maschile».

 

I monaci iniziarono subito a coltivare il riso come i contadini poveri del Vietnam. E nonostante la durezza di quella vita (uno dei primi novizi morì sbranato da una tigre), quell’ideale attrasse subito decine di giovani. Ed è un seme che – nonostante la storia estremamente dolora vissuta dal Vietnam nel Novecento – continua a fiorire ancora oggi, con centinaia di monaci in cinque comunità cistercensi in diverse zone del Paese.

 

Padre Benoit Thuan morì il 25 luglio 1933. Due anni dopo il suo grande desiderio di vedere accogliere la sua comunità religiosa nella famiglia cistercense sarebbe stato accolto.

 

A quasi un secolo di distanza l’abate Lepori ha sottolineato nella cerimonia di oggi la forza tuttora «profetica di questo missionario fattosi monaco per andare al fondo della sua missione». «Padre Benoit – ha aggiunto – aveva capito che non basta portare l’annuncio di Cristo redentore fino ai confini geografici della terra; è necessario spingerlo fino agli estremi confini dei cuori. Là dove ogni uomo giace abbandonato in una vita senza senso se non incontra Gesù Cristo».

 

«Per promuovere un rinnovamento monastico e missionario nella Chiesa – ha concluso – più che di parole abbiamo bisogno di queste figure che hanno saputo affrontare il bisogno di Cristo del loro tempo con fedeltà creatrice».

 

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La storia epica della cristianità in Giappone: una mostra

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Dal 15 marzo al 13 luglio 2024, le Missioni Estere di Parigi (MEP) organizzano una mostra dal titolo: «Da Samurai a Manga: l’epica cristiana in Giappone». Un’occasione per scoprire questo capitolo delle missioni cattoliche e per conoscere meglio le Missioni Estere di Parigi. Questo articolo riassume la presentazione fatta sul suo sito web.   La storia dell’evangelizzazione del Giappone presenta inizialmente due aspetti: a volte una rapida espansione, a volte una serie di battute d’arresto e disastri sfociati in tragedie.  

Il «secolo cristiano»

San Francesco Saverio sbarcò in Giappone a Kagoshima (Satsuma) nel 1549, durante i primi tentativi di unificazione del Paese. L’espansione del cattolicesimo fu notevole e portò alla conversione di numerosi governatori (daimyo). Grazie al permesso di evangelizzare, i missionari gesuiti aumentarono gradualmente il numero dei battezzati.   Il gesuita Alessandro Valignano arrivò nel 1579 come visitatore delle missioni. Nel 1582 organizza la prima ambasciata in Europa, che incontra papa Gregorio XIII nel 1585. Ma una prima messa al bando del cristianesimo fu imposta dallo shogun Toyotomi Hideyoshi nel 1587 con l’esilio dei missionari. Il 5 febbraio 1597 furono crocifissi a Nagasaki 26 martiri.

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Segretezza

A partire dal 1614 gli shogun cercarono di eliminare il cattolicesimo: a partire da questa data ogni famiglia doveva essere registrata presso un tempio buddista. Poi, a partire dal 1619, nelle città e nei villaggi di tutto il Paese furono affissi cartelli che ricordavano la messa al bando del cristianesimo, offrendo cospicue ricompense per la denuncia dei cristiani.   Scene di martirio furono testimoniate a Kyoto nel 1619, a Nagasaki nel 1622 e a Edo (Tokyo) nel 1623. La tortura sistematica apparve intorno al 1630 per promuovere l’apostasia. Fu in questo contesto che nel 1613 il daimyo di Sendai inviò un’ambasciata presso il viceré del Messico per ottenere l’apertura di una via commerciale transpacifica. In cambio, la religione cristiana sarebbe tollerata.   L’ambasciata fu affidata al samurai Hasekura Tsunenaga, accompagnato dal francescano spagnolo Luis Sotelo. Il viceré inviò messaggeri al re di Spagna, Filippo III. Il re inviò infine gli ambasciatori a papa Paolo V, che li ricevette nel novembre 1615. Ma Paolo V restituì la decisione finale al monarca spagnolo, che rifiutò di rivedere gli inviati del daimyo di Sendai.   Il fallimento dell’ambasciata provocò la messa al bando del cristianesimo e la caccia ai cristiani. Riuscito a tornare segretamente in Giappone, Luis Sotelo fu bruciato vivo a Tokyo nel 1623. Iniziava il periodo delle grandi persecuzioni. La popolazione cristiana, stimata in 650.000 persone, fu decimata. Furono inflitte terribili torture.   La ribellione di Shimabara (1637-1638), organizzata dai contadini cristiani sotto lo shogunato Tokugawa, fu repressa ferocemente, con l’appoggio della marina olandese, che sparò con i suoi cannoni sul castello di Hara, dove si erano rifugiati i ribelli, per sostenere la rivolta. truppe lealiste. Il massacro di 30.000 cristiani durò tre giorni.

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Il cristianesimo emerge dall’ombra

Nel XIX secolo la Francia voleva recuperare il tempo perduto nella corsa per l’Asia. La Santa Sede non aveva rinunciato a rifondare una missione in Giappone. Infine, le Missioni Estere di Parigi aspiravano a riconquistare il prestigioso campo missionario del Giappone. Il primo trattato franco-giapponese fu firmato nel 1858, ma la presenza dei ministri religiosi era consentita solo agli occidentali; il cristianesimo rimase proibito ai giapponesi. I missionari si stabilirono in concessioni riservate agli stranieri a Hakodate, Kanagawa e Nagasaki.   Il 17 marzo 1865 un gruppo di giapponesi si presentò come cristiano a padre Bernard Petitjean (1829-1884) delle Missioni Estere di Parigi, che si erano stabilite a Nagasaki e vi avevano costruito una chiesa, consacrata nel 1865. I missionari scoprirono organizzazione, riti ed elementi dottrinali trasmessi segretamente per 250 anni, senza sacerdoti e con pochissimi scritti. Ma la persecuzione, con arresti ed esecuzioni, era ancora in corso, soprattutto nel 1856 a Urakami, vicino a Nagasaki.   La persecuzione più lunga e più dura ebbe luogo tra il 1867 e il 1873, anni che videro il crollo del regime Tokugawa e la restaurazione del regime imperiale. Il regime instauratosi con il periodo Meiji (1868) portò avanti un’opera trasformativa: la modernizzazione delle strutture politiche ed economiche. Ma nei confronti dei cristiani è stata adottata una linea dura.   Fu promossa una teocrazia imperiale fondata sullo shintoismo. I leader erano a disagio riguardo alle vere intenzioni degli occidentali e il sentimento anticristiano era al suo culmine. La nomina di padre Petitjean come vescovo nel 1866 scatenò la persecuzione: nel 1868 si decise di deportare i cristiani di Urakami in 60 diversi feudi in tutto il Giappone.   Nel 1872 iniziò una distensione: la politica anticristiana fu finalmente sepolta. I cartelli che vietavano il cristianesimo, in vigore dal XVII secolo, furono rimossi nel febbraio 1873. I cristiani di Urakami poterono tornare a casa e fu loro concessa la libertà religiosa.  

Libertà sotto sorveglianza

Le missioni itineranti venivano organizzate grazie ad una certa libertà di movimento. Il passaporto interno, limitando la permanenza nello stesso luogo a tre giorni, spingeva i missionari a percorrere vaste regioni. Dal punto di vista politico, emerse uno Stato shintoista, nazionalista e guidato dall’imperatore: prese le distanze dal buddismo e rimase diffidente nei confronti del cristianesimo o addirittura ostile ad esso.   La prima Costituzione del Giappone, nel 1889, concedeva la libertà religiosa, anche se molto limitata. Alla fine era solo ciò che il governo aveva effettivamente consentito dal 1873. Ciò consentiva la creazione di diocesi e l’istituzione della Chiesa al di fuori delle enclavi in ​​cui era stata relegata. Le Missioni Estere di Parigi chiesero quindi alle suore di prendersi cura di orfanotrofi, scuole e dispensari.

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Altre congregazioni si ristabilirono sul suolo giapponese: domenicani, francescani e gesuiti, che erano stati espulsi due secoli e mezzo prima. Ma con il Rescritto Imperiale del 30 ottobre 1890 la fedeltà all’Imperatore divenne fondamentale. Si riteneva che ciò presentasse l’urgente necessità di formare un clero autoctono nel caso in cui i missionari fossero stati nuovamente scacciati.   L’aumento della potenza militare dell’arcipelago – le vittorie contro Cina, Taiwan e Russia, l’annessione della Corea, l’invasione della Manciuria – spinsero il regime verso l’esercito. La Chiesa si adattò al Giappone e si raggiunse un accordo sulla questione dei riti dovuti all’Imperatore. Con la seconda guerra mondiale la situazione degli stranieri all’interno della Chiesa in Giappone divenne sempre più difficile.   Dopo la sconfitta, la Costituzione del 1946, ancora in vigore, consentiva la totale libertà del cattolicesimo.  

La Chiesa in Giappone dal 1945 ad oggi

Secondo le statistiche del 2023, i cattolici sono 431.100, tra cui 6.200 seminaristi, sacerdoti e religiosi, che costituiscono lo 0,34% della popolazione giapponese. Ma questo numero tiene conto solo dei cattolici «registrati», un sistema ereditato dal tempo della persecuzione. Tra i migranti – soprattutto persone provenienti dall’America Latina, dalle Filippine e dal Vietnam – la popolazione cattolica è stimata all’1%.   Tuttavia, la Chiesa ha molte istituzioni – ospedali, scuole, centri assistenziali e persino università – che danno al cattolicesimo una presenza significativa nella società giapponese.   Articolo previamente apparso su FSSPX.news.  

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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