Bioetica
Verso la società della discriminazione genetica

Lo scorso 8 maggio sono stata invitata da Francesca Quibla, Jean Toschi e altri amici dell’Associazione per un Mondo senza Guerre di Milano, a vedere e commentare insieme il film Gattaca – La porta dell’universo, inserito in un ciclo di cineforum a tema distopie. Li ringrazio di cuore per la loro accoglienza, per la bella serata che mi hanno regalata. Di seguito, alcuni degli spunti che ho proposto al pubblico presente, elaborati insieme al fondatore di Renovatio 21 Roberto Dal Bosco, con cui da anni – da prima che ci fosse Renovatio 21 – scriviamo, praticamente unici, su questi temi.
Elisabetta Frezza
Gattaca è una pellicola di Andrew Niccol, del 1997. Iconograficamente evoca i disegni di Tamara De Lempicka (1898-1980): l’Autoritratto sulla Bugatti verde dell’artista sembra l’Uma Thurman che vediamo nel film.
«Gattaca», parola ottenuta dalla combinazione delle lettere dell’alfabeto genomico che identificano le nucleobasi del DNA, è il nome dell’ente aerospaziale che nell’intreccio organizza missioni interplanetarie. Entrare a Gattaca per fare l’astronauta è da sempre il sogno di Vincent, che fin da piccolo studia e si allena per avverarlo.
In una società rigidamente divisa tra umanoidi prodotti in laboratorio e geneticamente programmati (i cosiddetti «validi», candidati a ricoprire ruoli di prestigio) e umani concepiti naturalmente («invalidi», o «fanciulli di Dio», destinati a svolgere le mansioni più umili), Vincent appartiene alla seconda specie e dunque, sulla carta, il suo sogno è destinato a rimanere tale, tanto più che alla nascita gli è diagnosticata una grave menomazione cardiaca.
I suoi genitori, per il loro secondogenito, scelgono la strada della riproduzione artificiale: Vincent avrà quindi un fratello «valido», Anton, il prediletto, la rivalità con il quale si manifesta in ricorrenti gare di resistenza a nuoto, in mare aperto.
Diventato grande, Vincent se ne va di casa e si fa assumere a Gattaca come addetto alle pulizie. Per opera di uno strano intermediario, gli viene offerta l’occasione di fingersi «valido» tramite un complesso raggiro che mira a sfruttare l’identità genetica di un suo coetaneo nato perfetto (Jerome, che diventerà Eugene) e diventato paraplegico a seguito di un incidente.
Vincent allora, sotto le mentite spoglie di Jerome, sarà finalmente selezionato come ricercatore a Gattaca.
Subito si distingue per la sua bravura, acquisita grazie allo sforzo profuso in tanti anni di studio e di allenamento. Si innamora, ricambiato, di Irene, una compagna di corso, «valida» ma anche lei affetta da un problema cardiaco. Eccetera.
Bisogna dire subito che, come molte altre trame distopiche, compresi i grandi classici come Orwell e Huxley, Gattaca nella realtà è già retroguardia.
In esergo, nei primi fotogrammi, compare una citazione di Willard Gaylin: «Osserva l’opera di Dio. Chi può raddrizzare ciò ch’Egli ha fatto storto? (Ecclesiaste 7:13). Non penso solamente che interferiremo con madre natura. Ma anche che lei lo voglia».
Gaylin è uno dei fondatori della bioetica moderna, che altro non è se non un ufficio permessi fatto per apporre il timbro di moralità sopra tutti i nuovi traguardi della tecnica. Questo, non altro, è il ruolo del CNB, Comitato Nazionale di Bioetica.
Il tema centrale intorno al quale ruota tutto il film è l’eugenetica. E l’effetto «naturale» delle pratiche e della cultura eugenetiche: la divaricazione tra i geneticamente superiori (prodotti in vitro, o validi) e i naturali (uterini, nati per fede, o non-validi).
Il film ammette tuttavia l’esistenza di una striscia di terra di mezzo: infatti, per chi è superiore geneticamente il successo è sì più facile, ma non è garantito. Dopotutto, «non esiste il gene del destino» (c’è chi resta invalido, come Jerome) e «non esiste il gene della perfezione» (la patologia di Irene). Vincent, dal canto suo, rientra nella categoria dei «pirati genetici» (come si chiama chi rifiuta di giocare con le carte che ha avuto in sorte), altrimenti detti «de-generati».
I fabbricati in vitro come Anton, Jerome, Irene, non hanno mai provato la discriminazione. Subiscono però il peso di un altro fardello, il fardello della perfezione.
A questo proposito, ricordiamo un episodio salito agli onori delle cronache americane (nelle colonne del New York Times) nel 2016, sui cosiddetti «embrioni mosaico». Sono stati battezzati così quegli embrioni da fecondazione artificiale (circa il 20 per cento, si è scoperto, della totalità di quelli prodotti in laboratorio) formati da un misto di cellule (in apparenza) anormali insieme ad altre (in apparenza) normali in base agli esiti dello screening genetico preimpianto (PGS), che determina la scelta di chi passa o non passa le eliminatorie alla gara della vita: di chi, cioè, ha possibilità di essere impiantato in utero oppure no.
Si è scoperto che questi embrioni imperfetti, normalmente soggetti alla rupe tarpea (sotto forma di congelamento sine die, sentenza di morte edulcorata), sono in grado, se impiantati in utero, di riparare da se medesimi le proprie anomalie iniziali, ed essere bimbi sani alla nascita: realtà che, alla fine, nega i presupposti su cui si fonda la Procreazione Medica Assistita stessa, visto che è stato verificato che l’embrione brutto viene fuori un bambino normale.
Gli scienziati sono rimasti stupiti, perché non avevano mai provato a dar seguito a una gravidanza con un embrione mosaico. In quel caso, la richiedente era ormai attempata al punto da non poter affrontare un ulteriore ciclo di stimolazione ovarica e aveva scelto di rischiare l’impianto di un embrione imperfetto, sapendo di potersi giocare, semmai, la carta dell’aborto. Il bimbo è nato sano.
Ciò ha dimostrato la demenza totale della comunità scientifica, che non ha capito nulla della vita e dunque non ha nessuna fiducia nella vita. Che si butta, bendata, nelle sperimentazioni di massa (e ne sappiamo qualcosa).
La visione meccanicistica della scienza medica pensa all’uomo come a una macchina. E le macchine rotte sono complicate da aggiustare, meglio buttare via un prodotto difettato. Invece la vita aggiusta tutto. La vita è in grado di ripararsi in modi sempre più sorprendenti, fa cose che gli scienziati non sono nemmeno lontanamente in grado di spiegare.
La scienza non ha capito la forza che ha la vita nei primi momenti della sua formazione (le staminali embrionali sono cellule che sanno fare tutto).
Lo scienziato che scarta un embrione mosaico non sa cosa potrebbe saltare fuori. In realtà nessuno di noi sa se era un embrione mosaico, oppure no.
Nell’articolo del NYT si riferiva anche come il dottor Norbert Gleicher, direttore del centro per la riproduzione umana di New York, si chiedesse se non fosse opportuno riflettere su questo: se cioè un campione casuale formato da una decina di cellule prelevate così precocemente per la biopsia preimpianto possa essere rappresentativo dell’intero embrione e parametro unico in base al quale decidere le sorti dello sviluppo fetale successivo.
Colpisce lo stupore diffuso di tutti questi signori, molto esperti, che in realtà nulla sanno di ciò che stanno facendo, e ce lo dimostrano in continuazione.
Tornando al film. I genitori del protagonista sembrano inizialmente dei dissidenti rispetto alla forma mentis eugenetica: per scelta, infatti, concepiscono il primogenito nell’amore. Ma poi diventano anche loro facili vittime della pressione dei pari: il funzionario della clinica della riproduzione li blandisce, mostra loro il lato seducente della riprogenetica, e presto fa a convincerli a non affidare al caso il secondo figlio.
Stupisce come arrivino a interiorizzare talmente il nuovo paradigma da riprodurre essi stessi la dicotomia gerarchica all’interno della famiglia: un figlio superiore e l’altro inferiore. Se la società ti dice di emarginare Calimero, ci si persuade ad emarginare Calimero, lo fanno persino mamma e papà.
«La discriminazione è reato, si chiama genosoìsmo – spiega la voce narrante nel film – ma tutti se ne infischiano della legge. Ora la discriminazione è elevata a sistema».
La discriminazione dunque, benché sia illegale, è eretta a sistema.
Ora, è innegabile che alle prove generali di questa precisa operazione noi abbiamo già assistito, e che la massa le abbia accettate.
Alla base della certificazione verde stava esattamente questa divisione della popolazione, che ricalca la biforcazione tra i geneticamente arricchiti e i naturali: solo quanti accettano un trattamento a base genica possono entrare al bar; senza quel marchio non solo non vai al bar, ma non lavori, e quindi fai la fame, e sei indegno di appartenere al consesso sociale in quanto disobbediente, sovversivo, civicamente ineducato, organoletticamente repellente.
Il Tinder dei non vaccinati è stato censurato ed escluso dall’Apple store, ma per il Tinder genetico in cantiere nessuno fiata. Sono segnali eloquenti di come la società sia già pronta, anche a livello di grande capitale, per creare due classi e far prevalere quella che accetterà il controllo genetico come suo principio ordinatore. La piattaformazione della vita dell’individuo farà sì che sarà lo stato a dirti se potrai fare un figlio con l’uno o con l’altro. La piattaforma con i tuoi dati diventerà un super don Rodrigo: questo matrimonio s’ha o non s’ha da fare.
Ma quello del GP è stato solo l’aspetto più appariscente di una deriva che viene da molto lontano e che ha mille facce più o meno appariscenti.
La società è eugenetica in senso più profondo: pratica l’aborto seriale dei bambini down (l’Islanda può vantarsi di essere down free, l’Emilia-Romagna sta introducendo i test non invasivi prenatali con cui si possono eliminare preventivamente i difettati); pratica la FIVET, che significa cinquant’anni di eugenetica attiva legalizzata e finanziata nei LEA. Eugenetica di Stato.
L’eugenetica non si è esaurita con Hitler, ma precede Hitler ed è continuata dopo di lui sottoforma di eugenetica borghese. Il modello hitleriano era operativo negli USA delle leggi eugenetiche – segregazione razziale; sterilizzazione legalizzata di alcune categorie di persone ritenute, per arbitrio della autorità, inadatte alla riproduzione.
Gli stessi poteri che l’hanno finanziata in America nei primi del Novecento hanno finanziato anche Hitler. Un nome tra tutti, sempre sulla cresta dell’onda eugenetica (tuttora): Rockfeller.
I sostenitori e propalatori della ideologia hitleriana, di fatto, la guerra l’hanno vinta. La Seconda Guerra mondiale è stata una guerra geopolitica e non bioetica. Geopoliticamente ha avuto un certo esito, bioeticamente l’esito opposto.
«Lo stadio finale (della conquista della Natura da parte dell’uomo) giungerà quando l’Uomo, attraverso l’eugenetica, il condizionamento pre-natale, e una istruzione e una propaganda basate su una perfetta psicologia applicata, avrà raggiunto il pieno controllo su se stesso».
«La natura umana sarà l’ultima parte della Natura ad arrendersi all’Uomo. […]. Avremo “preso il filo della vita dalle mani di Cloto” e saremo quindi liberi di fare della nostra specie qualsiasi cosa vogliamo».
«…i plasmatori d’uomini della nuova epoca saranno armati dei poteri di uno stato onnicompetente e di una irresistibile tecnica scientifica: avremo una razza di Condizionatori che potranno davvero modellare la posterità nelle forme che vogliono».
Era il 1943 quando Lewis scriveva queste parole nel suo saggio intitolato L’abolizione dell’uomo.
Lo «stadio finale» del «pieno controllo su se stesso» da parte dell’uomo è quasi arrivato ottant’anni dopo.
Sono menzionate due armi a disposizione dei cosiddetti plasmatori d’uomini: i «poteri di uno Stato onnicompetente» e una «irresistibile tecnica scientifica».
Fiutando il vento totalitario che soffiava forte nella sua epoca, studiando i flussi della turbolenza, Lewis era riuscito a intuirne il prevedibile sbocco: il dominio dell’uomo sull’uomo – dell’uomo più forte nei confronti del suo simile più debole e privo di difese – porta fino all’annientamento dell’uomo, o meglio alla sua sostituzione. Con qualcosa di apparentemente uguale, di antropomorfo, ma ontologicamente altro da sé.
Dopo un paio di anni, nel 1945, Lewis torna sul punto, in un dialogo tra due protagonisti del romanzo Quell’orribile forza, dove si legge:
«…”Certi uomini devono farsi carico di tutti gli altri, il che è un ulteriore motivo per trarne tutto il vantaggio possibile, appena si può“. “Cose semplici e ovvie, tanto per cominciare…la sterilizzazione dei disabili, l’eliminazione delle razze arretrate (non vogliamo pesi morti), la riproduzione selettiva. Poi l’educazione vera, compresa l’educazione prenatale. Per vera educazione intendo un’educazione che non ammetta pressapochismi. La vera educazione infallibilmente trasforma chi la subisce in ciò che essa si prefigge, senza che il soggetto in questione o i suoi genitori possano farci nulla. Naturalmente si tratterà, all’inizio, di un influsso soprattutto psicologico. Ma alla fine arriveremo al condizionamento biochimico e alla diretta manipolazione del cervello“. “Ma è una cosa stupenda, Feverstone!“. “Quello che conta, finalmente. Un tipo nuovo di uomo; e sono le persone come lei e come me che devono cominciare a costruirlo“».
Un tipo nuovo di uomo. Da costruire dal nulla, oppure da de-costruire, manipolare e in qualche modo ricreare. Insomma, da re-settare. Un termine che va molto di moda. Si può dire anzi che il reset sia la cifra di questa fase storica.
Fatto sta che oggi quell’«irresistibile tecnica scientifica» (al riparo dei poteri di quello «Stato onnicompetente») ha avuto accesso a ogni parte della natura umana, compreso il suo linguaggio più interiore. È arrivata fino a manomettere il suo codice fondamentale, la sua struttura più profonda: il genoma. Il salto quantico, letteralmente apocalittico, era già preparato da tempo, ma lo shock dell’emergenza ha contribuito, in modo decisivo, a tramutarlo in fenomeno massivo.
La FIVET – che poi, più prosaicamente, non è altro che il grande affare della provetta – ha potuto attecchire ed evolvere indisturbata perché presentata al pubblico dietro la sempre attraente maschera della vita. Consegnare a chi lo desideri il cosiddetto «bimbo in braccio» è unanimemente visto come una azione positiva in ogni senso possibile, perché da un lato buona e caritatevole verso il desiderante, dall’altro foriera di un evento tenero e gioioso quale è sempre la nascita di un bambino.
Ma questa pratica è servita come un’autostrada per sdoganare e gradualmente normalizzare quelle pratiche biotecnologiche, tributate dalla zootecnia, che sono, per definizione, inscritte in un orizzonte eugenetico: è in questo orizzonte infatti che domanda e offerta si incontrano. Per una questione di logica invincibile.
Se io, aspirante genitore, ordino un bambino e affronto l’oneroso (non solo economicamente, ma anche fisicamente e psicologicamente) iter necessario per procurarmelo, e a un certo punto mi viene prospettata o consegnata una creatura portatrice di qualche difetto o priva degli optional richiesti, è un problema. Tendo a percepirla, come si dice in materia di contratti, un aliud pro alio, qualcosa di diverso da quanto convenuto, e dunque tendo a rifiutarla, magari a volerla rispedire al mittente, fare un reso insomma.
E infatti spesso nella pratica accade che – per paradosso rispetto all’amorevole slancio iniziale – queste procedure sfocino o in un aborto volontario o nell’abbandono del neonato nel caso si manifesti in itinere un qualche tipo di imprevisto.
Commissionando un figlio alla tecnica – perché il progresso me ne dà facoltà e lo Stato me ne riconosce il «diritto» – non contemplo vizi o errori di fabbricazione, maturo persino inconsciamente la pretesa (non solo la speranza) del figlio perfetto. Mi immetto nel mercato e, volente o nolente, entro nell’ordine delle idee mercatista.
La scienza mi illude cioè di poter azzerare l’alea connessa con la roulette russa della natura.
Robert Edwards – che fu il pioniere della fecondazione artificiale, vincitore del Nobel per la medicina nel 2010 in qualità di «padre» di Louise Brown la prima figlia della provetta, nata nel 1978 – sosteneva senza reticenze questa pulsione eugenista, e apertamente la cavalcava nel pubblicizzare le proprie invenzioni faustiane:
«Quando la gente dice che la diagnosi preimpianto è costosa, rispondo sempre: qual è il prezzo di un bambino disabile che nasce? Qual è il costo che ognuno deve sopportare? È un prezzo terribile per tutti, e il costo economico è immenso. Per una diagnosi preimpianto, a confronto, servono davvero pochi soldi».
Ma abbiamo visto cosa si è scoperto, per puro caso, con gli embrioni mosaico. Il fatto è che l’agenda stabilisce di far slittare la procreazione da fatto naturale a fatto sintetico e tra gli embrioni prodotti artificialmente bisogna procedere a una selezione, con criteri per forza di cose del tutto arbitrari.
In altre parole, la procreazione deve de-sessualizzarsi – il sesso viene relegato a funzione meramente ricreativa, ma sterile – e spostarsi verso il paradigma della «fertilizzazione», proprio come nella zootecnia. Con relative selezioni e manipolazioni pre e post impianto.
Ma cosa significa, di fatto, questo cambio di paradigma? Significa una cosa enorme, ma che quasi nessuno è disposto a vedere: significa che il rubinetto della vita – e anche la cassetta degli attrezzi per aggiustarla, ripararla, sistemarla – passa nelle mani del potere farmaceutico. Che vuol dire, poi, dei filantropi che lo governano e che, in questo modo, divengono detentori del potere di vita o di morte, e di sperimentazione infinita, su una fetta sempre più ampia del genere umano.
E la vita, per dirsi degna di essere vissuta, deve rispondere a determinati standard di qualità (senza porsi il quesito di chi stabilisca il metro di misura della sua qualità).
Per questa via l’uomo viene gradualmente sostituito dal prodotto fabbricato in laboratorio e, mano a mano che la riprogenetica evolve, il modello diventa sempre più avanzato.
L’ultimo progresso della bioingegneria si chiama CRISPR (cioè l’editing genetico, il taglia e cuci molecolare con cui vengono sostituiti dei geni, i cosiddetti geni bersaglio, e poi viene ricucita la catena del DNA) e serve a programmare i connotati dell’essere umano nella fase che precede l’impianto dell’embrione, oppure a correggerli poi. Ancora una volta, su modello zootecnico.
Li abbiamo già, i bambini geneticamente modificati, tipo le famose gemelline cinesi, nate nel 2019 AIDS-free (immuni all’HIV) con la tecnica CRISPR, promossa da Bill Gates con investimenti ultramilionari. L’esistenza delle super gemelle cinesi inattaccabili all’HIV prefigura un mondo dove il bambino verrà migliorato sia dal punto di vista immunitario sia dal punto di vista fisico e intellettuale.
Un genetista di Harvard lo ha detto a chiare lettere che «fare il bambino con la bioingegneria sarà come vaccinarlo». Del resto, l’università era solo per i vaccinati. Un giorno diventerà solo per i geneticamente modificati, come in Gattaca?
La provetta – questo cantiere prenatale della vita – diventa come una sorta di vaccino preventivo incorporato nel procedimento di fabbricazione del manufatto umano, in modo che il prodotto sotto forma di bambino possa essere consegnato all’aspirante genitore insieme al relativo certificato di garanzia: immune all’HIV tanto per cominciare, ma un domani immune al morbillo, o anche, per esempio, dotato di ossa indistruttibili, o di orecchio assoluto, o di intelligenza matematica.
Sir Richard Dawkins, altro genetista di grido, nel 2006 diceva che è lecito chiedersi, essendo ormai passati sessant’anni dalla morte di Hitler, quale sia la differenza morale tra il generare esseri con abilità musicali, e il costringere un bambino a prendere lezioni di musica. O tra l’allenare corridori veloci o saltatori in alto, e riprodurli. Insomma, si fa prima a fabbricarli direttamente così, con attitudine incorporata, si evita una faticaccia.
Poiché il CRISPR si candida a diventare la porta attraverso cui, prima o dopo la nascita, più o meno tutti devono passare, chi per riprodursi rifiuterà gli alambicchi del laboratorio e preferirà i soliti vecchi metodi naturali, diventerà non solo un retrogrado da compatire, uno che ripudia la scienza, ma anche un egoista da contrastare, visto che oggi il progresso offre la possibilità di procurarsi designer babies da catalogo, chiavi in mano e in garanzia.
Il solito Edwards lo preconizzava compiaciuto, che «presto sarà colpa dei genitori avere un bambino portatore di disordini genetici». Vale a dire che, nella sua testa, la normalizzazione della provetta doveva portare verso la demonizzazione della generazione naturale.
Ha fatto proseliti costui, perché il nostro ministero della salute qualche anno fa, in occasione del lancio del cosiddetto Fertility Day (una trovata della Lorenzin applaudita dall’episcopato e dalle sue propaggini associative, movimenti vari «per la vita»), diceva che la FIVET, «nata come risposta terapeutica a condizioni di patologia specifiche e molto selezionate, sta forse assumendo il significato di un’alternativa fisiologica». Da eccezione a norma. Poi è un attimo passare dall’alternativa fisiologica alla scelta obbligata, Overton è sempre con noi.
Sta di fatto che stiamo allegramente consegnando ai signori di Big Pharma il controllo di qualità e di quantità sulle nostre vite.
L’obiettivo vero, ben nascosto dietro gli slogan accattivanti e i fiocchi rosa e azzurri, è appunto la desessualizzazione della procreazione e la sua artificializzazione, connessa con la selezione eugenetica della specie.
In sostanza, siamo di fronte all’apoteosi della reificazione e mercificazione dell’uomo, diventato un prodotto come un altro, col suo codice a barre, da comprare negli scaffali del supermercato, da consumare e, nel caso, da buttare via.
Ora, credo sbaglieremmo a pensare che lo sviluppo e la diffusione massiva della fabbrica della vita non abbiano nulla a che fare con lo sviluppo e la diffusione massiva della nuova generazione di farmaci a mRNA. Questi, alla fine, si basano su una formula bioinformatica capace di interferire col materiale genetico della cellula, ricondizionando il suo DNA e intaccando quindi la linea germinale umana.
CRISPR e mRNA sono le due direttrici attraverso le quali si realizza la transizione verso una nuova concezione della medicina, da chimica a genica. Il COVID ha fatto da acceleratore in questa transizione, rendendo eugenismo e transumanesimo fenomeni di massa. Il che implica lo sconvolgimento dell’assetto biologico, dotato di un equilibrio insondabile ed esclusivo, che la natura consegna a ciascun individuo.
Big Pharma, in altre parole, intraprende la scalata per acquisire il controllo del nostro corpo, visto come ultima interfaccia computazionale, col risultato che esso perde la capacità di autogestire le proprie funzioni vitali, e anche di autoripararsi, per dipendere da un azionista alieno. D’altra parte, era il 1996 quando Bill Gates diceva che «il gene è il software più sofisticato che ci sia», dimostrando con ciò di avere ben presente la meta: un «modestissimo» programma di controllo del mondo attraverso l’informatica della vita.
E così come domani sarà demonizzata la procreazione naturale a vantaggio di quella sintetica, lo stesso è già avvenuto con i farmaci a mRNA: chi, in omaggio a un elementarissimo principio di precauzione, non voglia cedere il proprio corpo alla sperimentazione, è istericamente additato come nemico della scienza, attentatore della salute della collettività, nemico dell’umanità (ma, a questo punto, è lecito chiedersi: quale umanità?).
Ma l’uomo non è padrone della vita, la convinzione di esserlo è un’idea satanica. Prima o poi, tutti gli esperimenti eugenetici fanno una brutta fine perché la natura, prima o poi, presenta il conto.
L’eugenetica è un processo perverso destinato a divorare se stesso.
Elisabetta Frezza
Bioetica
Morte cerebrale, trapianti, predazione degli organi, eutanasia: dai criteri di Harvard alla nostra carta d’identità

Renovatio 21 pubblica la relazione del nostro collaboratore Alfredo De Matteo alla Conferenza «Il Dramma dell’eutanasia» organizzata da Federvita Piemonte a Torino lo scorso 11 ottobre.
Il tema che mi è stato assegnato è molto vasto e pieno di implicazioni mediche, giuridiche, etiche e filosofiche ed è pertanto molto difficile condensarlo nel tempo previsto per un singolo intervento. Mi perdonerete se tratterò questioni complesse in maniera non esaustiva, ma spero comunque che la mia esposizione risulti chiara, soprattutto nelle sue conclusioni.
Prima di affrontare lo spinoso tema della morte cerebrale e dell’espianto di organi vitali credo sia opportuno definire il concetto di «morte». Tradizionalmente, essa viene identificata con la cessazione di tutte le funzioni vitali di un organismo, che sono essenzialmente riconducibili a tre: sistema nervoso, respiratorio e circolatorio, ossia la cosiddetta tripode vitale. Tuttavia, la morte non è un evento che può essere osservato nel momento in cui si verifica ma solamente a posteriori, ossia dopo che essa è già avvenuta.
In altre parole, per avere la certezza dell’avvenuto decesso di un essere umano è necessario che vengano riscontrati sul cadavere i segni inequivocabili della morte, ossia l’inizio del processo di decomposizione del corpo: l’algor mortis (il raffreddamento del corpo), il rigor mortis (la rigidità cadaverica) e il livor mortis (il ristagno e la coagulazione del sangue). Tali segni rappresentano il punto di non ritorno alla vita.
La morte infatti è un evento complesso poiché l’uomo, in virtù dell’unione sostanziale con un’anima spirituale, non è un semplice agglomerato di organi, tessuti e funzioni né il suo principio vitale può essere ridotto alla funzionalità dei suoi organi o di un singolo organo. È possibile ritenere certamente viva una persona cosciente e certamente morto un corpo putrefatto o allo stato iniziale della putrefazione. La morte, intesa come il distacco dell’anima dal corpo, è collocabile nello spazio temporale compreso tra questi due stati. Un terzo stato dell’essere tra la vita e la morte, semplicemente, non esiste.
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La civiltà occidentale nel corso dei secoli ha uniformato il suo diritto e la sua morale alla tradizione filosofica secondo cui l’essere umano è composto, appunto, di anima e corpo e ha nell’anima razionale il principio vitale che lo caratterizza. È bene ribadire che questo principio vitale di natura spirituale, pur essendo nel corpo, non si trova nel cuore, nel cervello né in qualsiasi altro organo, tessuto o funzione.
Ciò che sostanzia l’uomo non è dunque l’intelletto, né l’autocoscienza e neppure l’interazione sociale, come ci vogliono far credere, bensì l’anima razionale che contiene in potenza l’uso di tutte queste funzioni. La vita umana inizia con l’infusione dell’anima nel corpo e termina con la separazione da esso, nel momento in cui l’organismo si dissolve nei suoi elementi.
I casi di morte apparente, ossia di ritorno alla vita dopo diverse ore in cui sono scomparse tutte le manifestazioni vitali, stanno a dimostrare che fra il momento della morte accertata e quella reale esiste sempre e comunque un periodo più o meno esteso di vita latente.
A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, l’avvento delle moderne tecniche di rianimazione ha permesso di salvare la vita di un gran numero di persone destinate a morte certa. In particolare, la ventilazione artificiale ha consentito di supportare la respirazione di tutti quei pazienti che sono parzialmente o totalmente incapaci di respirare spontaneamente.
Tuttavia, la diffusione in ambito ospedaliero di queste nuove procedure rianimatorie ha sollevato la questione di cosa fare con tutte quelle persone che sopravvivono grazie ad esse ma che non mostrano, almeno apparentemente, alcun segno di attività cerebrale e la cui prognosi risulta infausta. Parallelamente, proprio in quegli anni, alcuni chirurghi cominciarono a sperimentare la tecnica dei trapianti di organi.
Figura di spicco in questo ambito fu l’ambizioso chirurgo sudafricano Christiaan Barnard, il quale nel 1959 riuscì a portare a termine il primo trapianto di rene in Sudafrica dopo che esso era già stato effettuato con successo negli Stati Uniti nel 1953. Barnard sperimentò per anni, in gran segreto, il trapianto di cuore sugli animali, cercando di affinare la tecnica.
Il primo trapianto di cuore al mondo venne effettuato il 3 dicembre 1967: il cuore di Denise Darvall, una giovane donna caduta in coma considerato irreversibile, venne impiantato nel corpo di un atleta lituano affetto da una grave patologia cardiaca e prese a funzionare regolarmente. Il ricevente l’organo morì dopo soli 18 giorni a causa di una grave polmonite, ma la notizia fece comunque il giro del mondo e Barnard divenne una stella di fama internazionale. A questo punto però, c’era da risolvere il problema legale legato ai trapianti di organi vitali. Infatti, i chirurghi e le équipe mediche che effettuavano tali interventi correvano il rischio di venire incriminati per omicidio in quanto gli organi venivano prelevati a cuore battente e dunque da soggetti ancora in vita.
A tale scopo la comunità scientifica internazionale convocò, nel 1968, una commissione ad hoc, la famosa commissione di Harvard, composta da un certo numero di professionisti di diversa estrazione (tra costoro figurava anche uno storico), che venne incaricata di redigere un nuovo criterio di morte, basato sulla cessazione di tutte le funzioni encefaliche. La commissione stabilì, nell’agosto di quell’anno, che potevano essere dichiarate decedute non solamente le persone che non presentavano più alcun segno vitale ma anche quelle le cui sole funzioni cerebrali risultavano irrimediabilmente e irreversibilmente compromesse.
In pratica, l’escamotage utilizzato della comunità scientifica internazionale fu quello di dichiarare morte le persone ancora vive.
La commissione non presentò, di fatto, alcun argomento decisivo a supporto della nuova definizione di morte (del resto come avrebbe potuto?). Furono gli stessi membri del comitato di Harvard ad ammetterlo attraverso le seguenti dichiarazioni: «il peso è più grande per i pazienti che soffrono della perdita permanente dell’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali, e per quanti hanno bisogno di posti letto già occupati da altri pazienti comatosi (…) Criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto».
Dunque, l’introduzione del criterio della morte cerebrale o encefalica non fu il risultato di una riflessione teorica e filosofica sulla morte, ma piuttosto della volontà di risolvere due esigenze di natura pratica: contenere il numero dei pazienti bisognosi di cure adeguate a lungo termine e legittimare l’espianto degli organi vitali.
Passiamo ora ad analizzare le principali criticità di un costrutto artificiale che, è bene ricordare, non è mai stato validato da un punto di vista scientifico ma che anzi si pone sfacciatamente contro l’evidenza dei fatti.
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Innanzitutto, esso si basa sulla tesi secondo cui il principio vitale dell’uomo risiede nel cervello. Sulla base di tale assunto, questo meraviglioso e complesso organo rappresenterebbe, per così dire, la centralina che regola il funzionamento dell’organismo umano. Un cervello le cui funzioni sono totalmente e irrimediabilmente compromesse decreterebbe la fine dell’essere umano come un insieme integrato. In quest’ottica, i segni vitali ancora presenti nell’individuo dichiarato cerebralmente morto costituirebbero dei meri riflessi e/o funzioni mantenute in maniera artificiale mediante il supporto farmacologico o l’ausilio di macchinari.
Tuttavia, non si capisce come possa un organismo completamente disgregato, un ammasso di organi senza più alcun coordinamento centrale, mantenere inalterate praticamente tutte le funzioni di base. Ad esempio, sia il sistema metabolico che quello immunitario dei pazienti dichiarati cerebralmente morti risultano perfettamente funzionanti. Il presunto cadavere conserva responsività agli stimoli e può anche mostrare dei movimenti spontanei come il cosiddetto fenomeno di Lazzaro, durante il quale egli compie dei movimenti anche ben coordinati che lasciano supporre il coinvolgimento del cervelletto e delle aree superiori dell’encefalo. Inoltre, vengono spesso rilevate nel soggetto in morte cerebrale delle risposte che di norma sono mediate dal tronco encefalico, come l’aumento della frequenza del battito cardiaco e della pressione sanguigna sia all’inizio che nel corso dell’intervento per la rimozione degli organi.
La presenza di movimenti spontanei nella persona che viene sottoposta all’espianto è tale che durante l’operazione è sempre necessario paralizzarla e in alcuni casi si provvede a sedarla. A ben vedere, il soggetto è anche in grado di respirare visto che ciò che ha smesso di funzionare, almeno temporaneamente, sono solamente i centri respiratori ma non la sua capacità di metabolizzare l’ossigeno.
Addirittura, le donne incinte possono portare a termine la gravidanza. Recentemente, si è verificato il caso di una donna di Atlanta incinta di due mesi, dichiarata cerebralmente morta a seguito di un malore, e «costretta» a vivere (può continuare a vivere una persona dichiarata morta?) per quattro mesi perché la legge vigente in Georgia vieta l’aborto in presenza di battito cardiaco del feto. La gravidanza non è uno stato che richiede necessariamente un alto livello di integrazione corporea? E ancora: è logico anche solo ipotizzare che un morto sia in grado di custodire e generare la vita?
Ma c’è un’ulteriore difficoltà nel considerare il cervello come sede dell’essere: visto che esso è l’organo che nello sviluppo fetale si forma più tardi (intorno al terzo mese della gravidanza), come è possibile ritenere imprescindibile alla vita il funzionamento dell’encefalo? In sostanza, nella nuova definizione di morte commissionata agli «esperti» di Harvard, al cervello viene arbitrariamente attribuito il ruolo che compete invece all’anima razionale, ossia dirigere e governare tutti gli organi e le funzioni che compongono l’organismo umano.
Con l’introduzione del rivoluzionario criterio della morte cerebrale, il cogito ergo sum di cartesiana memoria entra prepotentemente nel diritto e nella prassi medica, finendo per relegare l’essere umano nell’angusto ambito dell’autocoscienza. Di conseguenza, a prescindere dalla condizione clinica e dallo stato di coscienza in cui si viene a trovare un determinato soggetto, il suo diritto alla vita è subordinato alla «qualità» della sua esistenza, che si fonda essenzialmente sulle sue capacità intellettive. I casi relativamente recenti di Vincent Lambert in Francia, di Charlie Gard e Alfie Evans in Inghilterra, di Eluana Englaro in Italia, stanno a dimostrare che una volta ridefinito il criterio di accertamento della morte si è passati consequenzialmente a ridefinire il significato stesso di essere umano, attraverso l’arbitraria distinzione tra vite degne e indegne di essere vissute.
Ma c’è un secondo grosso nodo da sciogliere nella nuova definizione di morte. Come si fa a stabilire con assoluta certezza che il cervello ha definitivamente smesso di funzionare? Allo stato attuale delle conoscenze, siamo in grado di accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tutte le funzioni cerebrali di un paziente clinicamente morto siano irreversibilmente compromesse?
Nel 2017 la rivista Current Biology ha reso noto un esperimento scientifico condotto dalla neuroscienziata Angela Sirigu, la quale è riuscita a recuperare la coscienza di un paziente in stato vegetativo attraverso una serie protratta nel tempo di elettrostimolazioni del nervo vago. La particolarità dell’esperimento effettuato dalla ricercatrice italiana è dovuta al fatto che il paziente non aveva più alcun contatto con il mondo esterno da ben 15 anni e la sua condizione era considerata irreversibile.
Anche secondo la neurologa Silvia Marino, la quale è riuscita attraverso la somministrazione di stimoli di vario genere a far passare un certo numero di pazienti dallo stato cosiddetto vegetativo a quello di minima coscienza, il termine irreversibile applicato ai disturbi della coscienza non è più utilizzabile. Dunque?
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In ogni caso, anche qualora si riuscisse a provare l’assenza di qualsiasi funzione cerebrale, è comunque privo di fondamento, come abbiamo visto, ritenere che la morte dell’encefalo sia un indicatore della morte di tutto l’organismo. Pensate, che anni fa si verificò il caso di un bambino entrato in stato di morte cerebrale all’età di quattro anni e morto, senza aver mai ripreso a respirare autonomamente, quando ne aveva ventitré!
Sulla base di questo e di altri casi simili è veramente difficile continuare a sostenere la tesi che un cervello funzionante sia la condizione necessaria per la vita di un essere umano. Tra l’altro, la stessa comunità scientifica è divisa su quali aree del cervello è necessario prendere in considerazione per decretare la morte cerebrale di un individuo.
Nel celebre documento di Harvard, la morte viene definita come la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (morte cerebrale totale), ma dato che i criteri clinico-strumentali adoperati per accertarla non sono in grado di rilevare effettivamente la cessazione irreversibile di tutte le funzioni encefaliche, un neurologo inglese arrivò alla conclusione che fosse sufficiente accertare la distruzione del solo tronco encefalico (tesi anch’essa priva di fondamento scientifico).
Il risultato è che in alcuni paesi, tra cui l’Italia, è obbligatorio effettuare l’EEG, un esame diagnostico che misura e registra l’attività elettrica cerebrale, mentre in altri, come l’Inghilterra, esso non è ritenuto necessario. In effetti, oltre al fatto che un tracciato elettroencefalografico può essere normale anche se piatto (ad esempio, adulti ansiosi o neonati possono presentare un tracciato piatto non patologico), le modalità di registrazione elettroencefalografica non garantiscono risultati certi, dal momento che essi possono essere influenzati da diversi fattori, tra cui l’effetto tampone provocato da importanti addensamenti di sangue all’interno del cranio.
Non solo, il limite dei 2 microvolts di attività elettrica cerebrale sotto cui non ci sarebbe la vita costituisce una soglia convenzionale valida solo ai fini legali, visto che essa non corrisponde ad un ipotetico zero strumentale e visto che i risultati dell’esame elettroencefalografico dipendono anche dalle cangianti tarature degli apparecchi e dall’impossibilità tecnica di amplificare segnali elettrici più bassi.
Un capitolo a parte è rappresentato dalle procedure atte a stabilire la morte cerebrale. Innanzitutto, è possibile constatare come la morte da evento naturale, oggettivo ed osservabile sia stata di fatto trasformata in un evento artificiale, niente affatto oggettivo né tantomeno osservabile, ma riscontrabile unicamente attraverso la tecnica medica.
In altri termini, la morte viene tolta allo sguardo dell’uomo e confinata nei reparti di rianimazione degli ospedali. Ciascuno di noi, in un modo o nell’altro, ha fatto l’esperienza della morte e ciascuno di noi è capace di riconoscerla, indipendentemente dal livello di istruzione o dalle conoscenze nel campo della medicina.
Un corpo freddo, bianco e rigido è certamente quello di un cadavere, mentre un corpo caldo, colorito e con un cuore che pulsa è certamente quello di una persona viva. Ebbene, con l’introduzione del nuovo criterio l’accertamento della morte diventa una questione riservata esclusivamente agli addetti ai lavori.
Anzi, a ben vedere nemmeno i medici sono in grado di stabilire se un uomo è deceduto oppure no (ai sanitari spetta solo il compito di applicare pedissequamente i protocolli); a certificarlo sono unicamente dei test clinici effettuati con specifici macchinari.
Ma quali sono questi test? In cosa consistono?
Innanzitutto, la prima cosa da rilevare è che essi non sono gli stessi in tutti i paesi del mondo oppure vengono applicati in maniera differente. Ad esempio, il tempo di osservazione della morte, il cosiddetto silenzio cerebrale, varia da paese a paese e va da un minimo di due ore di osservazione ad un massimo di sei ore.
Abbiamo già visto come in alcuni paesi l’elettroencefalogramma è obbligatorio ai fini della dichiarazione di morte mentre in altri non lo è. Per quanto riguarda la cosiddetta morte cardiaca (di cui parleremo meglio più avanti) il tempo di arresto necessario affinché si possa decretare la morte del cervello per mancanza di ossigeno è di 20 minuti in Italia, mentre è di soli 5 minuti in Spagna e in altri paesi.
È dunque possibile affermare senza timore di smentita che, in linea teorica, lo stesso paziente può essere dichiarato morto in Inghilterra o in Spagna e vivo in Italia (alla faccia dell’oggettività della morte cerebrale).
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Vale la pena soffermarsi su una procedura in particolare: il famigerato test di apnea, l’ultimo esame diagnostico che viene effettuato al termine dell’esplorazione dei riflessi del tronco encefalico, quando questi risultano assenti.
L’obiettivo del test è dimostrare la perdita della funzione del centro del respiro situato a livello bulbare attraverso l’accumulo di CO₂. In pratica, il paziente viene disconnesso dal respiratore e, una volta raggiunto un certo valore soglia di CO₂ nel sangue, se non si attiva la respirazione spontanea viene dichiarata la morte encefalica.
Per la legge italiana questo «esame» deve essere effettuato per ben due volte, all’inizio e al termine del periodo di osservazione.
Le linee guida per l’esecuzione del test di apnea raccomandano di sostituirlo con il test di flusso cerebrale qualora, nonostante le opportune precauzioni, la procedura causi la comparsa di gravi complicanze tali da compromettere seriamente le funzioni biologiche del paziente (quindi il fatto che sia potenzialmente letale è scritto nero su bianco)
Pertanto, l’attivazione di una simile procedura in un paziente con estremo bisogno di cure non è esattamente un toccasana per la sua salute. Spesso, infatti, il test di apnea non fa che peggiorare il quadro clinico del paziente, riducendo se non addirittura azzerando le sue possibilità di recupero.
È un po’ come se una persona caduta in una piscina venisse salvata dalla morte per annegamento attraverso le tecniche di rianimazione cardiopolmonare, per poi essere gettata di nuovo nella piscina al fine di verificare la sua capacità di riemergere dall’acqua per riuscire a respirare…
Non rappresenta, domandiamo, una chiara violazione dei diritti del malato sottoporre il comatoso a dei test potenzialmente letali quando egli, fino a prova contraria, è ancora in vita?
Non solo: quando il paziente viene sottoposto ai test di accertamento deve essere libero dai farmaci che possono influenzare lo stato di coscienza o deprimere la respirazione. In altri termini, al paziente vengono sospese le cure.
C’è da sottolineare poi un fatto: di norma, le procedure di accertamento della morte encefalica vengono attivate molto in fretta, ossia poco tempo dopo il ricovero in ospedale; parliamo di pochi giorni o addirittura poche ore.
Allora ci si domanda: perché tutta questa fretta nell’avviare i protocolli e attivare una serie di procedure che non sono a rischio zero per i pazienti, ma che possono causare loro ulteriori danni?
C’è il fondato sospetto che questa immotivata celerità nel dichiarare la morte cerebrale risponda all’esigenza di evitare che la vittima possa dare segni di ripresa – ovvero che esca dal coma – rendendo vani gli sforzi delle strutture sanitarie nel reperire organi freschi da trapianto.
È noto come i centri autorizzati ad effettuare i trapianti sparsi nel territorio abbiano dei budget di produzione da rispettare e come il raggiungimento di questi obiettivi sia necessario all’acquisizione di rilevanti finanziamenti pubblici e privati. Del resto, i direttori generali delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere sono dei veri e propri manager d’azienda.
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A questo punto è quanto mai opportuno porsi la seguente domanda: per la legge, siamo tutti potenziali donatori di organi?
Dunque, la normativa italiana ha stabilito il principio del consenso o dissenso esplicito, sulla base di cui ad ogni persona maggiorenne viene data la possibilità di dichiarare validamente la propria volontà in merito alla cosiddetta donazione degli organi.
Nello specifico, la legge 91/99 agli articoli 4 e 5 ha istituito il principio del silenzio-assenso, in base a cui la mancata dichiarazione di volontà viene considerata come consenso alla donazione. Tuttavia, tale enunciato non può essere applicato, in quanto – come previsto dalla legge stessa – non è stata ancora costituita un’anagrafe informatizzata che consenta la notifica ad ogni cittadino, da parte di un Pubblico Ufficiale, di un modulo per la dichiarazione di volontà.
Per cui, allo stato attuale, le principali modalità con cui è possibile esprimersi in un senso o nell’altro sono le seguenti:
- presso gli uffici comunali, firmando un apposito modulo predisposto al momento del rilascio o del rinnovo della carta d’identità;
- presso gli sportelli delle Aziende sanitarie locali;
- attraverso una dichiarazione in carta libera completa di tutti i dati personali, datata e firmata.
Le dichiarazioni di volontà sono considerate valide ai sensi di legge e sono registrate all’interno del Sistema Informativo Trapianti.
Nel caso in cui si scelga di non esprimersi secondo le modalità previste, il consenso viene chiesto ai parenti più stretti o agli aventi diritto. Pertanto, l’espianto può essere effettuato solo in presenza di un esplicito consenso.
È dunque sufficiente opporsi al trapianto per sfuggire alla trappola della morte cerebrale? Purtroppo no. Anche in caso di mancato assenso alla donazione, la legge impone il distacco dai supporti vitali del soggetto dichiarato cerebralmente morto, il quale viene così lasciato morire per mancanza di cure (del resto se il paziente è dichiarato deceduto deve essere necessariamente trattato alla stregua di un cadavere, quantomeno per coerenza).
Comunque, malgrado la massiccia propaganda massmediatica messa in atto dalle istituzioni – che tende a far leva sui sentimenti e sull’emotività per tentare di convincere più cittadini possibili a diventare donatori di organi (la cosiddetta «cultura del dono») – la percentuale di opposizioni ai trapianti si attesta, almeno nel nostro paese, intorno al 40% (una percentuale decisamente alta).
È anche per tale motivo che la macchina delle predazioni è sempre alla ricerca di nuove tecniche per reperire organi. Una di queste è la cosiddetta donazione a cuore fermo (donation after cardiac death o DCD), che mette in evidenza lo stretto legame tra la predazione degli organi e l’eutanasia.
Schematicamente, esistono due tipi di donatori a cuore fermo: controllati e non controllati.
La DCD non controllata concerne tutti i pazienti nei quali la morte per arresto cardiaco avviene in modo improvviso, solitamente fuori dall’ospedale o in pronto soccorso. In tali situazioni non è possibile controllare l’evento acuto che determina la morte e non è possibile studiare clinicamente il paziente come potenziale donatore, per cui a differenza degli altri organi il cuore non può essere prelevato.
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Diverso è il caso della DCD controllata, in cui l’arresto cardiaco è atteso, ossia previsto. Essa fa seguito alla sospensione dei trattamenti intensivi a motivo della loro supposta mancanza di proporzionalità. In altre parole, il malato viene staccato dai supporti vitali, in particolare dal supporto ventilatorio, in una circostanza prevista e medicalmente controllata.
In questo caso il cuore è sano e può essere prelevato dopo i venti minuti di assenza di battito e di circolo, come prescritto dalla legge italiana. Il muscolo cardiaco, già prima del prelievo e del trapianto, viene accuratamente valutato e spesso collegato ad un sistema di circolazione artificiale che permette di verificarne la funzionalità in vista del trapianto.
In pratica, si tratta di pazienti terminali che non soddisfano i criteri della morte encefalica e che hanno in qualche modo manifestato la loro volontà di sospendere i sostegni vitali, oppure che siano stati i familiari (si discute tanto in Italia di questi tempi di rischio eutanasico ma come possiamo constatare l’eliminazione programmata del malato terminale già viene fatta e sotto l’egida della legge).
In un articolo pubblicato sul New York Times il 20 luglio scorso sono stati riportati diversi casi di pazienti la cui morte è stata programmata in anticipo affinché potessero diventare donatori di organi.
C’è da considerare che il periodo di mancanza di battito cardiaco considerato necessario affinché l’ipossia danneggi irreversibilmente il tessuto cerebrale varia, in America, dai due ai cinque minuti, quando l’esperienza clinica dimostra che il cuore può riprendere a battere anche diverso tempo dopo.
In un caso descritto dal New York Times, una donna sottoposta alla DCD controllata ha cominciato ad ansimare in cerca d’aria mentre i chirurghi le segavano lo sterno e il suo cuore ha ripreso a battere. A quel punto l’operazione è stata annullata e dodici minuti dopo la sfortunata signora è stata dichiarata morta per la seconda volta.
Ora, è necessario comprendere che il problema non è solamente legato alla rigorosità delle procedure di accertamento o al fatto che ci sono casi come quelli descritti negli USA in cui le diagnosi di morte risultano, per così dire, «affrettate».
Il problema vero è la definizione stessa di morte cerebrale e la concezione filosofica dell’essere umano che c’è dietro.
E visto che non c’è, né ci potrà mai essere, un protocollo universalmente valido con cui si possa accertare ciò che semplicemente non esiste in natura, le scorciatoie procedurali per rendere più facile l’approvvigionamento degli organi sono inevitabili e tenderanno sempre più ad essere utilizzate in ambito ospedaliero.
A dimostrazione di quanto sia presente tale deriva, sempre il New York Times ha pubblicato un editoriale dal titolo: «Donor Organs Are Too Rare. We Need a New Definition of Death» («Gli organi donati sono troppo rari. Abbiamo bisogno di una nuova definizione di morte»), in cui alcuni cardiologi di fama mondiale sembrano lanciare un appello affinché la comunità scientifica elabori una nuova definizione di morte. Di seguito un breve estratto:
«Una persona può diventare donatrice di organi solo dopo essere stata dichiarata morta (…) La morte cerebrale è tuttavia rara (…) La soluzione, a nostro avviso, è ampliare la definizione di morte cerebrale per includere i pazienti in coma irreversibile sottoposti a supporto vitale».
«Le funzioni cerebrali più importanti per la vita sono la coscienza, la memoria, l’intenzione e il desiderio» – continuano i cardiologi intervistati – «Una volta che queste funzioni cerebrali superiori sono irreversibilmente perdute, non è forse corretto affermare che una persona (in contrapposizione a un corpo) ha cessato di esistere?»
È dunque evidente come la nuova definizione di morte sdoganata dai cosiddetti esperti di Harvard contenga al suo interno tutte le premesse per un suo superamento.
Infatti, privata del fine soprannaturale, l’esistenza umana perde il suo valore intrinseco e finisce per acquisire significato solamente in relazione a quanto essa può essere utile a qualcun altro.
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Non è dunque così improbabile che si arrivi a rendere obbligatoria la donazione degli organi. La cardiologa Maria Frigerio, ex direttrice del reparto di cardiologia dell’ospedale Niguarda di Milano, in un’intervista pubblicata lo scorso febbraio dal Corriere della Sera preconizza l’obbligatorietà dei trapianti.
Secondo la Frigerio, l’elevata percentuale di opposizioni ai trapianti limita pesantemente la possibilità di salvare delle vite ed è «per questo che la donazione potrebbe diventare un obbligo».
Per concludere, vorrei accennare ad un aspetto poco conosciuto che riguarda l’aspettativa e la qualità di vita dei trapiantati.
L’uso continuo e a vita dei farmaci immunosoppressori, necessari a sopprimere la risposta del sistema immunitario verso l’organo trapiantato, riduce la capacità del sistema immunitario stesso di combattere le infezioni e di distruggere le cellule tumorali.
Sussiste dunque un rischio molto elevato di contrarre alcuni tipi di cancro, in particolare i tumori della pelle, alcuni dei quali potenzialmente letali.
Attraverso una ricerca scientifica è stato scoperto inoltre che i trapiantati hanno un rischio particolarmente elevato di sviluppare melanomi che hanno già raggiunto uno stadio avanzato al momento della diagnosi.
Sempre a causa dei farmaci immunosoppressori, le persone che hanno ricevuto un trapianto di fegato, cuore o polmone hanno il 64% in più di probabilità, rispetto alla popolazione generale, di sviluppare patologie cardiovascolari.
Un altro aspetto che rende più probabile l’incidenza di tali malattie è l’obesità: ben il 50% dei trapiantati subisce un aumento di peso che oscilla tra il 10% e il 35% del loro peso corporeo.
Questo breve e niente affatto esaustivo elenco di problemi a cui vanno incontro i trapiantati ci fa comprendere meglio come la «medicina» dei trapianti, pur presentandosi come una vittoria della scienza, in realtà trasformi il malato in un paziente cronicizzato, dipendente a vita dai farmaci e costretto a sottoporsi a frequenti screening clinici, quindi inserito in una filiera che alimenta enormi interessi economici.
Questo non significa negare la sofferenza di chi è malato e ripone le sue speranze nel ricevere un organo, ma ci invita a guardare più in profondità: quando la vita viene piegata alle logiche di mercato e ridotta a un mezzo, essa perde il suo valore autentico. Ed è proprio qui che si gioca la posta più alta: riconoscere e difendere la dignità dell’uomo, che non è mai un insieme di funzioni biologiche, ma una persona unica, creata a immagine e somiglianza di Dio.
Ho concluso, grazie a tutti voi per l’attenzione.
Alfredo De Matteo
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Ambiente
Studi sui metodi per testare le sostanze chimiche della pillola abortiva nelle riserve idriche

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Bioetica
Aborto, il governo spagnuolo chiede la lista degli obiettori di coscienza

La Spagna ha richiesto la creazione di registri per i medici che rifiutano di praticare aborti, suscitando proteste da parte dei professionisti pro-life, che considerano la misura un tentativo di stilare una «lista nera».
Il primo ministro Pedro Sánchez ha recentemente scritto ai presidenti delle regioni a guida conservatrice, invitandoli a «istituire un registro degli obiettori di coscienza all’aborto», come riportato da OSV News.
Questa iniziativa segue una legge che obbliga tutti gli ospedali pubblici spagnuoli a effettuare aborti, con l’obiettivo di migliorare l’accesso alla procedura nelle aree dove è difficile trovare medici disponibili a praticarla.
Ad esempio, nella regione di La Rioja, a lungo governata dai conservatori, la maggior parte dei medici degli ospedali pubblici si è rifiutata di eseguire aborti per obiezione di coscienza. «Il problema era che tutto il personale sanitario si opponeva agli aborti, anche nelle cliniche private», ha dichiarato a Euronews nel 2023 Izaskun Fernández Núñez, presidente del gruppo Donne Progressiste di La Rioja.
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In Castiglia e León, cinque delle nove province «non avevano registrato un solo aborto dal 2010» fino al rapporto del 2023. «Le donne non potevano accedere all’aborto nella loro provincia, nemmeno pagando o rivolgendosi a cliniche private», ha spiegato Nina Infante Castrillo, vicepresidente del Forum femminista di Castiglia e León.
Questi dati hanno spinto il governo a imporre l’obbligo di registrazione degli obiettori di coscienza in tutte le comunità autonome, con una scadenza di tre mesi. Sánchez ha avvertito che, in caso di mancata compilazione dei registri, «saranno attivati i meccanismi legali per garantire il rispetto della norma». «Il rispetto della coscienza dei professionisti sanitari non deve mai ostacolare l’assistenza sanitaria delle donne» ha aggiunto.
I difensori dell’obiezione di coscienza hanno definito la misura incostituzionale e una «lista nera». «Qualunque cosa dica il primo ministro, l’obiezione di coscienza è un diritto costituzionale. Chi può obbligare i cittadini a registrarsi in un elenco non richiesto nemmeno dalla Corte Costituzionale? Si tratta solo di espedienti», ha dichiarato José Antonio Díez, coordinatore generale dell’Associazione Nazionale per la Difesa del Diritto all’Obiezione di Coscienza (ANDOC), alla testata cattolica Alpha y Omega.
«Perché non creare un elenco di medici disposti a praticare aborti ed eutanasia, che sarebbe più pratico? Questi registri di obiettori sono liste nere per escludere professionalmente i medici che esercitano il loro diritto», ha aggiunto Eva Martín, presidente di ANDOC, citata da Alpha y Omega.
Secondo i dati del ministero della Salute, in Ispagna i tassi di aborto sono in aumento, avvicinandosi al picco del 2011. Nel 2023 sono stati registrati 103.097 aborti, con un incremento del 4,8% rispetto al 2022 e dell’8,7% rispetto al 2014.
L’aborto è legale in Spagna, con alcune restrizioni, dal 1985, e il numero di procedure è più che raddoppiato, passando da 54.000 nel 1998 a 112.000 nel 2007. Nel 2010, il governo socialista di José Luis Rodríguez Zapatero ha ulteriormente liberalizzato la legge, consentendo l’aborto fino alla 14ª settimana di gravidanza, con estensioni fino alla 22ª settimana in caso di rischi per la salute della madre o di «gravi disabilità» del feto.
In Italia la situazione non è dissimile, con continui tentativi, compresi quelli dei sindacati lontani oramai anni luce dalla questione dei lavorativi, di limitare o cancellare l’obiezione di coscienza.
L’obiezione di coscienza, ritiene Renovatio 21, costituisce un compromesso non accettabile: chi «obietta» lascia tranquillamente che i bambini vengano trucidati dai colleghi nella stanza accanto, e quindi non si capisce esattamente in cosa credano gli «obiettori». Se pensano davvero che l’aborto sia omicidio, come possono vivere e lavorare tranquillamente in quegli spazi? Come possono magari pure andare fuori a pranzo con dei colleghi che hanno appena ammazzato degli esseri umani?
Si tratta della grottesca ipocrisia della legge 194/78, difesa oggi anche dai sedicenti «cattolici» perché appunto contiene la foglia di fico dell’obiezione, e più in generale dell’ipocrisia massimamente farisaica, e genocida, della Democrazia Cristiana e della sua opera.
Si aggiunga come, in Italia, l’obiezione agisce come una porta girevole carrieristica: il medico e l’infermiere diviene obiettore ad intermittenza, a secondo di chi sia il primario di turno.
La vera difesa della vita nascente non passa per la difesa dell’obiezione di coscienza – anzi, passa per la sua rimozione, di modo che quanti saranno costretti a praticare il diabolico feticidio di massa si sveglino e combattano per fermare il vero genocidio in atto.
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Immagine di PES via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-SA 2.0
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