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Politica

Robert Kennedy candidato presidente USA contro il colpo di Stato globale

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Robert Francis Kennedy ha depositato la documentazione per candidarsi alla Presidenza degli Stati Uniti nel 2024. Lo ha annunciato il diretto interessato, il 5 aprile, cui è seguita un’intervista molto interessante su The Epoch Times.

 

Dopo suo zio, John Fitzgerald Kennedy, che fu uno dei più celebri Presidenti degli Stati Uniti della storia, assassinato 60 anni fa a Dallas, in un attentato che è ancora oggi un mistero pressoché insolubile, e dopo suo padre, Robert Kennedy, detto Bob, Ministro della Giustizia che mise fine alla vergogna della segregazione razziale verso i neri che vigeva ancora dopo un secolo dalla fine della Guerra di Secessione, e anch’egli assassinato nel 1968 mentre aveva iniziato la campagna elettorale per la presidenza, un altro Kennedy tenta di arrivare al vertice della superpotenza americana, ed è la sfida più difficile.

 

Suo padre e suo zio, infatti avevano avuto l’appoggio del Partito Democratico di cui erano esponenti di rilievo, anche se a causa della loro fede cattolica – erano di origine irlandese – avevano incontrato parecchi ostacoli da parte dell’America bigotta e protestante. Ora Robert Junior, che non è un esponente politico, ma un avvocato e il Presidente di una associazione chiamata Children’s Health Defense (Difesa della salute dei bambini) va a sfidare in primo luogo lo stesso presidente democratico Biden, e l’intero Establishment politico.

 

I media italiani lo presentano da tempo come una sorta di guru dei no-vax, un negazionista, un complottista, alla guida di gruppi di estrema destra. Robert Kennedy, sfogliando la stampa, viene descritto come uno di quelli che credono che coi vaccini vengano inoculati dei microchip, e si è pure insinuato che sia antisemita. Insomma: una vera valanga di fango.

 

Perché Kennedy ha deciso di affrontare questa sfida, con tutti i pericoli che comporta? Quest’uomo è cresciuto avendo negli occhi le immagini di suo padre riverso in una pozza di sangue, suo zio colpito a morte a Dallas sulla sua auto scoperta. E ora è certamente consapevole che corre gli stessi rischi, andando a sfidare il Deep State in uno dei momenti più drammatici della storia recente, con l’ombra della guerra nucleare che il suo Paese potrebbe scatenare, e l’ombra lunga delle non meno pericolose minacce pandemiche.

 

Nella dichiarazione con cui ha annunciato la sua candidatura, Kennedy ha esordito con un attacco alla politica del suo Paese: «e mentre i democratici combattono contro i repubblicani, le élite stanno spaccando la nostra classe media, avvelenando i nostri figli e mercificando i nostri paesaggi».

 

«Robert F. Kennedy, Jr. – si legge sulla pagina della sua campagna – ha lottato contro l’avidità delle aziende e la corruzione del governo per proteggere i nostri figli, la nostra salute, i nostri mezzi di sussistenza, il nostro ambiente e, soprattutto, la nostra libertà».

 

Si legge inoltre che «con integrità, coraggio e abnegazione, ha guidato gli americani in una lotta nobilitante per ripristinare il nostro Paese come nazione esemplare e per porre fine alla polarizzazione tossica che ci divide e arricchisce le élite».

 

Pur essendo un democratico, Kennedy è noto per la sua opposizione a molte politiche dell’attuale amministrazione, in particolare a quelle relative al COVID-19. Ha fondato l’associazione Children Health Defense, organizzazione no-profit dedicata alla risoluzione delle «condizioni di salute croniche causate da esposizioni ambientali», e ha parlato dei danni associati ai vaccini COVID.

 

Quelli che sono gli intenti della sua candidatura li aveva già anticipati da tempo. Resta memorabile in chi lo ascoltò nel novembre del 2021 all’Arco della Pace di Milano quello che disse sulla Pandemia, una narrazione decisamente controcorrente.

 

Kennedy affermò che in soli venti mesi, in America e in tutto il mondo, era stato realizzato un colpo di Stato globale, che aveva tolto alle persone tutti i diritti, dalla proprietà privata al diritto di lavorare, non un solo diritto e non solo in America. Un colpo di stato globale con cui erano stati tolti diritti che non saranno più ridati, se noi non li pretenderemo.

 

Kennedy spiegò che lo strumento chiave per imporre il colpo di Stato era il lasciapassare di regime. «A cosa serve realmente il green pass? È il mezzo utilizzato per togliere i diritti. Non è una misura sanitaria, è un mezzo di controllo totalitario dei movimenti, delle transazioni finanziarie, è uno strumento di sorveglianza. È la stessa idea che fu utilizzata in Germania nel 1937 per controllare le persone, e in seguito in Sud Africa ai tempi dell’Apartheid per controllare la popolazione nera. Se il green pass è uno strumento sanitario, perché non viene emesso dal ministero della Sanità? Viene infatti emesso dal ministero delle Finanze. Questo è il modo per controllare le vite delle persone. Quando avete questo green pass ogni aspetto della vostra vita è controllato… E così usano questo Green Pass e dicono che serve per assicurarsi che tutti si facciano il vaccino. Dicono che ferma il contagio, ma così non è, dicono che ferma la pandemia, ma così non è. A cosa serve quindi vaccinarci tutti, se non funziona?».

 

Kennedy ha poi rivelato alcuni scenari impressionanti: «Quanti di voi conoscono l’Evento 201?» chiese alla folla milanese. «Se non ne avete mai sentito parlare dovete vederlo su YouTube». Si tratta di una simulazione di una pandemia da Coronavirus tenuta a New York nel 2019, poco prima che da Wuhan iniziasse la pandemia. Gli organizzatori dell’evento furono tre personaggi molto famosi: Bill Gates, George Gale, e Avril Haines, ex deputy director della CIA.

 

Sentire pronunciare la parola CIA da un Kennedy fa decisamente un certo effetto. Ma perché la CIA è stata la protagonista di un evento di sanità pubblica? Quello che è certo è che Avril Haines è diventata un anno dopo, con Biden, la dirigente della National Security Agency.

 

Kennedy ha dunque ricordato che la CIA non è un’agenzia che si occupa di sanità pubblica: “«la CIA si occupa di colpi di stato. Dal 1947 al 2000 la CIA è stata coinvolta in 73 colpi di stato in diversi Paesi in tutto il mondo. In tutti questi colpi di Stato non si è mai parlato di salute pubblica, misure preventive riguardo alle malattie, e di come potesse essere evitata tramite alimenti e uno stile di vita sano».

 

La verità, ha detto Kennedy, è che si è voluto utilizzare la pandemia come pretesto per esercitare un totalitarismo e ridurre drasticamente i diritti democratici: «nell’ ottobre 2019 nel corso dell’Evento 201 si sperimentarono i lockdown, e le strategie per togliere i diritti alle persone. Kennedy ha detto di aver studiato accuratamente “201”, scoprendo che non era un singolo evento, ma che ne furono molti altri. I registi erano Anthony Fauci, Bill Gates e alti dirigenti della CIA. La CIA scriveva il copione e loro lo mettevano in atto».

 

Sul ruolo della CIA il candidato presidente è tornato a parlare nei giorni scorsi. Secondo Kennedy, la Central Intelligence Agency (CIA) è diventata «un governo all’interno del nostro governo» e un «tumore» per il sistema americano, e ha proposto di sistemare l’agenzia implementando un organo di controllo separato su di essa.

 

Egli sostiene che l’agenzia di intelligence ha usato tecniche di «controllo mentale» come la «deprivazione sensoriale, le tecniche di tortura, la paura e la propaganda, [e] i messaggi autoritari per influenzare le persone in tutto il mondo».

 

Egli ha affermato che la CIA è stata coinvolta in colpi di Stato o tentativi di colpo di Stato contro un terzo delle nazioni della Terra. «La maggior parte di esse erano democrazie». Ha suggerito che un modo per riformare l’agenzia sarebbe quello di implementare un organo di supervisione: «mio padre voleva sistemare la CIA. Quando si è candidato, la sua intenzione era quella di riportare la CIA a quello che doveva essere, cioè un’agenzia di spionaggio, che significa raccogliere informazioni, fare analisi e fornire quelle informazioni all’esecutivo».

 

Hanno sperimentato più volte come usare la pandemia per imporre controlli totalitari che cancellassero principi democratici in tutto il pianeta. E non basta: per Kennedy tutto ciò era cominciato molti anni prima, addirittura nel 1967 – un anno prima che assassinassero suo padre – quando venne svolto un esperimento sociale in cui emerse che se un’autorità sanitaria diceva di fare qualcosa che violasse il volere di un individuo, il 67% delle persone si sarebbero rese disponibili ad andare oltre e accettare quello che gli veniva detto di fare.

 

Il 67% delle persone impaurito va come sotto ipnosi e obbedisce a ciò che l’autorità gli impone, mentre il 33%. La nostra missione oggi, secondo Kennedy, è di cercare di andare da quel 67% e dire loro che combatteremo anche per la loro libertà, finché anche loro non saranno in grado di combattere da sé. «Dir loro che devono imparare ad amare la loro libertà più della loro paura dei germi».

 

Nella sua intervista con American Thought Leaders, Kennedy ha detto che l’America non è più una democrazia e che le sue elezioni sono controllate da ricchi donatori. «È più un’oligarchia o una plutocrazia che risponde solo alle esigenze dei ricchi e delle aziende, che pagano i costi elettorali delle lobby dei politici, che poi diventano i loro servi a Capitol Hill».

 

Se il denaro non viene tolto dalle elezioni, ha detto Kennedy, l’America è una «corporazione». Quando ricorda la sua infanzia dice: «sapevamo che ciò che vedevamo ogni giorno faceva parte della storia del nostro Paese. I miei genitori ci parlavano ogni giorno di storia, letteratura e valori».

 

È molto probabile che gli scenari descritti da Kennedy verranno ulteriormente a tradursi in strategie di politiche economiche, sanitarie e militari, che avrà come conseguenza uno stato di guerra permanente, uno sconvolgimento della vita di milioni di persone, costrette a vivere con sempre minori libertà, in un clima di terrore e insicurezza che deve continuare.

 

La sfida di Kennedy è di fermare dal suo interno il Male americano.

 

 

Paolo Gulisano

 

 

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

 

 

 

Immagine Pixabay

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Politica

Orban dice che l’UE potrebbe andare al «collasso» e chiede accordi con Mosca

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L’UE è sull’orlo del collasso e non sopravvivrà oltre il prossimo decennio senza una «revisione strutturale fondamentale» e un distacco dal conflitto ucraino, ha avvertito il primo ministro ungherese Viktor Orban.

 

Intervenendo domenica al picnic civico annuale a Kotcse, Orban ha affermato che l’UE non è riuscita a realizzare la sua ambizione fondante di diventare una potenza globale e non è in grado di gestire le sfide attuali a causa dell’assenza di una politica fiscale comune. Ha descritto l’Unione come entrata in una fase di «disintegrazione caotica e costosa» e ha avvertito che il bilancio UE 2028-2035 «potrebbe essere l’ultimo se non cambia nulla».

 

«L’UE è attualmente sull’orlo del collasso ed è entrata in uno stato di frammentazione. E se continua così… passerà alla storia come il deprimente risultato finale di un esperimento un tempo nobile», ha dichiarato Orban, proponendo di trasformare l’UE in «cerchi concentrici».

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L’anello esterno includerebbe i paesi che cooperano in materia di sicurezza militare ed energetica, il secondo cerchio comprenderebbe i membri del mercato comune, il terzo quelli che condividono una moneta, mentre il più interno includerebbe i membri che cercano un allineamento politico più profondo. Secondo Orbán, questo amplierebbe la cooperazione senza limitare lo sviluppo.

 

«Ciò significa che siamo sulla stessa macchina, abbiamo un cambio, ma vogliamo muoverci a ritmi diversi… Se riusciamo a passare a questo sistema, la grande idea della cooperazione europea… potrebbe sopravvivere», ha affermato.

 

Orban ha accusato Brusselle di fare eccessivo affidamento sul debito comune e di usare il conflitto in Ucraina come pretesto per proseguire con questa politica. Finché durerà il conflitto, l’UE rimarrà una «anatra zoppa», dipendente dagli Stati Uniti per la sicurezza e incapace di agire in modo indipendente in ambito economico, ha affermato.

 

Il premier magiaro ha anche suggerito che, invece di «fare lobbying a Washington», l’UE dovrebbe «andare a Mosca» per perseguire un accordo di sicurezza con la Russia, seguito da un accordo economico.

 

Il primo ministro di Budapest non è il solo a nutrire queste preoccupazioni. Gli analisti del Fondo Monetario Internazionale e di altre istituzioni hanno lanciato l’allarme: l’UE rischia la stagnazione e persino il collasso a causa di sfide strutturali, crescita debole, scarsi investimenti, elevati costi energetici e tensioni geopolitiche.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

 

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Il passo indietro di Ishiba: nuovo capitolo nella lunga crisi del centro-destra giapponese

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Il primo ministro giapponese ha annunciato ieri le dimissioni dopo settimane di tensioni con i membri del Partito Liberaldemocratico, in difficoltà di fronte alla perdita di consenso tra gli elettori conservatori. Diversi candidati si sono già fatti avanti segnalando la volontà di succedere a Ishiba nella presidenza del partito, ma resta il nodo della guida del governo senza la maggioranza in parlamento.   A meno di un anno dal suo insediamento, il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba ha annunciato ieri le dimissioni, aprendo una nuova fase di incertezza politica. La decisione è una conseguenza delle crescenti pressioni all’interno del suo stesso partito, il Partito Liberaldemocratico (LDP), che alle ultime elezioni ha subito significative sconfitte, arrivando a perdere la maggioranza in entrambe le Camere.

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Ishiba si è assunto la responsabilità per i pessimi risultati dell’LDP alle elezioni della Camera dei Consiglieri a luglio e ha sottolineato che le sue dimissioni servono a prevenire un’ulteriore spaccatura all’interno del partito. Già a luglio, il quotidiano giapponese Mainichi aveva per primo riportato che Ishiba si sarebbe dimesso, basandosi su informazioni raccolte tra il premier e i suoi più stretti collaboratori.   Le prime indiscrezioni indicavano che i preparativi per la corsa alla presidenza dell’LDP sarebbero iniziati entro agosto. Ishiba, tuttavia, aveva pubblicamente smentito queste notizie e nelle sue affermazioni aveva sottolineato l’importanza di portare a termine le trattative sui dazi con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che aveva imposto il primo agosto come scadenza ultima.   Nel suo discorso di ieri, Ishiba ha spiegato che l’annuncio delle dimissioni a luglio avrebbe indebolito la posizione del Giappone: «chi negozierebbe seriamente con un governo che dice “ci dimettiamo”?», ha detto.   Ishiba ha poi cercato di placare le pressioni interne all’LDP minacciando di sciogliere la Camera dei Rappresentanti e indire elezioni anticipate, una mossa che ha esacerbato le divisioni e spinto il principale partner di coalizione, il partito Komeito, a ritenere inaccettabile la decisione. Secondo l’agenzia di stampa Kyodo, l’ex primo ministro Yoshihide Suga e il ministro dell’Agricoltura Shinjiro Koizumi entrambi tenuto colloqui con il premier sabato, evitando una scissione all’interno del partito e aprendo la strada all’annuncio delle dimissioni di ieri.   Ora l’attenzione si sposta sulla scelta del prossimo leader dell’LDP, che potrebbe assumere anche la carica di primo ministro se ci fosse una qualche forma di sostegno o di accordo anche con le opposizioni. Tra i principali contendenti ci sono membri del partito che avevano già sfidato Ishiba in passato, tra cui Sanae Takaichi, ex ministra per la sicurezza economica, che ha ricevuto il 23% dei consensi in un recente sondaggio di Nikkei. Takaichi fa parte dell’ala conservatrice e ha una forte base di sostegno tra i fedelissimi dell’ex primo ministro Shinzo Abe, di cui è considerata l’erede, soprattutto per quanto riguarda le politiche economiche, che potrebbero favorire una ripresa dei mercati azionari. Takaichi ha inoltre la reputazione di andare d’accordo con il presidente Donald Trump.   Anche Shinjiro Koizumi, attuale ministro dell’Agricoltura e figlio dell’ex leader Junichiro Koizumi, è un altro papabile candidato, dopo essere riuscito ad abbassare i prezzi del riso appena entrato in carica. Il sondaggio di Nikkei ha registrato un 22% dei consensi nei suoi confronti.   Altri membri del partito hanno segnalato la volontà di candidarsi, tra cui Yoshimasa Hayashi, attuale segretario capo del Gabinetto e portavoce principale del governo Ishiba, che si è classificato quarto nella corsa per la leadership del partito del 2024. Tra gli altri contendenti figurano Takayuki Kobayashi, un altro ex ministro per la sicurezza economica che gode di un maggiore sostegno all’interno dell’ala centrista, e Toshimitsu Motegi, ex segretario generale dell’LDP e il più anziano tra i candidati con i suoi 69 anni.   L’LDP oggi si trova in una posizione di forte debolezza. Molti elettori conservatori alle ultime elezioni hanno preferito il partito di estrema destra Sanseito anche a causa dell’allontanamento di Ishiba dall’ala conservatrice.

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Secondo un sondaggio di Kyodo, condotto prima che fossero riportate le dimissioni di Ishiba, l’83% degli intervistati ha dichiarato che un chiarimento pubblico del partito sulle ultime sconfitte non avrebbe comunque aumentato la fiducia degli elettori. È chiaro, quindi, che il compito del prossimo presidente di partito sarà quello di ripristinare la credibilità del centrodestra.   Chiunque verrà scelto si troverà davanti a un’importante decisione: se indire elezioni anticipate per cercare di riconquistare la maggioranza alla Camera bassa o rischiare di perdere il potere del tutto. Quest’ultima scelta rischierebbe di aprire una nuova fase di instabilità politica senza precedenti, che richiederebbe la ricerca di sostegno anche tra i partiti dell’opposizione per approvare le leggi e i bilanci.   Secondo diversi commentatori, il prossimo leader dovrà prima di tutto godere di una genuina popolarità sia all’interno che all’esterno del partito per affrontare sfide come l’invecchiamento della società, la forza lavoro in calo, l’inflazione e i timori che gli Stati Uniti possano abbandonare il loro ruolo di garanti della sicurezza nella regione asiatica.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Politica

Il governo francese collassa

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Il governo francese è collassato dopo che il Primo Ministro François Bayrou ha perso un cruciale voto di fiducia in Parlamento lunedì. Bayrou è il secondo primo ministro consecutivo sotto Emmanuel Macron a essere destituito, precipitando la Francia in una crisi politica ed economica.

 

Per approvare una mozione di sfiducia all’Assemblea Nazionale servono almeno 288 voti. Quella di lunedì ne ha ottenuti 364, con il Nuovo Fronte Popolare di sinistra e il Raggruppamento Nazionale di destra coalizzati per superare lo stallo sul bilancio di austerità di Bayrou.

 

Dopo aver resistito a otto mozioni di sfiducia, Bayrou ha convocato questo voto per ottenere supporto alle sue proposte, che prevedevano tagli per circa 44 miliardi di euro per ridurre il debito francese in vista del bilancio di ottobre.

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Bayrou, che aveva definito il debito pubblico un «pericolo mortale», sembra aver accettato la sconfitta. Domenica, ha criticato aspramente i partiti rivali, che, pur «odiandosi a vicenda», si sono uniti per far cadere il governo.

 

Bayrou è il secondo primo ministro deposto dopo Michel Barnier, rimosso a dicembre dopo soli tre mesi, e il sesto sotto Macron dal 2017.

 

La caduta di Bayrou lascia Macron di fronte a un dilemma: nominare un Primo Ministro socialista, cedendo il controllo della politica interna, o indire elezioni anticipate, che i sondaggi indicano favorirebbero il Rassemblement National di Marine Le Pen.

 

Con la popolarità di Macron al minimo storico, entrambe le opzioni potrebbero indebolire ulteriormente la sua presidenza. Gli analisti temono che una perdita di fiducia dei mercati nella gestione del deficit e del debito francese possa portare a una crisi simile a quella vissuta dal Regno Unito sotto Liz Truss, il cui governo durò meno della via di un cavolo prima della marcescenza.

 

Il malcontento verso Macron è in crescita: un recente sondaggio di Le Figaro rivela che quasi l’80% dei francesi non ha più fiducia in lui.

 

Come riportato da Renovatio 21, migliaia di persone hanno protestato a Parigi nel fine settimana, chiedendo le dimissioni di Macron con slogan come «Fermiamo Macron» e «Frexit».

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