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Percy Shelley, il volto dietro la maschera di Frankenstein

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Nel bicentenario della morte del poeta, Renovatio 21 pubblica questo articolo del dottor Paolo Gulisano apparso su Ricognizioni. Di Percy Bysshe Shelley (1792-1822), morto a Viareggio duecento anni fa in circostanze misteriose, Renovatio 21 ha parlato di recente più volte. La sua poesia, a quanto pare, ha ancora molto da dire agli uomini anche nell’ora presente.

 

 

 

8 Luglio 1822: un naufragio durante una burrasca al largo di Lerici metteva fine alla vita di uno dei grandi protagonisti della prima stagione del Romanticismo: Percy Bysshe Shelley.

 

Il trentenne intellettuale e nobile inglese aveva scelto come sua patria d’adozione l’Italia, e in particolare la Toscana. Si era poi stabilito in Liguria, a Lerici, insieme alla moglie Mary, nata Godwin, figlia di uno dei più importanti esponenti dell’Illuminismo inglese, e autrice del capolavoro Frankenstein, scritto a soli 21 anni.

 

Anche Shelley era stato un talento precocissimo, un poeta già celebrato a vent’anni, mentre era studente universitario a Oxford, ateneo dal quale venne espulso per aver scritto un pamphlet dal titolo «Sulla necessità dell’ateismo»; era una provocazione inaccettabile per il tempio massimo della cultura anglicana.

 

Shelley fu nel suo tempo – e anche a venire – descritto come il prototipo del ribelle romantico, anticonformista.

 

Persino il suocero William Godwin, esponente di punta del «progressismo» dell’epoca, si era scandalizzato della disinvoltura con cui Shelley si era separato e aveva poi preso a frequentare sua figlia Mary, poco più che adolescente. In seguito Percy era rimasto vedovo (per il suicidio della prima moglie) e aveva reso Mary una donna rispettabile col matrimonio.

 

La vita dei due Shelley non fu facile, anzi la tragicità degli avvenimenti che seguiranno concederanno periodi brevi di felicità, che serviranno solo a rendere ancora più tragica lo loro stessa esistenza, quasi una maledizione per le scelte fatte: per aver disobbedito al padre, per essersi ribellata alle convenzioni sociali, seppur influenzate da un clima di idee liberali, nelle quali era stata cresciuta.

 

Così il senso di colpa provato da Mary aumenterà insieme al disagio della sua nuova, misera condizione. Mary avrà quattro figli, dei quali tre morti ancora bambini.

 

Eppure all’origine di quel libro straordinario che è il Frankenstein, c’era proprio il suo amato Percy, insieme al quale – all’inizio della loro storia d’amore – compiva affascinanti viaggi. Proprio in uno di questi viaggi, in cui essi – completamente senza soldi – venivano ospitati dagli amici, vennero scritte le prime pagine del Frankenstein.

 

La composizione del romanzo avvenne per un avvenimento casuale. In un pomeriggio d’estate piovoso e freddo, nella Villa Diodati, situata nei pressi del lago di Ginevra a Chapuis, in Svizzera, presa in affitto da Byron per le vacanze estive, nel giugno del 1816 un gruppo di giovani intellettuali formato da George Gordon Byron, John Polidori, l’autore de Il Vampiro, Percy Shelley e Mary, si sfidarono a creare delle storie gotiche.

 

Ogni giorno a Mary veniva chiesto se avesse pensato a qualcosa e ogni giorno la sua risposta negativa aveva un tono mortificato. E Mary rimaneva ore ed ore in silenzio ad ascoltare le conversazioni di Lord Byron e P.B. Shelley sulla filosofia e sul principio della vita umana.

 

Proprio lei, cresciuta ed educata dal padre come una vera filosofa, una «cinica», che sapesse dissertare sui campi del sapere, della storia e della politica; lei che aveva viaggiato tanto, lei che aveva sentito declamare dallo stesso Coleridge i versi de The Rime of the Ancient Mariner, lei che aveva passato la sua giovinezza nel confortevole mondo della scrittura, consapevole che l’invenzione non nascesse dal vuoto, ma fosse il continuo formarsi e trasformarsi della materia, adesso sembrava ammutolita.

 

O forse non era proprio così.

 

Forse Mary era all’inizio di una comprensione, in attesa di quell’input, di quell’ispirazione, di quel gesto iniziale che le permettesse di cominciare a plasmare la sua materia.

 

Così Byron e Shelley parlavano dello scienziato italiano Luigi Galvani, del suo De viribus electricitatis in motu musculari commentarius a proposito dei suoi esperimenti sull’applicazione di scariche elettriche sulle rane e delle sue scoperte sul potere dell’elettricità sui corpi inanimati; sulla possibilità, come conseguenza, di mettere insieme organi di cadaveri e conferire loro una nuova energia vitale.

 

Il dibattito etico che era derivato da questa straordinaria scoperta aveva suscitato molte domande: con non poca ansia e preoccupazione gli intellettuali e gli scienziati del tempo avevano cominciato a chiedersi quale futuro ci sarebbe potuto essere se i morti avessero avuto davvero la possibilità di ritornare in vita, come avrebbero vissuto e quali sarebbero state le conseguenze morali e psicologiche, nel momento in cui si fosse stato messo in pericolo il confine tra la vita e la morte.

 

Inoltre il potere che lo scienziato avrebbe ottenuto da questi esperimenti sembrava farlo diventare sempre più sicuro di sé fino al punto di pensare di poter davvero avere un potere sulla vita e sulla morte.

 

Siamo di fronte a un passo importante nelle relazioni tra medicina, anatomia e scienze. Le dissertazioni che ne seguirono, che si basavano sulla possibilità reale di poter dare nuova vita ai cadaveri, suscitarono grande impressione su Mary Shelley e influenzarono notevolmente la narrazione del momento della creazione del mostro.

 

Quella notte non riuscì a dormire, la sua immaginazione le riempì la mente di incubi: si svegliò terrorizzata, talmente vicino alla realtà gli era apparso quell’incubo. Ma finalmente aveva trovato il protagonista della sua storia .

 

Nella costruzione del personaggio dello scienziato Victor Frankenstein, la Shelley potrebbe essersi ispirata proprio al marito. La caratterizzazione prometeica di Frankenstein è quella più evidente, già dal sottotitolo del romanzo (il nuovo Prometeo) , ma ci sono altri elementi che conferiscono a questo personaggio le caratteristiche di un eroe degno di essere contemplato tra i personaggi romantici di quel periodo: il suo isolamento, la sua sofferenza, una sorta di autopunizione per poter giustificare le proprie azioni ed elevare la propria anima al di sopra di una natura umana, che comunque non potrebbe capire la grandezza della sua ambizioni.

 

Mary, infatti, condanna Frankenstein come Eschilo condannò Prometeo. Egli è condannato per un atto di hybris, termine che deriva dalla lingua greca, il cui significato richiama ad azioni eccessive, di prevaricazione.

 

La hybris di Frankenstein è quella dello scienziato, il quale, trascinato dal suo «delirio di onnipotenza» non sa più fermarsi e si lascia consumare fisicamente e psicologicamente dall’ansia del compimento della sua stessa opera.

 

Il delirio della sua gioia e del suo orgoglio, oggi diremmo esaltazione, forse anche euforia, indebolirono la resistenza di fronte alla tentazione di concepire l’idea di «creare» un essere animato e spazzarono via ogni dubbio di fronte a questa scelta, lasciando spazio solo all’incoscienza e all’ardore. Victor stesso affermava, come il più concreto scienziato illuminista, che superstizioni e credenze non lo toccavano minimante, che il buio non aveva effetto su di lui e che considerava i cimiteri, che a quel tempo non occupavano più necessariamente il suolo delle chiese, semplicemente come luoghi dove i corpi erano diventati solo pasto per i vermi.

 

Egli dunque si era concentrato sull’azione corruttrice della morte sui cadaveri e si diede totalmente allo studio e alla ricerca di una strada che conducesse alla scoperta del principio della vita.

 

Forse è questa l’origine e al tempo stesso la causa del playing God, il giocare a fare Dio. Victor come ogni scienziato voleva colmare le presunte lacune di Dio. La più grande di essa è la morte e tutto il mistero di lutto e di dolore che la circonda. Lo scienziato può svelare questo mistero e sconfiggere la morte completando, così, la grandezza della creazione. In fondo la sua intenzione è il cosiddetto bene dell’umanità.

 

Qui risiede, come abbiamo già detto, il significato profondo della figura di un Prometeo moderno, la cui ambizione e, allo stesso tempo presunzione è quella di voler acquisire la suprema conoscenza e impiegarla per il bene e il progresso dell’umanità. Questa era la sua unica ambizione, ma al tempo stesso questa era l’origine della sua tracotanza, dell’overreaching, del suo andare oltre i limiti, recando a se stesso e a tutti coloro che amava dolore e disperazione invece di prosperità e progresso.

 

Mary Shelley voleva forse mettere in guardia Percy, e ogni lettore, dai rischi di questa sfida al limite presentato dalla natura. Quando Frankenstein fu pubblicato, anonimo, tutti i lettori inglesi erano convinti che fosse opera di Shelley, e grande fu lo stupore quando ci si rese conto che era opera della giovane moglie. Evidentemente si sentiva molto dell’animo e del carattere di Percy.

 

Poco dopo la pubblicazione del libro iniziò l’esilio italiano degli Shelley, che doveva culminare nella tragedia accaduta duecento anni fa. Il corpo dell’annegato fu bruciato su una pira sulla spiaggia di Viareggio, secondo la volontà degli amici. Era una sorta di rito pagano, per un uomo che si era allontanato da quel Cristianesimo formale e parruccone della Chiesa Anglicana, e che sfortunatamente non aveva mai incontrato il Cristo autentico.

 

Aveva dunque vissuto come un pagano, ossia un uomo alla ricerca. Quel rogo su una pira dal sapore antico, aveva determinato un fenomeno curioso: tra le sue ceneri, venne ritrovato il suo cuore, intatto. Un fenomeno inspiegabile. Mary volle tenerlo per sé, conservandolo in uno scrigno che riportò in Inghilterra. Era ciò che restava dell’uomo che aveva ispirato Frankenstein, il moderno Prometeo, e il più grande dei Romantici.

 

 

Paolo Gulisano

 

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni

 

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Lucerna annulla il concerto della Netrebko, Berlino la invita a cantare

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Il concerto in Svizzera della cantante lirica russa Anna Jur’evna Netrebko, previsto per il 1° giugno, è stato annullato su richiesta delle autorità locali, hanno riferito ai media i rappresentanti della sala da concerto della città di Lucerna.

 

In una dichiarazione al quotidiano Luzerner Zeitung, la direzione del KKL (Kultur und Kongresszentrum Luzern) ha spiegato che «la percezione pubblica del solista resta controversa», riferendosi alle accuse secondo cui Netrebko rimane vicino al presidente russo Vladimir Putin, avendo rifiutato di prendere le distanze da lui dopo l’avvio del conflitto in Ucraina.

 

La sede del KKL ha inoltre affermato che la vicinanza del concerto alla data e al luogo della prossima Conferenza di pace in Ucraina, prevista per il 15 giugno al Burgenstock, nella città di Nidvaldo, avrebbe causato «una minaccia all’ordine pubblico», secondo quanto affermato da un politico lucernese, riporta EIRN. Ci sarebbero stati «almeno un migliaio» di manifestanti all’esibizione di Netrebko.

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Anche il consigliere comunale di Lucerna, Armin Hartmann, ha dichiarato ai media che l’ufficio del sindaco ha chiesto esplicitamente al KKL di annullare l’esibizione di Netrebko, affermando che «non riteniamo appropriato che un artista russo presumibilmente fedele al regime si esibisca a Lucerna».

 

Il sindaco Beat Zusli ha anche affermato che «un artista che ha preso le distanze dalla guerra ma non ha mai rinunciato al regime russo, non dovrebbe apparire in città», per non causare «danni alla reputazione» della regione.

 

In risposta, gli uffici della Netrebko ha rilasciato una dichiarazione in cui condanna l’annullamento unilaterale della sua esibizione «contrariamente agli obblighi contrattuali» degli organizzatori e sottolinea che la conferenza di pace in Ucraina si terrà due settimane dopo il concerto previsto.

 

I rappresentanti della cantante hanno sottolineato che «nessuna delle quasi 100 esibizioni di Anna Netrebko dal marzo 2022 ha portato a un disturbo dell’ordine pubblico».

 

Il management della cantante ha anche sottolineato che, dopo lo scoppio del conflitto ucraino nel 2022, Netrebko si è espressa pubblicamente contro i combattimenti e ha chiesto la pace in Ucraina. Da allora non è più tornata in Russia, poiché vive in Austria dal 2006.

 

La questione Netrebko ha portato giovedì anche il ministero degli Esteri ucraino a denunciare la decisione dell’Opera di Stato di Berlino di riportare indietro il soprano russo di fama mondiale, una grande artista che era stata precedentemente «cancellata» per essersi rifiutata di denunciare il suo Paese.

 

«La voce dell’Ucraina in Germania dovrebbe essere ascoltata più forte del soprano Anna Netrebko», ha affermato il ministero di Kiev in un post su Facebook, rivelando che il regime ucraino aveva compiuto sforzi per impedire alla cantante russa di esibirsi a Berlino, ma i suoi sforzi «non hanno avuto la risposta adeguata».

 

La Netrebko prenderà parte alla première di venerdì del Macbeth. L’Ucraina intende protestare contro la sua presenza inviando l’ambasciatore Oleksiy Makeev alla mostra anti-russa allestita accanto al teatro dell’opera, accompagnato dal senatore per la cultura di Berlino Joseph Chialo, ha detto il ministero. Makeev ha anche pubblicato un editoriale in cui denuncia Netrebko in diversi organi di stampa tedeschi.

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La Staatsoper Unter den Linden, come viene ufficialmente chiamata l’opera berlinese, ha annunciato alla fine di agosto che intende riprendere la collaborazione con la Netrebko, adducendo che non si è esibita in Russia di recente.

 

Come riportato da Renovatio 21, la battaglia dell’Ucraina contro la Netrebko in Germania è risalente, e non si tratta della sola Germania: lo scorso settembre era emerso che pure le autorità ceche, sotto pressione, hanno annullato l’esibizione programmata di Netrebko a Praga il mese scorso.

 

La musica classica – settore di eccellenza di tanti artisti russi, dall’opera al balletto e oltre – è sempre più teatro della guerra della russofobia, con le pretese allucinanti del regime di Kiev spesso assecondate dai Paesi occidentali, nonché episodi al limite del tollerabile come quello della nona di Beethoven, cioè L’Inno alla gioia, dove viene ora inserita la parola «Slava», che ricorda ovviamente da vicino lo slogan banderista, cioè neonazista, «Slava Ukraini».

 

Come riportato da Renovatio 21, la furia russofoba era tracimata anche in Italia, facendo saltare in provincia di Vicenza il balletto Il lago dei cigni di Tchaikovskij, compositore che ha la colpa di essere russo.

 

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Immagine di Manfred Werner via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

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La nona di Beethoven trasformata nel canto banderista «Slava Ukraini»

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La direttrice Keri-Lynn Wilson, moglie del direttore generale del Metropolitan Opera di Nuova York Peter Gelb, ha annunciato che la sua «Ukrainian Freedom Orchestra» eseguirà la famosa nona sinfonia di Beethoven, quella ispirata all’ode Inno alla gioia (An die Freude) del drammaturgo tedesco Friedrich Schiller. Lo riporta EIRN.   Tuttavia, secondo quanto si apprende, la Wilson starebbe sostituendo la parola «Freude» nel testo con «Slava». «Slava ukraini» o «Gloria all’Ucraina» era il famigerato canto delle coorti ucraine di Hitler guidate dal collaborazionista Stepan Bandera durante la Seconda Guerra Mondiale. Da allora è stato conservato come canto di segnalazione dalle successive generazioni di seguaci di Bandera, i cosiddetti «nazionalisti integrali», chiamati più semplicemente da alcuni neonazisti ucraini o ucronazisti.   A causa di quanto accaduto nella prima metà del secolo, in Germania non si può cantare «Heil!» in tedesco senza invocare «Heil Hitler!», né si può dichiarare ad alta voce «Slava!» in Ucraina senza invocare lo «Slava Ukraini» canto dei sanguinari collaboratori locali del Terzo Reich, in particolare il Bandera.   La Wilson, che si vanta delle sue origini ucraine via nonna materna e della sua comunità ucraina di Winnipeg, Canada (Paese, come è emerso scandalosamente con il caso Trudeau-Zelens’kyj, pieno di rifugiati ucronazisti), ha rilasciato ieri il suo comunicato stampa.

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«La decisione di cantare il grande testo di Schiller per la Nona Sinfonia di Beethoven in ucraino è stata per noi un’importante dichiarazione artistica e culturale più ampia» ha dichiarato il direttore. «Putin sta letteralmente cercando di mettere a tacere una nazione. Non saremo messi a tacere. Il nostro unico emendamento a Schiller è che invece di cantare “Freude” (Gioia) canteremo “Slava” (Gloria), dal grido della resistenza ucraina di fronte alla spietata aggressione russa, Slava Ukraini! (Gloria all’Ucraina!)».   Notiamo l’interessante inversione in corso presso la sinistra e l’establishment: la «resistenza», oggi, la fanno i nazisti…       «Mentre l’Ucraina continua la sua lotta a nome del mondo libero, ha bisogno più che mai del nostro sostegno e porteremo con orgoglio il nostro messaggio in tutta Europa e negli Stati Uniti» ha continuato la Wilsona, che ha eseguito per la prima volta la sua versione banderizzata di Beethoven il 9 nel dicembre 2022 a Leopoli con la sua Ukraine Freedom Orchestra.   Nel 2023, l’importante casa discografica della classica Deutsche Grammophon ha registrato l’esecuzione del suo primo tour europeo a Varsavia, e quest’anno vi sarà la pubblicazione, proprio nel bicentenario dell’opera di Beethoven. Vi sarà quindi una tournée quest’estate che toccherà Parigi, Varsavia, Londra, Nuova York e Washington.   Secondo quanto riporta EIRN, «si dice inoltre che il prossimo progetto della Wilson coinvolga la sostituzione della parola “agape”» (cioè, in greco, amore disinteressato, infinito, universale), termine contenuto nella lettera di San Paolo ai Corinzi (capitolo 13), «con «agon» o «eris» (cioè, contesa, lotta, conflitto)».   Se fosse vero, sarebbe un altro tassello del quadro che si sta dipanando dinanzi ai nostri occhi. Dalla gioia alla guerra. Da Cristo a Nietzsche.   Va così, perfino nella musica classica.

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La Russia di Alessandro I e la disfatta di Napoleone, una lezione attuale

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Renovatio 21 ripubblica questo articolo comparso su Ricognizioni.

 

Ideatore della società filosofico-religiosa nella città di San Pietroburgo e della rivista «Novyj Put» (che tradotto significa «La via nuova»), padre riconosciuto del Simbolismo russo, Dmitrij Sergeevic Merežkovskij è stato uno dei più interessanti scrittori russi della prima metà del ‘900. Esule a Parigi dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dove visse e morì nel 1941, spirito profondamente religioso passato anche per la massoneria durante il periodo zarista, viene finalmente tradotto e pubblicato in Italia dall’editore Iduna.

 

Lo Zar Alessandro I (pagine 450, euro 25) è un’avvincente biografia in forma di romanzo dello Zar che sfidò Napoleone, una figura leggendaria e romantica, uno dei più affascinanti personaggi della dinastia dei Romanov.

 

Il libro è stato curato da Paolo Mathlouthi, studioso di cultura identitaria, che per le case editrici Oaks, Iduna, Bietti ha curato già diversi volumi in cui ha indagato il complesso rapporto tra letteratura e ideologia lungo gli accidentati percorsi del Novecento, attraverso una serie di caustici ritratti dedicati alle intelligenze scomode del Secolo Breve. Ricognizioni lo ha intervistato.

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Paolo Mathlouthi, lei ha definito questo romanzo un’opera germogliata dalla fantasia titanica ed immaginifica di Merežkovskij. Cosa significa?

In una celeberrima intervista rilasciata nel 1977 ad Alberto Arbasino che, per spirito di contraddizione, lo incalzava sul tema del realismo, ipnotico mantra di quella che allora si chiamava cultura militante, Jorge Luis Borges rispondeva lapidario che la letteratura o è fantastica oppure, semplicemente, non è. «Il realismo – precisava – è solo un episodio. Nessuno scrittore ha mai sognato di essere un proprio contemporaneo. La letteratura ha avuto origine con la cosmogonia, con la mitologia, con i racconti di Dèi e di mostri».

 

La scellerata idea, oggi tanto in voga, che la scrittura serva a monitorare la realtà, con le sue contraddizioni e i suoi rivolgimenti effimeri è una stortura, una demonia connaturata al mondo moderno. Merezkovskij si muove nello stesso orizzonte culturale e simbolico tracciato da Borges. Sa che è la Musa a dischiudere il terzo occhio del Poeta e ad alimentare il sacro fuoco dell’ispirazione. Scrivere è per lui una pratica umana che ha una strettissima correlazione con il divino, è il riverbero dell’infinito sul finito come avrebbe detto Kant, il solo modo concesso ai mortali per intravedere Dio.

 

Erigere cattedrali di luce per illuminare l’oscurità, spargere dei draghi il seme, «gettare le proprie arcate oltre il mondo dei sogni» secondo l’ammonimento di Ernst Junger: questo sembra essere il compito gravido di presagi che lo scrittore russo intende assegnare al periglioso esercizio della scrittura. Opporre alle umbratili illusioni del divenire la granitica perennità dell’archetipo, attingere alle radici del Mito per far sì che l’Eterno Ritorno possa compiersi di nuovo, a dispetto del tempo e delle sue forme cangianti.

 

Merezkovskij si è formato nell’ambito della religiosità ascetica e manichea propria della setta ortodossa dei cosiddetti Vecchi Credenti, la stessa alla quale appartiene Aleksandr Dugin. Una spiritualità, la sua, fortemente condizionata dal tema dell’atavico scontro tra la Luce e le Tenebre. Quello descritto da Merezkovskij nei suoi romanzi è un universo organico, un mosaico vivente alimentato da una legge deterministica che, come un respiro, tende alla circolarità. Un anelito alla perfezione, riletto in chiave millenaristica, destinato tuttavia a rimanere inappagato poiché la vita, nella sua componente biologica calata nel divenire, è schiava di un rigido dualismo manicheo non passibile di risoluzione.

 

L’esistenza, per Merezkovskij, è dominata dalla polarità, dal conflitto inestinguibile tra due verità sempre equivalenti e tuttavia contrarie: quella celeste e quella terrena, ovvero la verità dello spirito e quella della carne, Cristo e l’Anticristo. La prima si manifesta come eterno slancio a elevarsi verso Dio rinunciando a se stessi, la seconda, al contrario, è un impulso irrefrenabile in senso inverso teso all’affermazione parossistica del propria volontà individuale.

 

Queste due forze cosmiche, dalla cui costante interazione scaturisce il corretto ordine delle cose, sono in lotta tra loro senza che mai l’una possa prevalere sull’altra.

 

Cielo e terra, vita e morte, libertà e ordine, Dio e Lucifero, l’uomo e le antinomie della Storia, l’Apocalisse e la funzione salvifica della Russia: come in uno scrigno, ecco racchiusi tutti i motivi fondanti del Simbolismo russo, gli stessi che il lettore non avrà difficoltà a rintracciare nella vita dell’illustre protagonista di questa biografia.

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Chi era veramente Alessandro I?

La formazione liberale ricevuta in gioventù dal precettore ginevrino Frédéric Cesar Laharpe, messogli accanto dalla nonna Caterina II perché lo istruisca sull’uso di mondo, diffonde tra i membri della corte, sempre propensi alla cospiratoria maldicenza, la convinzione che Alessandro sia un debole, troppo innamorato di Voltaire e Rousseau per potersi occupare dell’Impero con il necessario pugno di ferro.

 

Mai giudizio è stato più malriposto. Se la Russia non è crollata sotto l’urto della Grande Armée lo si deve innanzitutto alle insospettabili attitudini al comando rivelate dallo Zar di fronte al pericolo incombente. I suoi dignitari hanno in tutta evidenza sottovaluto la lezione di cui Alessandro I ha fatto tesoro durante gli anni trascorsi nella tenuta di Gatcina dove il padre Paolo I, inviso alla Zarina che lo tiene lontano dagli affari di governo, impone al figlio una rigida educazione di tipo prussiano: la vita di caserma con i suoi rigori e le sue privazioni, le marce forzate e la pratica delle armi fortificano il principe nel corpo e gli offrono l’opportunità di riflettere sulla reale natura del ruolo che la Provvidenza lo ha chiamato a ricoprire.

 

Matura in lui, lentamente ma inesorabilmente, la consapevolezza che le funamboliche astrazioni dei filosofi illuministi sono argomenti da salotto, utilissimi per intrattenere con arguzia le dame ma assai poco attinenti all’esercizio del potere e alle prerogative della maestà. La Svizzera e l’Inghilterra sono lontanissime da Carskoe Selo e per fronteggiare la minaccia rappresentata da Napoleone e impedire che l’Impero si frantumi in mille pezzi, allora come oggi alla Russia non serve un Marco Aurelio, ma un Diocleziano.

 

Dopo la vittoria a Bordino contro le truppe di Napoleone, non ebbe indugi nel dare alle fiamme Mosca, la città sacra dell’Ortodossia sede del Patriarcato, la Terza Roma erede diretta di Bisanzio dove gli Zar ricevono da tempo immemorabile la loro solenne investitura, pur di tagliare i rifornimenti all’ odiato avversario e consegnarlo così all’ inesorabile stretta del generale inverno. Un gesto impressionante…

 

Senza dubbio. Merezkovsij fa propria una visione della vita degli uomini e dei loro modi (Spengler avrebbe parlato più propriamente di «morfologia della Civiltà») segnata in maniera indelebile dall’idea della predestinazione. Un amor fati che si traduce giocoforza in un titanismo eroico tale per cui spetta solo alle grandi individualità il compito di «portare la croce» testimoniando, con il proprio operato, il compimento nel tempo del disegno escatologico in cui si estrinseca la Teodicea.

 

Per lo scrittore russo lo Zar è il Demiurgo, appartiene, come l’Imperatore Giuliano protagonista di un’altra sua biografia, alla stirpe degli Dèi terreni, che operano nel mondo avendo l’Eternità come orizzonte. Nella weltanschauung elaborata da Merezkovskij solo ai santi e agli eroi è concesso il gravoso privilegio di essere l’essenza di memorie future: aut Caesar, aut nihil, come avrebbe detto il Borgia. Ai giganti si confanno gesti impressionanti.

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Lei ha visto una similitudine tra l’aggressione napoleonica alla Russia di Alessandro a quanto sta avvenendo oggi…

Lo scrittore francese Sylvain Tesson, in quel bellissimo diario sulle orme del còrso in ritirata che è Beresina. In sidecar con Napoleone (edito in Italia da Sellerio) ha scritto che «davanti ai palazzi in fiamme e al cielo color sangue Napoleone comprese di aver sottovalutato la furia sacrificale dei Russi, l’irriducibile oltranzismo degli slavi». Questa frase lapidaria suona oggi alle nostre orecchie quasi come una profezia.

 

Quando l’urgenza del momento lo richiede, il loro fatalismo arcaico, l’innato senso del tragico, la capacità di immolare tutte le proprie forze nel rogo dell’istante, senza alcuna preoccupazione per ciò che accadrà, rendono i Russi impermeabili a qualunque privazione, una muraglia umana anonima e invalicabile, la stessa contro la quale, un secolo e mezzo più tardi, anche Adolf Hitler, giunto alle porte di Stalingrado, avrebbe visto infrangersi le proprie mire espansionistiche. Identico tipo umano, stesso nemico, medesimo risultato. Una duplice lezione della quale, come testimoniano le cronache belliche di questi mesi, i moderni epigoni di Napoleone, ormai ridotti sulla difensiva e prossimi alla disfatta nonostante l’impressionante mole di uomini e mezzi impiegata, non sembrano aver fatto tesoro.

 

«Ogni passo che il nemico compie verso la Russia lo avvicina maggiormente all’Abisso. Mosca rinascerà dalle sue ceneri e il sentimento della vendetta sarà la fonte della nostra gloria e della nostra grandezza». Sono parole impressionanti quelle di Merežkovskij.

 

A voler essere pignoli questa frase non è stata pronunciata da Merezkovskij, ma da Alessandro I in persona, a colloquio con il Generale Kutuzov poco prima del rogo fatale. Dostoevskij ci ricorda che «il cuore dell’anima russa è intessuto di tenebra». Quanto più intensa è la luce, tanto più lugubri sono le ombre che essa proietta sul muro. Ai nemici della Russia consiglio caldamente di rileggere queste parole ogni sera prima di coricarsi…

 

A quali scrittori si sentirebbe di accostare Merežkovskij?

L’editoria di casa nostra, non perdonando allo scrittore russo il fatto di aver salutato con favore, negli anni del suo esilio parigino, il passaggio delle divisioni della Wehrmacht lungo gli Champs Elysées, ha riservato alle sue opere una posizione marginale, ma in Russia Merezkovskij è considerato un nume tutelare, che campeggia nel pantheon del genio nazionale accanto a Tolstoj e al mai sufficientemente citato Dostoevskij che a lui sono legati, come i lettori avranno modo di scoprire, da profonda, intima consanguineità.

 

Paolo Gulisano

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Immagine: Adolph Northen, La ritirata di Napoleone da Mosca (1851)

Immagine di pubblico dominio CCo via Wikimedia

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