Geopolitica
Oltre 200 parlamentari di tutto il mondo firmano per l’embargo alle armi per Israele. Perché non c’è nessun italiano?
L’organizzazione Progressive International ha pubblicato un appello intitolato «Non saremo complici della grave violazione del diritto internazionale da parte di Israele» per esprimere opposizione ai «Paesi esportatori di armi verso Israele», chiedendo un embargo immediato sulle armi spedite da Paesi partner militari dello Stato Ebraico.
L’appello è stato firmato da più di 200 parlamentari nazionali di Australia, Belgio, Brasile, Canada, Francia, Germania, Irlanda, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti.
«Noi, parlamentari sottoscritti, dichiariamo il nostro impegno a porre fine alle vendite di armi delle nostre nazioni allo Stato di Israele» scrive il testo dell’appello.
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«Le nostre bombe e i nostri proiettili non devono essere usati per uccidere, mutilare ed espropriare i palestinesi. Ma lo sono: sappiamo che le armi letali e le loro parti, prodotte o spedite attraverso i nostri paesi, attualmente aiutano l’assalto israeliano alla Palestina che ha causato la morte di oltre 30.000 persone a Gaza e in Cisgiordania».
«Non possiamo aspettare. In seguito alla sentenza provvisoria della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) sul caso della Convenzione sul genocidio contro lo Stato di Israele, l’embargo sulle armi è andato oltre una necessità morale per diventare un requisito legale» continua il documento.
«Non saremo complici della grave violazione del diritto internazionale da parte di Israele. L’ICJ ha ordinato a Israele di non uccidere, danneggiare o “infliggere” deliberatamente ai palestinesi condizioni di vita intese a provocare… distruzione fisica”. Si sono rifiutati. Invece, continuano con un attacco pianificato a Rafah che, secondo il Segretario generale delle Nazioni Unite, “aumenterà esponenzialmente quello che è già un incubo umanitario”».
«Oggi prendiamo posizione. Adotteremo un’azione immediata e coordinata nelle nostre rispettive legislature per impedire ai nostri paesi di armare Israele» conclude l’appello internazionale.
Tra i firmatari, non sembra esservi alcun nome di parlamentare italiano.
Secondo un’inchiesta di Altreconomia, «contrariamente a quanto assicurato dal governo, l’export di “armi e munizioni” verso Tel Aviv non è stato “bloccato” dopo l’inizio dei bombardamenti sulla Striscia di Gaza». La testata sostiene che ciò è certificato dalle «statistiche del commercio estero aggiornate ai mesi di ottobre e novembre 2023».
Il 20 gennaio in un’intervista a Il Giorno il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva dichiarato che «l’Italia ha interrotto dall’inizio della guerra di Gaza l’invio di qualsiasi tipo di armi a Israele. È tutto bloccato (…) da quando sono iniziate le ostilità abbiamo sospeso tutti gli invii di sistemi d’arma o materiale militare di qualsiasi tipo».
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Il 21 febbraio scorso le ONG Amnesty International Italia, AOI, Oxfam, Rete Pace e Disarmo e Save the Children avevano domandato pubblicamente al governo «la conferma della sospensione anche per le spedizioni coperte dalle licenze precedenti alla decisione dell’8 ottobre, accolto con favore dal governo italiano, di non autorizzare l’export di armi in seguito al riacuirsi del conflitto».
Secondo alcuni calcoli, tra il 2013 e il 2022 l’industria della difesa italiana avrebbe venduto allo Stato Ebraico armamenti per una cifra intorno ai 120 milioni di euro, ma Roma avrebbe fatto acquisti da Tel Aviv per 250 milioni di euro.
La trasmissione di inchiesta giornalistica Report negli scorsi mesi ha raccontato di contatti tra contatti tra israeliani e la politica italiana nel ramo della cybersecurity. Uno degli interlocutori dello Stato Ebraico avrebbe avuto dei trascorsi nei servizi segreti.
Nella cybersecurity è coinvolto da anni anche l’imprenditore Marco Carrai, considerato una sorta di «braccio destro» di Matteo Renzi, che lo voleva a capo di un’unità di cibersicurezza, ipotesi poi sfumata. Nel 2019 Carrai è divenuto il console dello Stato di Israele per Toscana, Emilia-Romagna e Lombardia.
I rapporti tra Italia ed Israele in fatto di sicurezza hanno visto di recente anche episodi enigmatici.
Come riportato da Renovatio 21, la scorsa primavera si consumò nel Lago Maggiore una misteriosa «strage di spie», quando una houseboat con a bordo, scrisse il Corriere della Sera, «13 israeliani e 8 italiani, tutti agenti segreti» colò a picco, secondo quanto riportato per il maltempo, uccidendo quattro persone.
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Immagine di Israel Defense Forces via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic
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Geopolitica
Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Il primo ministro Sretta Thavisin ha rinunciato alla visita, ma ha annunciato la creazione di un comitato ad hoc per gestire la situazione. Nel fine settimana, infatti, si sono verificati ulteriori combattimenti lungo la frontiera tra Myanmar e Thailandia e migliaia di rifugiati continuano a spostarsi da una parte all’altra del confine. Per evitare una nuova umiliazione l’esercito birmano ha intensificato i bombardamenti.
Il primo ministro della Thailandia Sretta Thavisin questa mattina ha cancellato la visita che aveva in programma a Mae Sot, città al confine con il Myanmar, e ha invece mandato al suo posto il ministro degli Esteri e vicepremier Parnpree Bahidda Nukara.
Nei giorni scorsi era stata annunciata la creazione di «un comitato ad hoc per gestire la situazione derivante dai disordini in Myanmar», ha aggiunto il premier. «Sarà un meccanismo di monitoraggio e valutazione» che avrà come scopo quello di «analizzare la situazione complessiva» e «dare pareri e suggerimenti per gestire in modo efficace la situazione».
La Thailandia, dopo i ripetuti fallimenti da parte dell’ASEAN (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) di far rispettare l’accordo di pace in Myanmar, sta cercando di evitare che un esodo di rifugiati in fuga dalla guerra civile si riversi sui propri confini proponendosi come mediatore. «Il ruolo della Thailandia è quello di fare tutto il possibile per aiutare a risolvere il conflitto nel Paese vicino, e un ruolo simile è atteso anche dalla comunità internazionale», ha dichiarato ieri il segretario generale del primo ministro Prommin Lertsuridej.
Durante il fine settimana si sono verificati ulteriori scontri a Myawaddy (la città birmana dirimpettaia di Mae Sot), nello Stato Karen, tra le truppe dell’esercito golpista e le forze della resistenza, che hanno strappato il controllo della città ai soldati, grazie anche al cambio di bandiera della Border Guard Force, che, trasformatasi nell’Esercito di liberazione Karen (KLA), è passata a sostenere la resistenza e sta combattendo per la creazione di uno Stato Karen autonomo.
Giovedì scorso, l’Esercito di Liberazione Nazionale Karen (KNLA, una milizia etnica da non confondere con il KNA) aveva annunciato di aver intercettato l’ultimo gruppo di militari rimasto, il battaglione di fanteria 275. Alla notizia, l’esercito ha risposto con pesanti bombardamenti, lanciando l’Operazione Aung Zeya (dal nome del fondatore della dinastia Konbaung che regnò in Birmania nel XVIII secolo), nel tentativo di riconquistare Myawaddy ed evitare così un’altra umiliante sconfitta.
The Irrawaddy scrive che l’aviazione birmana ha sganciato nei pressi del Secondo ponte dell’amicizia (uno dei collegamenti tra Mae Sot e Myawaddy) circa 150 bombe, di cui almeno sette sono cadute vicino al confine thailandese dove sono di stanza le guardie di frontiera. Si tratta di una tattica a cui l’esercito birmano sta facendo ricorso sempre più frequentemente a causa delle sconfitte registrate sul campo a partire da ottobre, quando le milizie etniche e le Forze di Difesa del Popolo (PDF, che fanno capo al Governo di unità nazionale in esilio, composto dai deputati che appartenevano al precedente esecutivo, spodestato con il colpo di Stato militare) hanno lanciato un’offensiva congiunta. Una tattica realizzabile, però, solo grazie al continuo sostegno da parte della Russia. Fonti locali hanno infatti dichiarato che gli aerei e gli elicotteri «utilizzati per bombardare i villaggi e per consegnare rifornimenti e munizioni» a «circa 10 chilometri dal confine tra Thailandia e Myanmar» erano «tutti russi».
Bangkok è stata presa alla sprovvista dalla situazione. Sabato un proiettile vagante ha colpito il retro di una casa sulla parte thailandese del confine, senza ferire nessuno, ma l’episodio ha costretto il Paese a rafforzare le proprie difese di confine, aumentando i controlli su coloro che attraversano i due ponti che collegano Myawaddy e Mae Sot, al momento ancora aperti.
La polizia thai ha anche arrestato 15 birmani e due thailandesi che stavano cercando di fuggire in Malaysia in cerca di migliori opportunità di lavoro. Il gruppo ha raccontato di aver valicato il confine a Mae Sot grazie all’aiuto di intermediari. Viaggi di questo tipo rischiano di diventare sempre più frequenti con l’esacerbarsi della violenza in Myanmar, sostengono gli esperti, i quali si aspettano un prosieguo dei combattimenti, almeno finché non comincerà la stagione delle piogge, che ogni anno pone un freno agli scontri.
Ma la Thailandia ha anche inviato aiuti in Myanmar (sebbene tramite enti gestiti dai generali) e attivato una risposta umanitaria a Mae Sot. Il Governo di unità nazionale in esilio ha ringraziato Bangkok per aver fornito riparo e assistenza ai rifugiati, prevedendo tuttavia ulteriori sfollamenti. Almeno 3mila persone – perlopiù anziani e bambini – hanno varcato il confine solo nel fine settimana, ha dichiarato due giorni fa il ministro degli Esteri Parnpree Bahidda Nukara, ma circa 2mila sono tornati a Myawaddy lunedì.
Il mese scorso Parnpree aveva annunciato che il Paese avrebbe potuto ospitare fino a 10mila rifugiati birmani a Mae Sot e dintorni.
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