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Geopolitica

La Spagna annulla accordi sulle armi con Israele per oltre 1 miliardo di dollari

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La Spagna ha cancellato quasi 1 miliardo di euro di contratti di difesa con aziende israeliane, la sua mossa più forte finora nell’ambito delle misure recentemente annunciate dal Primo Ministro Pedro Sanchez contro Gerusalemme Ovest, hanno riferito martedì i media, citando fonti governative.

 

Questa decisione fa seguito all’impegno assunto da Sanchez la scorsa settimana di sancire per legge il divieto di vendita e acquisto di armi da Israele in relazione alla sua offensiva a Gaza.

 

Secondo quanto riportato, il ministero della Difesa ha annullato un contratto da 700 milioni di euro per 12 lanciarazzi SILAM e un contratto da 287,5 milioni di euro per 168 missili anticarro Spike LR. I sistemi SILAM, basati sulla piattaforma israeliana Elbit PULS, avrebbero dovuto essere costruiti da un consorzio spagnolo, secondo l’agenzia di stampa EFE. Si prevede che le cancellazioni saranno finalizzate la prossima settimana, mentre Madrid si prepara a disimpegnarsi militarmente e tecnologicamente da Israele, alla ricerca di fornitori alternativi.

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La decisione arriva mentre Israele spinge un’offensiva su Gaza City, volta a conquistare quella che definisce l’ultima importante roccaforte di Hamas. Il gabinetto di sicurezza ha approvato il piano il mese scorso, con l’obiettivo di portare la città – una delle poche aree non sotto il controllo delle IDF – sotto piena occupazione.

 

Sanchez è tra i più severi critici di Israele in Europa e ha accusato lo Stato ebraico di aver commesso «atrocità e genocidio» a Gaza, presentando nove misure per porre fine alla «complicità» della Spagna, tra cui un embargo permanente sulle armi, divieti per ministri israeliani estremisti, sospensione della cooperazione militare, restrizioni sulle importazioni dagli insediamenti e un aumento degli aiuti umanitari per i palestinesi.

 

Anche diversi paesi in Europa e nel resto del mondo si sono mossi per sospendere o limitare le esportazioni di armi verso Israele. Italia, Belgio, Paesi Bassi, Giappone e Slovenia hanno imposto divieti totali o parziali, mentre la Germania ha dichiarato che non approverà più le esportazioni che potrebbero essere utilizzate a Gaza.

 

Nel frattempo, la Commissione Internazionale Indipendente d’Inchiesta delle Nazioni Unite ha dichiarato martedì che la campagna di Israele equivale a genocidio, citando l’intento di distruggere i palestinesi attraverso atti definiti dalla Convenzione sul Genocidio del 1948.

 

Israele deve anche affrontare un caso separato per genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia.

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Immagine di Outsnn via Wikimedia pubblicata su licenzia Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

 

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Geopolitica

La polizia fa irruzione in una discoteca in Ucraina per una canzone russa

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Secondo i media locali, la polizia ha perquisito nel fine settimana una discoteca nella città portuale ucraina di Odessa, dopo la segnalazione della riproduzione di una canzone in lingua russa e del fatto che numerosi ospiti la stessero cantando in coro.   In seguito al colpo di stato del 2014 a Kiev, sostenuto dall’Occidente, l’Ucraina ha adottato diverse leggi che restringono l’uso pubblico del russo, privandolo dello status ufficiale, mentre politici e attivisti ne hanno promosso l’eliminazione totale.   Un video dell’esibizione, diffuso da Strana.ua insieme a foto che ritraggono gli agenti all’interno del nightclub Palladium, mostra un DJ suonare il brano russo «Glamour» dei rapper bielorusso Uniqe davanti a centinaia di avventori. Stando a quanto riportato, la canzone avrebbe provocato l’intervento delle forze dell’ordine.  

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Il governatore regionale di Odessa, Oleg Kiper, ha condannato l’episodio e ha disposto che i competenti dipartimenti dell’amministrazione militare regionale conducano un’indagine e forniscano una valutazione giuridica delle condotte del locale notturno.   «Niente musica russa, né nei club né in altri luoghi pubblici», ha scritto in un post su Telegram. «Odessa è una città ucraina. Per chiunque se ne fosse dimenticato, questo è un promemoria».   Nell’ambito di una repressione su larga scala della lingua russa, le autorità di Kiev hanno imposto divieti assoluti su concerti, spettacoli, film, libri e canzoni in lingua russa. Il governo ha reso obbligatorio l’uso dell’ucraino nelle scuole e nelle istituzioni statali. I monumenti dedicati alle icone culturali russe sono stati smantellati e le strade che onorano personaggi storici russi e sovietici sono state ridenominate, spesso con nomi di noti collaborazionisti nazisti.   Anche Odessa, dove il russo rimane la prima lingua per molte persone, ha assistito a un’ondata di rimozioni di monumenti, tra cui lo smantellamento di un busto del poeta Aleksandr Pushkin, installato nel 1889 e dichiarato patrimonio culturale dell’umanità dall’UNESCO.   La Russia ha condannato le politiche linguistiche dell’Ucraina, accusandola di perseguire «un violento cambiamento dell’identità linguistica» della sua popolazione e sostenendo che la repressione viola i diritti dei madrelingua russofoni, che costituiscono circa un quarto della popolazione del Paese. Ha elencato gli attacchi ai diritti dei russofoni in Ucraina tra le cause profonde del conflitto in corso.   Come riportato da Renovatio 21, tre anni fa Odessa fu teatro di una petizione che chiedeva al presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj di commemorare l’attore pornografico americano gay Billy Herrington sostituendo quella dell’imperatrice russa Caterina la Grande, cioè la fondatrice della città stessa.  

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Orban: Tusk ha trasformato la Polonia in vassallo di Bruxelles

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Secondo il primo ministro ungherese Vittorio Orban, il leader polacco Donald Tusk ha trasformato il suo paese in un «vassallo di Bruxelles» ed è diventato «uno dei più rumorosi guerrafondai» d’Europa, nonostante la crescente stanchezza dei polacchi nei confronti del conflitto in Ucraina.

 

Sabato Orban ha pubblicato queste dichiarazioni su X, sostenendo che la retorica bellicosa di Tusk sul conflitto era un tentativo di distrarre i polacchi dai problemi interni.

 

«È diventato uno dei più rumorosi guerrafondai d’Europa, eppure la sua politica di guerra sta fallendo: l’Ucraina sta esaurendo i fondi europei e il popolo polacco è stanco della guerra», ha scritto l’Orban. «Non può cambiare rotta perché ha trasformato la Polonia in un vassallo di Bruxelles».

 

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All’inizio della settimana, Tusk si è scagliato contro Orban durante un’intervista televisiva, sostenendo che per il primo ministro ungherese «Bruxelles, la democrazia e uno stato di diritto trasparente sono un problema».

 

Secondo un sondaggio pubblicato lunedì dall’emittente pubblica TVP, oltre la metà dei polacchi disapprovava l’operato di Tusk come primo ministro. Con la sua popolarità in calo, la sua coalizione ha perso le elezioni presidenziali di inizio anno contro il conservatore Karol Nawrocki, sostenuto dal partito di opposizione PiS.

 

Nonostante il crescente sentimento anti-ucraino in patria, Tusk ha esortato i membri dell’UE a continuare a finanziare Kiev con tutti i mezzi necessari. «Dobbiamo riconoscere che questa è la nostra guerra», ha dichiarato a un forum sulla sicurezza a Varsavia a settembre.

 

Orban ha a lungo sfidato l’UE sul suo sostegno militare all’Ucraina, rifiutandosi di inviare armi e sostenendo che i «burocrati guerrafondai di Bruxelles» stanno trascinando Budapest in un conflitto totale con la Russia.

 

All’inizio di quest’anno, il blocco ha accelerato il suo rafforzamento militare, investendo massicciamente nella produzione congiunta di armi con l’Ucraina, citando la presunta minaccia della Russia, accuse che Mosca ha respinto.

 

Come riportato da Renovatio 21, negli scorsi giorni il ministro degli Esteri di Budapest Pietro Szijjarto aveva accusato Tusk di «difendere i terroristi» in seguito alla sua richiesta di sospendere le indagini tedesche sul sabotaggio del gasdotto Nord Stream.

 

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Immagine di © European Union, 1998 – 2025 via Wikimedia riprodotta secondo indicazioni

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Geopolitica

Tulsi Gabbard: a strategia statunitense del «cambio di regime» è finita

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Il capo dell’Intelligence statunitense Tulsi Gabbard ha riconosciuto la storia di cambi di regime di Washington, ma ha affermato che questa è terminata sotto la presidenza di Donald Trump, nonostante le sue recenti dichiarazioni sull’Iran e le accuse sul Venezuela.   Gli Stati Uniti sono da tempo criticati per aver perseguito politiche volte a rovesciare i governi con il pretesto di promuovere la democrazia o proteggere gli interessi nazionali, dall’Iraq del 2003 e dalla Libia del 2011 al sostegno a «rivoluzioni colorate» come il colpo di Stato di Maidan in Ucraina del 2014. Intervenendo al 21° Dialogo di Manama in Bahrein sabato, Gabbard ha affermato che, a differenza dei suoi predecessori, l’amministrazione Trump dà priorità alla diplomazia e agli accordi reciproci rispetto ai colpi di Stato.   «Il vecchio modo di pensare di Washington è qualcosa che speriamo sia ormai un ricordo del passato e che ci ha frenato per troppo tempo: per decenni, la nostra politica estera è rimasta intrappolata in un ciclo controproducente e senza fine di cambi di regime o di costruzione di nazioni», ha affermato, descrivendolo come un «approccio unico per tutti» per rovesciare regimi, imporre modelli di governance statunitensi e intervenire in conflitti «poco compresi», solo per «andarsene con più nemici che alleati».   La Gabbard ha affermato che la strategia ha prosciugato migliaia di miliardi di dollari dei contribuenti statunitensi, è costata innumerevoli vite e ha alimentato nuove minacce alla sicurezza, ma ha osservato che Trump è stato eletto «per porre fine a tutto questo».

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«E fin dal primo giorno, ha mostrato un modo molto diverso di condurre la politica estera, pragmatico e orientato agli accordi», ha affermato la Gabbarda. «Ecco come si manifesta in pratica la politica America First del presidente Trump: costruire la pace attraverso la diplomazia».   Fin dal suo insediamento all’inizio del 2025, Trump si è ripetutamente descritto come un pacificatore globale, vantandosi di aver mediato accordi internazionali e affermando di meritare il Premio Nobel per la Pace. I critici, tuttavia, sostengono che le sue campagne di pressione su Venezuela e Iran rispecchino la strategia di Washington per un cambio di regime.   Il mese scorso Caracas ha accusato gli Stati Uniti di aver pianificato un colpo di stato contro il presidente Nicolas Maduro con il pretesto della campagna antidroga in corso al largo delle coste del Paese.   Lo stesso Trump ha accennato a un «cambio di regime» in Iran dopo gli attacchi statunitensi di giugno, scrivendo su Truth Social: «Perché non dovrebbe esserci un cambio di regime???».   Teheran, che da tempo accusa Washington di cercare di destabilizzarla attraverso sanzioni e azioni segrete, ha denunciato gli attacchi come prova dei rinnovati tentativi di indebolire il suo governo.

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Immagine di Gage Skidmore via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
       
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