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1974-2024, 50° anniversario della Dichiarazione di mons. Lefebvre

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Abbiamo celebrato il 50° anniversario della Dichiarazione di Mons. Lefebvre esponendo le ragioni profonde dell’atteggiamento della Fraternità San Pio X, nel contesto post-Vaticano II.

 

1. L’anno 2024 è quello del cinquantesimo anniversario della Dichiarazione del 21 novembre 1974, nella quale Mons. Lefebvre scrisse a caratteri d’oro le ragioni profonde dell’atteggiamento sempre seguito dalla Fraternità San Pio X nel contesto post Concilio Vaticano II.

 

Tali ragioni sono le seguenti: obbedienza agli insegnamenti del Magistero; il rifiuto degli errori contrari a questi insegnamenti, così come sono emersi durante il Concilio Vaticano II e successivamente; resistenza alle azioni dei rappresentanti dell’autorità nella Chiesa, quando impongono questi errori.

 

2. La ragione più profonda, ragione fondamentale che è principio di tutte le altre, è l’obbedienza richiesta, da parte di ogni cattolico, agli insegnamenti e alle direttive del Magistero ecclesiastico, Magistero affidato da Nostro Signore ai San Pietro apostolo e, per suo tramite, a tutti coloro che gli succederanno nella sede di Roma.

 

«Noi aderiamo con tutto il cuore e con tutta l’anima alla Roma cattolica custode della fede cattolica e delle tradizioni necessarie al mantenimento della stessa fede, alla Roma eterna, maestra di saggezza e di verità». Questa obbedienza è infatti la condizione assolutamente necessaria per una professione di fede salutare.

 

Infatti, se la fede è un dono di Dio, una virtù soprannaturale infusa e ricevuta con la grazia del battesimo, il suo esercizio dipende dal suo oggetto ed è il Magistero istituito da Cristo che deve indicarcela, in nome di Dio, dichiarandoci con autorità, quali verità sono richieste per l’atto della nostra fede.

 

Come ricordava ancora Pio XII nel 1950, «questo Magistero, in materia di fede e di morale, deve essere per ogni teologo la regola prossima e universale della verità, poiché ad esso Cristo Signore ha affidato il deposito della fede: le Sacre Scritture e le Tradizione divina – per conservarla, difenderla e interpretarla» (1).

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3. Il secondo motivo è la prima, inevitabile conseguenza del primo, di fronte ai fatti che siamo tenuti a constatare. La conseguenza della sottomissione alla verità è il rifiuto dell’errore contrario, e quindi l’obbedienza agli insegnamenti del Magistero della Chiesa comporta il rifiuto di tutto ciò che contraddirebbe questi insegnamenti.

 

E i fatti sono questi: degli errori contrari agli insegnamenti del Magistero hanno interferito nella predicazione degli uomini di Chiesa, durante il Vaticano II e successivamente. «Noi rifiutiamo, invece, e abbiamo sempre rifiutato di seguire la Roma di tendenza neo-modernista e neo-protestante che si è manifestata chiaramente nel Concilio Vaticano II e dopo il Concilio, in tutte le riforme che ne sono scaturite».

 

Il rifiuto qui è la conseguenza necessaria dell’obbedienza. Il fatto è che una tendenza neomodernista e neoprotestante «si è manifestata chiaramente»: sì, chiaramente. L’opposizione tra gli insegnamenti del Concilio Vaticano II e quelli del Magistero precedente è evidente, se non altro nelle direttive pratiche che ne derivano, e, a maggior ragione, nei passaggi chiave del Concilio relativi alla libertà religiosa (2), ecumenismo (3) e collegialità (4).

 

4. Il terzo motivo consegue dai primi due: se l’obbedienza al Magistero ecclesiastico comanda di respingere gli errori contrari alle verità finora insegnate con autorità, la stessa obbedienza comanda di resistere agli atti di uomini di Chiesa che vorrebbero imporre questi errori in nome della falsa obbedienza.

 

«Nessuna autorità, neppure la più alta nella gerarchia, può costringerci ad abbandonare o a diminuire la nostra fede cattolica chiaramente espressa e professata dal Magistero della Chiesa da diciannove secoli», dice mons. Lefebvre.

 

«Per questo, senza alcuna ribellione, amarezza o risentimento, continuiamo la nostra opera di formazione sacerdotale sotto la stella del magistero di sempre, convinti di non poter rendere un servizio più grande alla Santa Chiesa Cattolica, al Sommo Pontefice e alle generazioni future».

 

5. Ed è qui che Mons. Lefebvre fonda le sue affermazioni, sul precetto dato dall’apostolo San Paolo. «Se ciò dovesse accadere», dice San Paolo nella sua epistola ai Galati, «che noi stessi» – che noi stessi, dice San Paolo; non è solo con «se venisse un angelo dal cielo» che questa parola è conosciuta, ma a volte dimentichiamo questa parolina: se noi stessi o un angelo dal cielo: si nos aut angelus de cælo.

 

«Se noi stessi o un angelo dal cielo vi insegnamo qualcosa di diverso da quello che vi ho insegnato, sia anatema». San Paolo si fa anatema se insegna cose nuove, se insegna qualcosa che prima non insegnava. Non è questo che ci ripete o ci deve ripetere oggi il Santo Padre?

 

«E se una certa contraddizione si manifesta tra le sue parole e i suoi atti, così come negli atti dei dicasteri, allora scegliamo ciò che è stato sempre insegnato e non prestiamo ascolto alle novità distruttrici della Chiesa».

 

6. San Tommaso d’Aquino, nel suo Commento a questo brano della Lettera ai Galati (5), fornisce i seguenti dettagli. «Esistono tre tipi di insegnamento: quello dei filosofi che seguono la ragione naturale; la Rivelazione dell’Antico Testamento comunicata dagli angeli (Gal, III, 19); la Rivelazione del Nuovo Testamento donata immediatamente da Dio (Gv, I, 18; Hb, 1,2)».

 

«L’insegnamento dell’uomo può essere cambiato e revocato da un altro uomo che abbia una conoscenza migliore; l’insegnamento dell’antica Legge rivelato dall’angelo può essere completato da Dio; ma l’insegnamento rivelato direttamente da Dio non può essere modificato, né dall’uomo né dall’angelo».

 

«Per questo se accade che un uomo o un angelo dica il contrario di ciò che Dio ha rivelato, non è la sua parola che è contro la dottrina rivelata, ma è piuttosto la dottrina rivelata che è contro la sua parola, poiché colui che ha proferito tale parola deve essere escluso ed espulso dalla comunione fondata su questa dottrina».

 

«L’Apostolo qui dice che la dottrina del Vangelo, immediatamente rivelata da Dio, è di così grande dignità che se qualche uomo o angelo predicasse qualcosa di diverso da ciò che è affermato in questo Vangelo, sarebbe anatema, cioè devono essere tagliati fuori e scacciati».

 

7. Ricordiamo questa idea, con tutta la sua importanza: «Se accade che un uomo o un angelo dica il contrario di ciò che Dio ha rivelato, non è la sua parola che è contro la dottrina rivelata, ma è piuttosto la dottrina rivelata che è contro la sua parola». È la dottrina rivelata, già comunicata agli uomini dall’organo divinamente istituito del Magistero a giudicare contraria questa parola.

 

Questa spiegazione del Dottore angelico corrisponde esattamente al criterio enunciato da Mons. Lefebvre, in un’omelia pronunciata a Econe il 22 agosto 1976: «E quando ci viene detto: “Voi giudicate, giudicate il Papa, giudicate i vescovi”», noi rispondiamo che non siamo noi a giudicare i vescovi, è la nostra fede, è la Tradizione. È il nostro catechismo di sempre.

 

«Un bambino di cinque anni può mostrarlo al suo vescovo. Se viene un vescovo e dice a un bambino: “Quello che ti dicono della Santissima Trinità, che ci sono tre Persone nella Santissima Trinità, non è vero”. Il bambino prende il catechismo e dice: “Il mio catechismo mi insegna che ci sono tre Persone nella Santissima Trinità. Siete voi quello che ha torto. Sono io quello che ha ragione”».

 

«Questo bambino ha ragione. Ha ragione perché ha con sé tutta la Tradizione, perché ha con sé tutta la fede. Bene, questo è quello che facciamo. Non siamo nient’altro. Diciamo: la Tradizione vi condanna. La Tradizione condanna ciò che state facendo ora». (6)

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8. È vero, abbiamo detto, richiamando l’insegnamento di Pio XII, che il Magistero della Chiesa, in materia di fede e di morale, deve essere per ogni teologo la regola prossima e universale della verità. Questa regola è quella della proposizione del Magistero, dalla quale i teologi, e con essi tutti i fedeli, ricevono la Parola rivelata da Dio, deposito della fede.

 

E in tempi normali, questa è la proposizione attuale, purché questa rimanga in perfetta omogeneità con quella portata avanti finora dal Magistero, nel corso del tempo. Il Magistero potrebbe così essere descritto sotto l’immagine di un’eco ininterrotta.

 

Si dice «vivente» a differenza della Rivelazione che si dice «completata» o «chiusa» e il Magistero è vivente preso come tale, cioè non come il Magistero attuale del Papa del tempo presente, ma come quello che è, dal tempo degli Apostoli fino alla fine del mondo.

 

È questo Magistero vivente che è la regola della verità in materia di fede e di morale. Di solito lo è nella sua predicazione attuale, purché questa sia l’eco inalterata di tutta la predicazione passata.

 

9. Dobbiamo constatare che oggi l’attuale predicazione degli uomini di Chiesa, a partire dal Concilio Vaticano II, lungi dall’echeggiare quella del Magistero vivo della Chiesa, è in contraddizione con essa. C’è quindi una carenza che deve portarci ad affidarci a tutta la predicazione passata del Magistero vivo della Chiesa, alla Tradizione di venti secoli, per continuare a custodire la fede preservandoci dagli errori.

 

Ed è questo il criterio indicato da San Paolo, come spiega San Tommaso: è la dottrina rivelata da Dio e già proposta dal Magistero vivo della Chiesa che è contro la parola degli uomini della Chiesa di oggi, che giudica e condanna le nuove parole del Vaticano II.

 

10. Mons. Lefebvre prosegue sottolineando la gravità di questi errori, che colpiscono i fedeli soprattutto attraverso l’attuazione della riforma liturgica. «Non possiamo modificare profondamente la lex orandi, cioè la liturgia, senza modificare la lex credendi.

 

Ad una nuova messa corrisponde un nuovo catechismo, un nuovo sacerdozio, nuovi seminari, nuove università, una Chiesa carismatica, pentecostale, tutte cose che si oppongono all’ortodossia e al Magistero di sempre. Questa riforma essendo frutto del liberalismo, del modernismo, è tutta avvelenata, viene dall’eresia e finisce nell’eresia, anche se tutti i suoi atti non sono formalmente eretici.

 

11. È necessaria la resistenza, in nome dell’obbedienza al Magistero vivo della Chiesa, in nome di questa eco ininterrotta della predicazione di Cristo e degli Apostoli. “È quindi impossibile per qualsiasi cattolico cosciente e fedele adottare questa riforma e sottomettersi ad essa in alcun modo.

 

«L’unico atteggiamento di salvezza e di fedeltà alla dottrina cattolica è il rifiuto categorico di accettare questa riforma; per questo manteniamo fermamente tutto ciò che si credeva, si praticava nella fede, nella morale, nel culto, nell’insegnamento del catechismo, nella formazione dei sacerdoti, nell’istituzione della Chiesa fino al 1962, prima dell’influsso dannoso del Concilio Vaticano II».

 

«Così facendo, con la grazia di Dio, l’aiuto della Vergine Maria, di San Giuseppe, di San Pio X, siamo convinti di rimanere fedeli alla Chiesa cattolica e romana, a tutti i successori di Pietro e di essere il fedeli dispensatori dei misteri di Nostro Signore Gesù Cristo in Spiritu Sancto».

 

12. Così facendo, Mons. Lefebvre e la sua Fraternità non metterebbero in discussione l’indefettibilità della Chiesa? La famosa constatazione costantemente formulata dall’ex arcivescovo di Dakar («Siamo obbligati a constatare») non è forse quella del fallimento dell’istituzione fondata da Gesù Cristo e della negazione della sua natura divina?

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Se si comprende esattamente in cosa consiste l’indefettibilità della Chiesa, l’obiezione scompare da sola. Tutto si fonda qui sulla distinzione fondamentale tra, da un lato, l’istituzione stessa della Chiesa, che è un’istituzione divina e quindi indefettibile, e, dall’altro, gli atti degli uomini di Chiesa che rappresentano tale istituzione.

 

Il fallimento, se ce n’è uno, non riguarda la Chiesa in quanto tale, considerata nel suo Magistero, ma alcuni atti compiuti da alcuni membri della sua gerarchia che hanno rotto con la Tradizione e che purtroppo occupano posizioni di potere nella Chiesa Chiesa.

 

Ma la Chiesa resta irremovibile, attraverso la coraggiosa resistenza di tutti coloro che si oppongono alle riforme scaturite dal Concilio e si attengono fermamente «a tutto ciò che si credeva (…) fino al 1962, prima dell’influsso dannoso del Concilio Vaticano II».

 

13. Mons. Lefebvre non parla proprio di un’altra Roma, di una Roma eretica o scismatica, di una Roma neomodernista o neoprotestante, ma di una Roma “con una tendenza neomodernista e neoprotestante”. Con questa espressione si vuole designare non è la Chiesa in quanto tale, ma coloro che, nella Chiesa, spingono le anime verso errori già condannati.

 

Don Jean-Michel Gleize

 

NOTE

 

1) Pio XII, Enciclica Humani Generis del 12 agosto 1950, AAS, vol. XLII (1950), pag. 567.

2) Dichiarazione Dignitatis humanae.

3) Decreto Unitatis redintegratio n°3, costituzione Lumen gentium n° 8.

4) Costituzione Lumen gentium, n° 22.

5) Commento alla Lettera di San Paolo ai Galati, capitolo I, versetto 8, lezione II.

6) Istituto Universitario San Pio X, Vaticano II. L’autorità di un Concilio in questione, capitolo XI: «Vera e falsa obbedienza: la fede non appartiene al Papa», Vu de haut n° 13, 2006, p. 35–36.

 

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

 

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L’élite distrugge l’originale per sostituirlo con la contraffazione: mons. Viganò contro il restauro di Notre Dame

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Mons. Viganò ha scritto su X un suo commento sul restauro ultimato della Cattedrale di Notre Dame di Parigi, ora riaperta dopo anni di lavori dopo il rogo.   «Il modus operandi dell’élite globalista è sempre lo stesso: distruggere l’originale perfetto per sostituirlo con una contraffazione» scrive l’arcivescovo, che si interroga anche sulla presenza del presidente francese Macron alla riapertura.   Viganò scrive «del nuovo, orrido presbiterio», mostrato al vertice dello Stato francese «alla presenza di compiaciuti prelati modernisti».  

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«Presto vedremo altri orrori imposti per sostituire le vetrate di Viollet-le-Duc, che si erano salvate dall’incendio» commenta il prelato lombardo, che infine fa un riferimento ad uno degli episodi più sconcertanti della Rivoluzione francese, che altro non fu che una grande guerra di sterminio verso i cattolici e la loro religione.   «Era dall’intronizzazione della “dea ragione” che non si vedevano simili orrori nella Cattedrale di Parigi» dice Viganò.   Il culto della «dea ragione» era una specie di religione illuminista senza Dio che aveva preso piede dai rivoluzionari, che utilizzavano questo spirito ateo per intensificare l’opera di scristianizzazione e secolarizzazione della Francia dei massacri rivoluzionari. Erano Adepti della dea ragione Jacques-René Hébert, Joseph Fouché e Pierre-Gaspard Chaumette.   Tra il 1792 e il 1794 il culto – considerato come una vera forma di «religione civile» anticlericale – venne diffuso in maniera organizzata. La religione della dea ragione venne in seguito limitata dal decreto della Convenzione nazionale sulla libertà di religione, voluto da Robespierre, il quale si diceva contrario all’ateismo e considerava tutte le manovre dell’Hébert come i programmi di scristianizzazione sottili tentativi delle spie britanniche per cagionare un rigetto popolare che sfociasse in una controrivoluzione.  Fu così istituita una grottesca religione «laica» (parola pudica per dire «massonica») ulteriore, cioè il culto dell’Essere Supremo, ispirato agli ideali deisti di certo illuminismo.   I primi eventi pubblici dedicati al culto della dea ragione ebbero inizio il 9 ottobre 1793 nelle province francesi, nei pressi di Parigi, e furono promosse in particolare dalla fazione degli hébertisti nella regione intorno a Lione. Queste celebrazioni assunsero una dimensione più radicale con la «Festa della Libertà», tenutasi il 10 novembre 1793 (20 brumaio per il nuovo calendario rivoluzionario) proprio nella Cattedrale di Notre-Dame a Parigi, sotto la direzione di Pierre-Gaspard Chaumette.   I rivoluzionari decisero quindi di trasformare Notre-Dame in un «Tempio della Ragione», eliminando ogni simbolo religioso, e di celebrare il culto della «dea ragione senza preti» con una festa repubblicana ogni dieci giorni. Durante queste cerimonie, alla presenza del sindaco e di funzionari pubblici, venivano letti la Dichiarazione dei Diritti e la Costituzione, commentati gli eventi gloriosi delle armate al fronte e le azioni significative del periodo, oltre a discutere temi di interesse pubblico. Le celebrazioni comprendevano anche esibizioni musicali e l’esecuzione di inni patriottici come La Marsigliese.

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Una prima festa simbolica si era svolta già il 10 agosto 1793 in Place de la Bastille, ma quella del 10 novembre a Notre-Dame rappresentò un evento particolarmente sconcertante. Il ruolo della dea ragione fu interpretato da Marie-Thérèse Davoux, conosciuta come mademoiselle Maillard, una cantante lirica parigina, mentre in altre occasioni la figura fu rappresentata dall’attrice Claire Lacombe, cofondatrice della Società delle Repubblicane Rivoluzionarie.   In pratica, nella cattedrale dedicata alla Beata Vergini avevano intronato una dea rappresentata da donne di spettacolo. Invece che Nostra Signora, i rivoluzionari aveva messo sull’altare un’attrice.   Il senso della diabolica inversione rivoluzionaria è tutto qua: distruggere l’originale, il sacro, per sostituirlo con la contraffazione, il demoniaco.

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La Santa Sede sta valutando la possibilità di creare un reato di abuso spirituale

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Il Sommo Pontefice ha accolto la richiesta del Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF) di costituire un gruppo di lavoro per valutare l’opportunità di creare un nuovo reato di «abuso spirituale» e di integrarlo nel codice di diritto canonico. L’eventuale novità di un simile reato, data la vaghezza del concetto che resta in gran parte da definire, non è priva di interrogativi.

 

Il codice di diritto canonico si arricchirà di un nuovo provvedimento legislativo? Nulla è ancora certo al momento, ma quello che è certo è che papa Francesco, al termine dell’udienza del 22 novembre 2024 alla presenza del prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF), ha consentito la creazione di un gruppo di lavoro interdipartimentale per lavorare in questa direzione.

 

La sfida è definire un nuovo reato che copra l’uso abusivo del «falso misticismo» per manipolare una persona. Nel resoconto dell’udienza del 22 novembre, pubblicato dalla Sala Stampa della Santa Sede, si rileva che il cardinale Victor Manuel Fernandez ha spiegato al Papa che il suo dicastero utilizzava già la nozione di «falso misticismo».

 

Questo utilizzo riguarda un concetto ben preciso: quello di «questioni legate alla spiritualità e a presunti fenomeni soprannaturali (…) come casi di pseudomisticismo, apparizioni, visioni e messaggi attribuiti ad origine soprannaturale».

 

Ma il prefetto del DDF ha sottolineato un problema che, secondo lui, merita di essere affrontato: «non esiste nel diritto canonico alcun reato classificato sotto l’espressione falso misticismo, anche se i canonisti talvolta usano l’espressione come circostanze di alcuni delitti di abuso».

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Il «patrono della fede» ha ricordato che nei nuovi standard di valutazione di presunti eventi e fenomeni soprannaturali emanati dal suo dicastero all’inizio del 2023, si riconosce ormai che «l’utilizzo di presunte esperienze soprannaturali» o di «elementi mistici riconosciuti come mezzo o pretesto per esercitare un controllo sulle persone o per commettere abusi, deve essere considerato di un peso morale del tutto particolare».

 

Agli occhi di alcuni canonisti romani – come ricorda il sito d’informazione The Pillar – la questione della creazione di un nuovo reato canonico appare «opportuna, anche se molto tardiva», in particolare a causa dei recenti casi di abuso in cui l’influenza spirituale sembra avere ha giocato un ruolo importante.

 

Fino a creare recentemente un vero e proprio conflitto di competenze che ha avvelenato i rapporti tra il DDF e la Segreteria di Stato nell’«affare Principi», intitolato a un sacerdote ormai ridotto allo stato laicale.

 

Ma se alcuni casi di abuso spirituale possono essere chiaramente identificati, altre situazioni più vaghe possono essere piuttosto difficili da valutare dalla legge; senza contare il rischio di vedere moltiplicarsi indebitamente le denunce per tali abusi, intasando i tribunali diocesani e romani che credono di avere abbastanza lavoro da fare per aggiungerne altro.

 

Tocca ora a mons. Filippo Iannone, prefetto del Dicastero per i testi legislativi, riunire i canonisti competenti per valutare, insieme al DDF, l’opportunità di incrementare l’elenco – già lungo – dei reati perseguiti dal Codice di Diritto Canonico.

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Ratzinger e il «mostro» del papato scomposto. Riflessione di mons. Viganò

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Renovatio 21 pubblica questa riflessione dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò

 

IL PAPATO «SCOMPOSTO»

Emeritus, Munus, Ministerium

  La saga infinita sulla Rinunzia di Benedetto XVI continua ad alimentare una narrazione delle vicende cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio sempre più ardita e surreale.   Teorie inconsistenti e non suffragate da alcuna prova hanno fatto presa su tantissimi fedeli ed anche su sacerdoti, aumentando la confusione e il disorientamento. Ma se ciò è stato possibile, è in buona parte anche dovuto a chi, conoscendo la verità, nondimeno la teme per le conseguenze che essa, una volta svelata, potrebbe avere.   Vi è infatti chi ritiene preferibile tenere insieme un castello di menzogne e inganni, piuttosto di dover mettere in discussione un passato di connivenze, silenzi e complicità. 

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Lo scambio epistolare 

Nel corso di un incontro all’Hotel Renaissance Mediterraneo di Napoli con i Cattolici del locale Cœtus fidelium tenutosi lo scorso 22 Novembre, mons. Nicola Bux ha accennato ad uno scambio epistolare con il «Papa emerito Benedetto XVI», risalente all’estate del 2014, che costituirebbe la smentita delle teorie sulla invalidità della Rinunzia.   Il contenuto di queste lettere – la prima, di mons. Bux, del 19 Luglio 2014 (tre pagine) e la seconda, di Benedetto XVI, del 21 Agosto successivo (due pagine) – non è stato diffuso dieci anni fa, come sarebbe stato più che auspicabile, ma solo oggi se ne è appena accennata l’esistenza. Si dà il caso che io sia al corrente tanto di questo scambio epistolare quanto del suo contenuto.   Per quale motivo mons. Bux decise di non divulgare tempestivamente la risposta di Benedetto XVI quand’era ancora vivo e in grado di confermarla e circostanziarla, e invece di rivelarne soltanto l’esistenza, senza svelarne il contenuto, a quasi due anni dalla sua morte? Perché nascondere alla Chiesa e al mondo questa autorevole e importantissima dichiarazione?   

La rivoluzione permanente

Per rispondere a questi legittimi interrogativi occorre mettere da parte la finzione mediatica. Occorre anzitutto comprendere che la visione antitetica di un Ratzinger «santo subito» e di un Bergoglio «brutto e cattivo» fa comodo a tanti. Questa impostazione semplicistica, artefatta e falsa, evita di affrontare il cuore del problema, ossia la perfetta coerenza di azione dei «papi conciliari» da Giovanni XXIII e Paolo VI al sedicente Francesco, ivi compresi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.   I fini sono gli stessi, anche se perseguiti con modalità e linguaggio differenti. L’immagine di un anziano, elegante e fine teologo, in pianeta romana e calzari rossi, che riconosce cittadinanza al Rito tridentino e di un intemperante eresiarca globalista che non celebra la Messa e vanifica Summorum Pontificum, mentre promulga la liturgia maya con femmine turificanti, rientra in quell’operazione di polarizzazione forzata che abbiamo visto adottata anche nella sfera civile, dove un analogo progetto eversivo è stato condotto a termine favorendo da una parte le forze ultra-progressiste e dall’altro tenendo buone le voci del dissenso.   In realtà, Ratzinger e Bergoglio – ed è proprio questo che i conservatori non vogliono riconoscere – costituiscono due momenti di un processo rivoluzionario che contempla fasi alterne e solo apparentemente contrapposte, seguendo la dialettica hegeliana di tesi, antitesi e sintesi. Un processo che non inizia con Ratzinger e non finirà con Bergoglio, ma che rimonta a Roncalli e sembra destinato a protrarsi finché la deep church continuerà a sostituirsi alla gerarchia Cattolica usurpandone l’autorità.   Nella visione ratzingeriana, la tesi del Vetus Ordo e l’antitesi del Novus Ordo si compongono nella sintesi di Summorum Pontificum, grazie all’escamotage di un unico rito in due forme. Ma questa «coesistenza pacifica» è il prodotto dell’idealismo tedesco; ed è falsa perché si fonda sulla negazione dell’incompatibilità tra due modi di concepire la Chiesa, uno sancito da duemila anni di Cattolicità, l’altro impostosi con il Concilio Vaticano II grazie all’operato di eretici fino ad allora condannati dai Romani Pontefici. 

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La «ridefinizione» del Papato

Ritroviamo lo stesso modus operandi nella volontà espressa prima da Paolo VI, poi da Giovanni Paolo II e infine da Benedetto XVI di «ridefinire» il Papato in chiave collegiale ed ecumenica, ad mentem Concilii, laddove la divina istituzione della Chiesa e del Papato (tesi) e le istanze ereticali dei neomodernisti e delle sette acattoliche (antitesi) si compongono nella sintesi di una ridefinizione del Papato in chiave ecumenica, prospettata dall’enciclica Ut unum sint promulgata da Giovanni Paolo II nel 1995 e più recentemente formulata nel Documento di Studio del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani dello scorso 13 Giugno: Il Vescovo di Roma. Primato e sinodalità nei dialoghi ecumenici e nelle risposte all’enciclica ‘Ut unum sint’.   Non stupirà apprendere – come mi confidò il card. Walter Brandmüller nel gennaio del 2020 rispondendo ad una mia precisa domanda – che il prof. Joseph Ratzinger elaborava la teoria del papato emerito e collegiale con il collega Karl Rahner, negli anni Settanta quando entrambi erano «giovani teologi».    Nel corso di una conversazione telefonica che ebbi nel 2020, una fidatissima assistente di Benedetto XVI mi confermò l’intenzione del Papa – più volte reiterata alla stessa – di ritirarsi a vita privata nella sua dimora bavarese, senza mantenere né il nome apostolico né le vesti papali. Ma questa eventualità era considerata come inopportuna per coloro che avrebbero perso il proprio potere in Vaticano, specialmente nei confronti di quei conservatori che avevano in Benedetto XVI il proprio riferimento e ne avevano mitizzata la figura.    Non sappiamo con certezza se la soluzione teorizzata con Rahner dal giovane Ratzinger fosse ancora contemplata dall’anziano Pontefice, né se il papato emerito sia stato «riesumato» da chi voleva tenere Benedetto in Vaticano, anche avvalendosi delle pressioni esterne sulla Santa Sede che si erano concretizzate con la sospensione del Vaticano dal sistema SWIFT, ripristinato significativamente subito dopo l’annuncio della Rinunzia. Di fatto la Rinunzia ha creato un’immensa confusione nel corpo ecclesiale e ha consegnato la Sede di Pietro al suo demolitore, il che vede comunque coinvolto Joseph Ratzinger.   Benedetto ricorse quindi all’invenzione del «Papato emerito», cercando, in violazione della prassi canonica, di tenere in vita l’immagine del «fine teologo» e del defensor Traditionis che il suo entourage aveva costruito. Peraltro, un’analisi delle vicende che riguardano l’epilogo del suo Pontificato è estremamente complessa sia in ragione delle peculiarità intellettuali e caratteriali di Ratzinger, sia per l’opacità dell’azione dei suoi collaboratori e della Curia, sia infine per l’assoluto ἅπαξ della Rinunzia, così come effettuata da Benedetto XVI, una modalità del tutto inedita mai prima verificatasi nella storia del Papato.   D’altra parte, questa parentesi di mozzette e camauri doveva eclissarsi con il passaggio delle consegne al già designato arcivescovo di Buenos Aires, candidato dalla Mafia di San Gallo a prendere il suo posto sin dal Conclave del 2005. Il ruolo di Benedetto XVI come Emerito ha avuto la funzione di affiancare una sorta di papato conservatore (munus) che vigilasse sul papato progressista di Bergoglio (ministerium), in modo da tenere insieme la componente moderatamente conservatrice ratzingeriana e quella violentemente progressista bergogliana, favorendo la percezione di una continuità tra il «papa emerito» e il «papa regnante».   In sostanza, si è trovato il modo di mantenere Benedetto in Vaticano, per far sì che la sua presenza entro le Mura Leonine apparisse come una forma di approvazione di Bergoglio e delle aberrazioni del suo «pontificato». Dal canto suo, l’argentino ha visto in questo monstrum canonico – perché tale è il «papato emerito» – uno strumento di destrutturazione del Papato in chiave conciliare, sinodale ed ecumenica; la qual cosa, come sappiamo, era condivisa dallo stesso Benedetto XVI. 

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Il «monstrum» canonico del Papato emerito 

Va detto che anche l’istituto dell’Episcopato emerito è un monstrum canonico, perché con esso il Vescovo diocesano si vede «congelare» la giurisdizione su base anagrafica (al raggiungimento del 75° anno di età), contro la prassi plurisecolare della Chiesa. L’emeritato, facendo venir meno nei Vescovi la coscienza di essere Successori degli Apostoli, ha avuto come immediata conseguenza anche una totale deresponsabilizzazione, relegandoli al ruolo di meri funzionari e burocrati.   Anche l’istituzionalizzazione delle Conferenze Episcopali come organismi di governo che interferiscono ed ostacolano l’esercizio della potestas dei singoli Vescovi, ha certamente costituito un attentato alla divina costituzione della Chiesa Cattolica e alla sua Apostolicità.   L’Episcopato emerito, introdotto subito dopo il Concilio nel 1966 con il Motu Proprio Ecclesiæ Sanctæ e poi acquisito dal Codice di Diritto Canonico del 1983 (can. 402, § 1), rivela una significativa coerenza con Ingravescentem ætatem del 1970, che priva i Cardinali settantacinquenni delle loro funzioni di Curia e quelli ottantenni del diritto di eleggere il Papa in Conclave.   Al di là della formulazione giuridica di queste leggi ecclesiastiche, se ne comprende la mens solo in un’ottica di deliberata esclusione dei Vescovi e dei Cardinali anziani dalla vita della Chiesa, volta a favorire il «ricambio generazionale» – un vero e proprio reset della gerarchia Cattolica – con Prelati ideologicamente più vicini alle nuove istanze promosse dal Vaticano II.   Questa epurazione artificiale della compagine più anziana dell’Episcopato e del Collegio Cardinalizio – e dunque presumibilmente meno incline alle innovazioni – ha finito per falsare gli equilibri interni alla gerarchia, secondo un’impostazione mondana e secolare già ampiamente adottata in ambito civile.   E quando, sotto il Pontificato di Giovanni Paolo II, le cosiddette «vedove Montini» – ossia i cardinali che negli anni Ottanta avevano raggiunto i limiti di età – chiesero la revoca di Ingravescentem ætatem per non essere escluse dal Conclave, divenne evidente che anche i progressisti degli anni Settanta erano ormai destinati a loro volta a finire vittime della norma che avevano invocato per altri: Et incidit in foveam quam fecit (Ps 7, 16).    Non sfuggirà che, in un’ottica di «ridefinizione» del papato in chiave sinodale, laddove il Vescovo di Roma sia considerato primus inter pares, l’istituzione dell’Episcopato emerito e le norme che limitano l’esercizio dell’Episcopato e del Cardinalato al raggiungimento di una certa età, costituiscono la premessa all’istituzionalizzazione del Papato emerito e alla giubilazione del Papa anziano. 

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Il falso problema di munus e ministerium

Dalla tesi del Papato (sono papa) in conflitto con l’antitesi della Rinunzia (non sono più papa) risulta un concetto in continuo divenire – come il divenire è l’assoluto per Hegel – ovverosia la sintesi del papato emerito (sono ancora Papa ma non faccio più il Papa).   Non si trascuri questo aspetto filosofico del pensiero di Joseph Ratzinger, che gli è precipuo e ricorrente: la sintesi è di per sé provvisoria, in vista di una sua mutazione in tesi a cui si contrapporrà una nuova antitesi che darà luogo ad un’ulteriore sintesi, a sua volta provvisoria. Questo incessante divenire è la base ideologica, filosofica e dottrinale della rivoluzione permanente inaugurata dal Concilio Vaticano II sul fronte ecclesiale e dalla Sinistra globale sul fronte politico.    Abbiamo dunque assistito a una sorta di separazione artificiale del Papato: da una parte il Papa rinunciava al Papato e dall’altra la persona papæ, Joseph Ratzinger, cercava di mantenerne alcuni aspetti che gli garantissero protezione e prestigio.   Siccome l’allontanamento fisico dalla Sede Apostolica poteva apparire come una forma di disapprovazione della linea di governo della Chiesa imposta dalla deep church bergogliana, tanto il Segretario personale quanto il Segretario di Stato fecero forti pressioni perché Ratzinger rimanesse «a mezzo servizio», per così dire, giocando sulla fittizia separazione tra munus e ministerium – peraltro vigorosamente smentita nella risposta dell’Emerito a mons. Bux.    Il prof. Enrico Maria Radaelli ha evidenziato nei suoi approfonditi studi che questa arbitraria bipartizione del mandato petrino tra munus e ministerium rende invalida la Rinunzia. Dal momento che il Primato petrino non può essere scomposto in munus e ministerium, essendo esso una potestas che Cristo Re e Pontefice conferisce a colui che è stato eletto per essere Vescovo di Roma e Successore di Pietro, la negazione di Ratzinger (nella citata lettera) di non aver voluto scindere munus e ministerium è in contraddizione con l’ammissione dello stesso Benedetto di aver impostato il Papato emerito sul modello dell’Episcopato emerito, che appunto si basa su questa artificiosa e impossibile scissione tra essere e fare il Papa, tra essere e fare il Vescovo.   L’absurdum di questa divisione è evidente: se fosse possibile possedere il munus senza esercitare il ministerium, dovrebbe essere parimenti possibile esercitare il ministerium senza possedere il munus, ossia svolgere le funzioni di papa senza esserlo: la qual cosa è un’aberrazione tale da inficiare radicalmente il consenso all’assunzione del Papato stesso.   E in un certo senso questa dicotomia surreale tra munus e ministerium l’abbiamo vista concretizzata, quando l’Emerito era papa ma non esercitava il papato, mentre Bergoglio faceva il Papa senza esserlo.

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La desacralizzazione del Papato

D’altronde, il processo di desacralizzazione del Papato iniziato con Paolo VI (pensiamo alla scenografica deposizione del triregno) è proseguito senza soluzione di continuità anche sotto il Pontificato di Benedetto XVI (che ha rimosso la tiara anche dallo stemma papale).   Ciò è da attribuirsi precipuamente alla nuova ecclesiologia ereticale del Vaticano II, che ha fatto proprie le istanze della società secolarizzata e «democratica» accogliendo in seno alla Chiesa concetti quali la collegialità e la sinodalità che le sono ontologicamente estranei, stravolgendo così la natura monarchica della Chiesa voluta dal suo divino Fondatore. Lascia certamente interdetti e immensamente addolorati vedere con quanto zelo la gerarchia conciliare e sinodale si sia fatta promotrice della sovversione in seno alla Chiesa Cattolica. Una sequenza di riforme, norme e pratiche pastorali da oltre sessant’anni demoliscono sistematicamente ciò che sino a prima del Vaticano II era considerato intangibile e irriformabile.    Va anche ricordato che la Rinunzia di Benedetto XVI non è stata seguita da un normale Conclave, nel quale gli Elettori hanno scelto serenamente il candidato alla successione sul Soglio di Pietro; ma da un vero e proprio colpo di Stato compiuto ex professo dalla Mafia di San Gallo – ossia dalla componente eversiva infiltratasi nella Chiesa nel corso dei decenni precedenti – mediante la manomissione e violazione del regolare processo elettivo e il ricorso a ricatti e pressioni sul Collegio Cardinalizio.   Non dimentichiamo che un eminente prelato ha confidato a conoscenti che ciò a cui aveva personalmente assistito in Conclave poteva pregiudicare la validità dell’elezione di Jorge Mario Bergoglio. Anche in questo caso, incomprensibilmente, il bene della Chiesa e la salvezza delle anime sono stati messi da parte, in nome di una farisaica osservanza del segreto pontificio, forse non del tutto scevra da ricatti e minacce.   Vi è un’evidente contraddizione tra lo scopo che Benedetto si prefiggeva (cioè: rinunciare al papato) e il mezzo che egli ha scelto per farlo (basato sull’invenzione del Papato emerito). Questa contraddizione, in cui soggettivamente Benedetto si è dimesso ma oggettivamente ha prodotto un monstrum canonico, costituisce un atto così sovversivo da rendere nulla e invalida la Rinunzia.   A suo tempo questa contraddizione dovrà essere sanata da un pronunciamento autoritativo, ma rimane il fatto ineludibile che la forma in cui è stata posta la Rinunzia non toglie le successive irregolarità che hanno portato Bergoglio ad usurpare il Soglio di Pietro con la complicità della deep church e del deep state. Né è possibile pensare che la Rinunzia non debba essere letta alla luce del piano eversivo che mirava ad estromettere Benedetto XVI per sostituirlo con un emissario dell’élite globalista.    Il castello di menzogne cui cooperano laici, sacerdoti e prelati, anche in buona fede, rimane una gabbia nella quale essi si sono imprigionati.   Nella drammatizzazione mediatica, gli attori Ratzinger e Bergoglio ci sono stati presentati come portatori di teologie antitetiche, quando in realtà essi rappresentano due stadi successivi del medesimo processo rivoluzionario. Ma l’apparenza, il simulacro su cui si basa la comunicazione di massa non può sostituire la sostanza di Verità cui è indefettibilmente tenuta la Chiesa Cattolica per mandato divino. 

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Conclusione

Ai tantissimi fedeli scandalizzati, ai molti sacerdoti e religiosi confusi e indignati, ai pochi – almeno per ora – che levano la voce per denunciare il golpe perpetrato ai danni della Santa Chiesa dai suoi stessi Ministri, rivolgo il mio incoraggiamento a perseverare nella fedeltà a Nostro Signore, Sommo ed Eterno Sacerdote, Capo del Corpo Mistico.   Resistete forti nella fede, ci ammonisce il Principe degli Apostoli (1 Pt 5, 9), sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le vostre stesse sofferenze. Il sonno nel quale il Salvatore sembra ignorarci mentre la Barca di Pietro è sconquassata dalla tempesta, deve essere per noi uno sprone ad invocare il Suo aiuto, perché solo nel momento in cui ci rivolgeremo a Lui, lasciando da parte rispetti umani, teorie inconsistenti e calcoli politici, Lo vedremo destarSi e comandare ai venti e al mare di placarsi.   Resistere nella fede richiama il combattimento per rimanere fedeli a ciò che il Signore ha insegnato e comandato, proprio nel momento in cui molti, soprattutto ai vertici della gerarchia, Lo abbandonano, Lo rinnegano e Lo tradiscono.   Resistere nella fede implica il non venir meno nel momento della prova, sapendo attingere in Lui la forza per superarla vittoriosi.   Resistere nella fede significa infine saper guardare in faccia la realtà della passio Ecclesiæ e del mysterium iniquitatis, senza cercare di dissimulare l’inganno dietro il quale si nascondono i nemici di Cristo   Questo è il senso delle parole del Salvatore: Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi (Gv 8, 32).   + Carlo Maria Viganò Arcivescovo   30 Novembre 2024, Andreæ Apostoli

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