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Lo scrittore Camillo Langone ancora colpito dalla piattaforma social: non più censura, ma repressione della persona?

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Lo scrittore Camillo Langone è stato ancora una volta colpito dalla censura sui social. Forse, a questo punto, non è più nemmeno il caso di chiamarla «censura».

 

Come sa il lettore di Renovatio 21, due mesi fa Langone era stato espulso da Instagram. Si era supposto, in quell’occasione, che il problema, in quel caso, potesse essere un’innocua fotografia di un gelato al finocchio, degustato ad Asiago dall’autore, che scrive anche di gastronomia per grandi testate nazionali. Tuttavia, come sempre, non ve n’era certezza alcuna: come ne Il processo di Franz Kafka, l’utente del social network viene punito senza che gli sia dato sapere perché, senza una comunicazione dell’accusa, senza in realtà sapere davvero se un’accusa esiste – e quindi, contrariamente alla logica dello stato di diritto, senza possibilità di difesa.

 

Langone pensava di essere avezzo ai ban delle grandi piattaforma: promotore della grande pittura figurativa contemporanea – il suo progetto, oramai radicato nel Paese, si chiama «Eccellenti pittori» – gli poteva essere capitato di pubblicare di qualche disegno di nudo, o seminudo, d’arte. Sappiamo tuttavia che anche capolavori vecchi di secoli (Madonna col bambino, Venere di Botticelli, etc.) sono finiti per essere oscurati dai social dello Zuckerberg.

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Camillo ci ha raccontato che ha dovuto dunque far partire un secondo profilo Instagram con cui raggiungere i suoi lettori – che sono tantissimi, fidelizzati in decenni di articoli eccezionali su Il Foglio ed altre testate: chi gira l’Italia, come l’autore, sa quanta gente ami l’opera langoniana, e il personaggio, nei più disparati ambiti italiani, dalla letteratura alla cucina, dal tabarro all’arte, dal vino alla riflessione storica, dalle Sante Messe al tema della femminilità.

 

«Ancora un post per informare chi segue “camillolangone” su Instagram che quel profilo è bloccato dal 7 settembre. Chi mi ama segua “camillo.Langone”» aveva scritto lo scrittore la settimana scorsa.

 

 

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Un post condiviso da Camillo Langone (@camillo.langone)


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Anche il nuovo profilo, tuttavia, è finito per essere colpito dalla censura. «Adesso è sotto tiro anche il nuovo» ci ha detto Camillo. Abbiamo chiesto cosa mai potesse essere successo stavolta. Un altra ricetta a base di finocchio? Un capezzolo di un capolavoro della Storia dell’Arte?

 

No. Il problema pare essere stato diverso: «una foto del Ponte di Tiberio. Con didascalia Ponte di Tiberio 22 dopo Cristo. Non hanno gradito». Ci diamo un pizzicotto: la foto di un ponte romano ha cagionato la nuova messa al bando? Sul serio? Chiediamo la schermata.

 

L’autore, gentilmente ce la fornisce.

 

 

Ci stropicciamo gli occhi: ma perché? «Ah, bisogna chiederlo all’algoritmo» risponde Camillo.

 

Poco dopo, arriva un altro ban da parte della piattaforma di Zuckerberg. Stavolta al centro vi è un post che mostra lo studio di Nicola Verlato, un «eccellente pittore» amato e sostenuto da Langone.

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Nella foto, lo spazio di lavoro – invero molto ordinato, mica come quello di Francis Bacon – dell’artista, con una didascalia dello scrittore: «lo studio di Verlato lo fotografo perché spesso ho bisogno di vedere la continuità contemporaneo-eterno».

 

Zac. Arriva la notifica di Instagram: «i tuoi follower hanno meno probabilità di vedere questo post. Considera la possibilità di modificare o rimuovere questo post. I contenuti che rispettano i nostri Standard della community potrebbero essere mostrati più in alto nei feed dei tuoi follower. Hai ancora 183 giorni per chiedere un controllo».

 

Semplicemente incredibile.

 

 

«Sempre più inquietanti e imperscrutabili» dice Camillo.

 

Ma cosa c’era nella foto? C’era solo lo studio fotografato? C’era un quadro con un nudo?

 

«Non mi pare. Poi bisogna vedere cosa si intende per nudo. A guardare MOLTO bene c’è qualche nudo abbozzato sullo sfondo».

 

Facci capire, Camillo: Verlato di solito dipinge o pubblica nudi?

 

«Verlato dipinge nudi classici, ma ha tranquillamente 26000 seguaci» risponde lo scrittore. «Quindi il problema non sono i quadri di Verlato ma i quadri di Verlato pubblicati da me».

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La piccola vicenda ci fa intuire come funziona ora la questione: a differenza dello stato di diritto nelle sedicenti democrazie occidentali, secondo cui si punisce l’atto ma non la persona in sé, pare che sui social – che altro non sono che la prefigurazione della società schiavista del futuro prossimo – si vada a colpire non il contenuto ma l’individuo stesso, e non importa cosa faccia.

 

Non il «cosa», ma il «chi». Se è in lista, finisce triturato, punto.

 

Si tratta di un ribaltamento violento della società liberale, occidentale, europea, e pure delle sue leggi. Si tratta pure, va notato, della negazione stessa di una società cristiana, dove si attacca il peccato, non il peccatore.

 

Il mondo post-democratico, post-liberale, post-europeo, post-cristiano dei social, invece, lapida la persona, senza nemmeno che sia spiegato a lui e al resto della popolazione perché.

 

Realizziamo quindi che l’intero apparato dei social – fatto dalle informazioni che voi stesse regalate loro, consapevolmente o meno – è pensato per essere un sistema di controllo (cioè di sorveglianza ed attacco) ad hominem, pronto a colpire chirurgicamente la singola persona che può arrecare disturbo al sistema, e sappiamo da qualche mese, grazie alle tardive confessioni pubbliche dello Zuckerberg, che le «linee guida» della censura venivano dettate dettagliosamente dal potere americano.

 

Sappiamo anche, ma il discorso deve ancora essere davvero approfondito, dell’esistenza di black list che da anni gestiscono il traffico su internet, in particolare riguardo a Google. Un ricercatore della materia, Robert Epstein spiegava al podcast di Joe Rogan l’esistenza – a lungo negata – di queste liste nere, in grado di «spegnere» l’attenzione per un sito e quindi manipolare l’opinione mondiale, cosa in linea, secondo quanto ha detto lo studioso, con la pulsione profonda di riforma dell’intera umanità da parte del colosso Big Tech.

 

Renovatio 21, che già era stata espulsa da Facebook con annessa disintegrazione di account personali e pagine varie, teme di essere finita anche in black list più ampie, e la riprova ce la danno alcuni lettori che lavorano presso multinazionali dalla cui internet, pazzescamente, non si può accedere solo a due categorie di siti: quelli a luci rosse e Renovatio 21. Sì.

 

Con Camillo a questo punto abbiamo ragionato sulla situazione in cui ci ritroviamo: non possiamo, a questo punto, parlare nemmeno di censura. Perché, ripetiamo, pare che non riguardi i contenuti, ma la persona in particolare. È repressione, o persecuzione, insomma guerra contro un individuo specifico. Contro tanti individui specifici, facenti parte di una minoranza segnalata per qualche motivo che, come ripetiamo spesso qui, viene ritenuta ora sacrificabile.

 

Alle piattaforme informatiche, ai governi tecnocratici, alle organizzazioni transnazionali, alle grandi multinazionali economiche non importa nulla di perdere il soldo o il voto dei blacklistati. È una perdita accettabile, considerando il resto della massa vaccina che rimane a pascolare verso il macello. Anzi: eliminarli significa fermare il contagio – altri potrebbero divenire come loro, mettere in discussione gli «standard della comunità» necro-mondialista, e non può che essere così, perché ci sarà sempre più gente che si sveglia che gente che si addormenta.

 

Ecco spiegato cosa ci sta succedendo.

 

Non c’è da considerare che tale processo di controllo e repressione – cioè, la vostra sottomissione elettronica – non passa solo per i social.

 

Il lettore di Renovatio 21 può ricordare un articolo su una bizzarra censura abbattutasi su Langone anche l’anno scorso. Langone, grande agiografo del tabarro cantato anche nelle prime Tabarrate da lui organizzate a Parma (2016) e Casalmaggiore (2017) aveva postato su Facebook la locandina della Tabarrata Nazionale 2023, raduno tabarrista organizzato dalla Civiltà del Tabarro, gruppo di aficionados legato al fondatore di Renovatio 21 Roberto Dal Bosco.

 

Ebbene, anche quella volta Camillo ci scrisse per informarci che Facebook aveva censurato. «Il tuo post viola i nostri Standard della community, pertanto è visibile solo a te».

 

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È stato ipotizzato che il motivo di questo inspiegabile ban ad potesse essere di questo tipo: la locandina della Tabarrata Nazionale era arrivata a Camillo via Whatsapp (altra società di Meta/Facebook) dal Dal Bosco, che è presidente della Civiltà del Tabarro, che ha una pagina Facebook che, al momento della disintegrazione della pagina Facebook di Renovatio 21 fu a sua volta disintegrata (anche se, oscuramente, non subito) assieme all’account personale. La pagina Facebook della Civiltà del Tabarro, come un’altra sull’organizzazione territoriale di Sante Messe tridentine, tornò online solo dopo l’ordinanza del giudice.

 

Si tratta, anche qui, di pure speculazioni: perché, lo ripetiamo, viviamo in una dimensione kafkiana in cui non sappiamo nulla di ciò che ci viene comminato, con la forza della profilazione intima di masse infinita di nostri dati personali, e con il disastro di vedersi togliere, nolenti o volenti, una parte consistente delle relazioni umane e professionali, che in larga parte passano oggi giocoforza sui social.

 

«La cornice dentro la quale si opera in rete è opaca e sine lege» ci ha scritto qualche giorno fa un lettore che di mestiere fa l’avvocato. «Tutti quanti siamo trattati con rispetto formalistico e brutalità sostanziale, al pari di qualunque suddito indiano ai tempi della dominazione britannica. Riguardo alle censure del web, la mia consapevolezza rasenta la rassegnazione».

 

È il sentimento che prova chiunque si sia affacciato per cinque minuti sulla questione, nel silenzio abissale della politica democratica, di fatto ricattata dal pensiero dello shadowban che può costare voti, con i nostri rappresentanti che quindi preferiscono l’inanità pusillanime alla difesa dello stato di diritto e soprattutto degli elettori, offerti quindi in sacrificio al Moloch elettronico.

 

Il problema è che non abbiamo visto ancora nulla: il grosso, credeteci, sarà quando cominceremo ad usare l’euro digitale. Di lì, ci sarà da prepararsi ad essere espulsi non da una piattaforma social, ma dalla piattaforma dell’esistenza umana.

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Immagine: Enrico Robusti, Studio di ritratto (Camillo Langone). Olio su tela, 30×40 cm, 2013; dettaglio.

Internet

Incredibili video realizzati con l’IA lanciata da pochi giorni

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Il generatore di video basato sull’Intelligenza Artificiale Sora 2 di OpenAI ha debuttato la scorsa settimana e ha conquistato i social media con clip incredibilmente iperrealistiche che hanno fatto sì che gli spettatori si interrogassero su ciò che vedono online e hanno fatto sbiancare gli studi di Hollywood.   Gli utenti sembrano averci preso gusto a fare video sul defunto fisico tetraplegico Stephen Hopkins, anche crudelmente.      

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Un altro modulo molto popolare è quello di esseri che vengono fermati dalla polizia – il filmato è come da una bodycam delle forze dell’ordine – e scappano via subito: ecco un gatto, Spongebob, Mario, un ammasso di prosciutto a fette.    

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Il CEO di OpenAI Sam Altman viene beccato a rubare in un negozio, tutto visto da una telecamera di sorveglianza. L’uomo poi cucina Pikachu alla griglia.    

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Animali che rubano alimentari nei supermercati.    

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Piace Hitler che fa stand-up comedy con l’altrettanto (teoricamente) defunto Tupac, rapper ammazzato una trentina di anni fa ma che tutti per qualche ragione ricordano.   Lo Hitlerro dimostra di saperci fare con lo skateoboardo, e pure di saper rispondere a muso duro a Michael Jackson in un ambiente che ricorda le trasmissione trash di Jerry Springer.  

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Pare che SoraAI abbia messo un filtro che impedisce di creare episodi di South Park, che gli utenti hanno generato automaticamente a bizzeffe.     Non manca la finta pubblicità degli anni ’90 per un giocattolo basato sull’isola dei pedofili di Jeffrey Epstein, con l’action figure del miliardario e di altri personaggi orrendi – l’aereo privato Lolita Express è incluso.  

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Ecco, infine, il futuro: le fake news, ma nel senso vero. Telegiornali fatti con l’IA. Un motivo in più per non credere nemmeno a quelli veri.     Quindi: non è solo Hollywood che sarà sostituita, disintermediata, distrutto: è tutto quanto. È la realtà stessa che sta per venire divorata da simulacri iperreali eruttati ad ogni minuto dall’IA.

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Cina

Pechino condanna a morte 16 gestori dei centri per le truffe online in Birmania

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il tribunale di Wenzhou ha giudicato colpevoli 39 imputati della famiglia Ming, originaria dello Stato Shan nel nord del Myanmar. Le accuse comprendono frode e traffico di droga con proventi stimati in oltre 10 miliardi di yuan. Tra i condannati a morte figurano il figlio e la nipote del patriarca Ming Xuechang, morto in circostanze controverse durante l’arresto. L’operazione si inserisce nella più ampia repressione di Pechino contro i gruppi criminali che operano in Myanmar.

 

Un tribunale cinese ha condannato a morte 16 membri della famiglia Ming, potente gruppo criminale della regione Kokang, nello Stato Shan del nord del Myanmar, coinvolto nei commerci illeciti legati ai centri per le truffe online, una questione a cui Pechino da tempo sta rispondendo con una dura repressione.

 

Secondo i media cinesi, il Tribunale intermedio di Wenzhou, nella provincia orientale di Zhejiang, ha riconosciuto colpevoli 39 imputati per 14 reati, tra cui frode, omicidio e lesioni volontarie. Le condanne sono state differenziate: 11 imputati hanno ricevuto la pena capitale immediata, cinque la condanna a morte con sospensione di due anni, 11 l’ergastolo e gli altri pene comprese tra i cinque e i 24 anni di carcere.

 

Per alcuni sono state inoltre disposte anche multe e la confisca dei beni.

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L’accusa ha ricostruito che, a partire dal 2015, la famiglia Ming ha sfruttato la propria influenza nella regione Kokang per costituire una fazione armata e creare diversi «parchi» composti da edifici dediti alle truffe online. I gruppi armati hanno stretto alleanze con altre bande per fornire protezione alle attività illecite del clan: truffe telefoniche, traffico di droga, prostituzione, gestione di casinò e giochi d’azzardo online. I proventi stimati da frodi e gioco d’azzardo superano i 10 miliardi di yuan, circa 1,4 miliardi di dollari, secondo l’accusa.

 

Al centro del processo è finita in particolare la «Crouching Tiger Villa», una base utilizzata per le truffe online di proprietà di Ming Xuechang, patriarca della famiglia. Il 20 ottobre 2023 le guardie del complesso aprirono il fuoco contro lavoratori che cercavano di fuggire: fra le vittime vi furono 14 cittadini cinesi, alcuni dei quali – secondo indiscrezioni non verificate – erano agenti di sicurezza sotto copertura inviati da Pechino.

 

Tra i condannati a morte figurano anche il figlio di Ming Xuechang, Ming Xiaoping (noto anche come Ming Guoping), e la nipote, Ming Zhenzhen. Non compare invece la figlia, Ming Julan, il cui arresto era stato annunciato in un primo momento ma non confermato nella successiva comunicazione ufficiale da parte della giunta birmana.

 

Il patriarca Ming Xuechang, 69 anni, era stato arrestato nel novembre 2023 insieme ad altri membri della famiglia, nel quadro della pressione esercitata da Pechino sul Myanmar per smantellare i sindacati criminali del Kokang.Secondo le autorità di Naypyidaw, Xuechang si sarebbe sparato durante l’arresto ed è morto in seguito per le ferite riportate. In passato era stato membro della Zona a statuto speciale del Kokang e deputato del parlamento statale dello Shan per l’Union Solidarity and Development Party (USDP), partito legato ai militari birmani.

 

Il caso della famiglia Ming si inserisce nella vasta campagna lanciata da Pechino contro le truffe telefoniche transnazionali. Il ministero della Pubblica sicurezza ha dichiarato che, solo nel periodo del 14° Piano quinquennale (2021-25), la polizia cinese ha risolto 1,74 milioni di casi di frode, smantellato oltre 2mila centri di truffe all’estero e arrestato più di 80mila sospetti.

 

In parallelo, anche la milizia legata a Pechino che controlla il Wa State, un’area anch’essa al confine tra Cina e Myanmar, ha di recente intensificato i rimpatri forzati verso la Cina: solo negli ultimi nove mesi sono state deportate 448 persone sospettate di frodi online, in una dozzina di operazioni coordinate con Pechino.

 

Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne.

Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Immagine da AsiaNews

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Internet

Israele paga gli influencer 7000 dollari a post sui social media USA

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Israele ha finanziato influencer per pubblicare contenuti sui social media al fine di migliorare la propria immagine negli Stati Uniti. Lo riporta la testata online Responsible Statecraft.   Come riportato da Renovatio 21, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha recentemente evidenziato l’importanza dei creatori di contenuti per mantenere il supporto allo Stato Ebraico, incontrando, a margine della sua problematica apparizione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, gli influencer filosionisti.   Martedì, Responsible Statecraft ha riportato che documenti presentati in conformità al Foreign Agents Registration Act (FARA) degli Stati Uniti hanno svelato i dettagli di una «campagna di influencer» gestita da una società di consulenza con sede a Washington che collabora con il ministero degli Esteri israeliano.   Le fatture inviate ad un gruppo mediatico tedesco, che coordina la campagna, indicano un finanziamento di 900.000 dollari tra giugno e novembre 2025 per un gruppo di 14-18 influencer. I documenti stimano tra 75 e 90 post in quel periodo, con un costo per post tra 6.143 e 7.372 dollari, secondo Responsible Statecraft. Non è stato reso noto quali influencer siano coinvolti.

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La società statunitense avrebbe coinvolto un ex portavoce delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) e un ex rappresentante della società israeliana di spyware NSO Group, produttrice del celeberrimo software-spia per smartphone Pegasus.   La settimana scorsa, Netanyahu ha dichiarato in una conferenza stampa che è essenziale rafforzare la «base di sostegno di Israele negli Stati Uniti» attraverso gli influencer, soprattutto su piattaforme come TikTok – di cui si è beato per l’acquisto da parte del miliardario filo-israeliano Larry Ellison – e X, posseduto dall’«amico» Elone Musk.   La campagna d’immagine di Israele si colloca in un contesto di diminuzione del sostegno negli Stati Uniti, in particolare riguardo alla guerra di Gaza. Un recente sondaggio del New York Times ha rivelato che il 60% degli americani ritiene che Israele debba porre fine al conflitto, e più della metà si oppone a ulteriori aiuti economici e militari allo Stato degli ebrei .   Alcuni legislatori, come la deputata repubblicana Marjorie Taylor Greene, hanno definito la situazione a Gaza un «genocidio» e si sono opposti a ulteriori aiuti a Israele.   Come riportato da Renovatio 21, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, pur continuando a sostenere Israele, ha recentemente ammesso che l’influenza della lobby israeliana, che un tempo aveva un «controllo totale» sul Congresso, è diminuita.  

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