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Geopolitica

Kurdistan, villaggi cristiani vittime dei raid turchi contro il PKK

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di Asianews.

 

 

Dall’inizio del 2020 almeno 25 villaggi nel nord Iraq si sono svuotati. I bombardamenti, seguiti da pesanti incendi, hanno distrutto piante, case e cimiteri. Uno scenario simile a quelli degli anni ’80. Padre Samir: uccise molte persone, solo perché si trovavano vicino a zone controllate dal PKK . Colpita una macchina che portava aiuti.

Secondo alcuni esperti locali, rilanciati da organizzazioni cristiane in rete e sui social, fra le zone più colpite vi sono i villaggi cristiani di Chalik, Bersiveh e Sharanish

Cresce la paura fra gli abitanti, anche cristiani, del Kurdistan iracheno lungo il confine con la Turchia, teatro di pesanti attacchi dell’aviazione di Ankara contro obiettivi del PKK (il Partito curdo dei lavoratori) rifugiati nei villaggi della provincia settentrionale di Duhok.

 

«I turchi – racconta ad AsiaNews padre Samir Youssef, parroco della diocesi di Amadiya – da mesi bombardano le nostre montagne per uccidere membri del PKKo attaccano i curdi, a prescindere dal fatto che trasportino armi, cibo o qualsiasi altra cosa».

 

La scorsa settimana, sottolinea il sacerdote, «hanno colpito una macchina che portava aiuti, nei pressi del villaggio cristiano di Araden»

Una violenza, prosegue il parroco di Enishke, che si è intensificata nell’ultimo periodo, come testimoniano il video e le foto pubblicate: «Nell’ultimo mese – spiega – hanno ucciso molto persone, solo perché si trovavano vicino a zone controllate dal PKK. In alcuni casi i bombardamenti hanno lambito anche le case della popolazione civile».

 

La scorsa settimana, sottolinea il sacerdote, «hanno colpito una macchina che portava aiuti, nei pressi del villaggio cristiano di Araden».

 

Da sottolineare che nella zona ancora oggi vivono centinaia di cristiani di Mosul e della piana di Ninive fuggiti nel 2014 in seguito all’ascesa dello Stato islamico (SI, ex ISIS). Jihadisti che, secondo le accuse, spesso muovevano indisturbati e venivano aiutati proprio dalla vicina Turchia.

Da sottolineare che nella zona ancora oggi vivono centinaia di cristiani di Mosul e della piana di Ninive fuggiti nel 2014 in seguito all’ascesa dello Stato islamico (SI, ex ISIS). Jihadisti che, secondo le accuse, spesso muovevano indisturbati e venivano aiutati proprio dalla vicina Turchia.

 

«Hanno attaccato diverse macchine – prosegue padre Samir – anche nella strada vicino ad Amadya. Nella zona vi è un’area, dietro le montagne, dove sorgono alcuni villaggi cristiani e che i turchi hanno bombardato con maggiore intensità. Lo stesso per altri villaggi a Zakho. Ho notizia di famiglie scappate dalle loro case, per sfuggire a questi attacchi». La speranza, aggiunge, è una reazione forte del governo di Baghdad contro la Turchia perché metta fine alle operazioni militari.

 

I raid aerei di Ankara contro basi del PKK in Iraq non sono una novità ed episodi simili si sono registrati anche nel 2007 e nel 2018.

 

Tuttavia, l’operazione lanciata in queste ultime settimane appare di una portata superiore a quelle precedenti e rientra nella politica «nazionalismo e islam» impressa dal presidente Recep Tayyip Erdogan in patria e all’estero.

 

L’agenzia ufficiale turca Anadolu ha celebrato le operazioni militari, le quali hanno permesso di “neutralizzare terroristi” e che “continueranno con determinazione” come recita una nota ufficiale.

L’operazione lanciata in queste ultime settimane appare di una portata superiore a quelle precedenti e rientra nella politica «nazionalismo e islam» impressa dal presidente Recep Tayyip Erdogan in patria e all’estero

 

Secondo alcuni esperti locali, rilanciati da organizzazioni cristiane in rete e sui social, fra le zone più colpite vi sono i villaggi cristiani di Chalik, Bersiveh e Sharanish.

 

L’obiettivo di queste operazioni militari è quello di far fuggire gli abitanti da queste zone, ormai pressoché deserte, per poter create delle basi turche da cui far partire operazioni mirate di terra contro elementi del PKK.

 

I bombardamenti, conclude una fonte, sono sempre seguiti da pesanti incendi che finiscono per distruggere tutte le piante, le abitazioni e persino i cimiteri. Dall’inizio del 2020 almeno 25 villaggi cristiani dell’Iraq settentrionale sono svuotati della loro popolazione originaria, con uno scenario che ricorda gli anni di tensione e conflitti fra il 1980 e il 1990.

 

 

 

 

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Geopolitica

Gli Stati Uniti sequestrano una petroliera al largo delle coste del Venezuela

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Il procuratore generale statunitense Pam Bondi ha annunciato il sequestro di una petroliera sospettata di trasportare greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran.

 

L’operazione, condotta al largo delle coste venezuelane, si inserisce in un’escalation delle attività militari americane nella regione, unitamente a raid contro quelle che Washington qualifica come imbarcazioni legate ai cartelli della droga.

 

«Oggi, l’FBI, la Homeland Security Investigations e la Guardia costiera degli Stati Uniti, con il supporto del Dipartimento della Difesa, hanno eseguito un mandato di sequestro per una petroliera utilizzata per trasportare petrolio greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran», ha scritto Bondi su X mercoledì.

 

Ha precisato che la nave era stata sanzionata «a causa del suo coinvolgimento in una rete di trasporto illecito di petrolio a sostegno di organizzazioni terroristiche straniere».

 

Nel video diffuso da Bondi si vedono agenti delle forze dell’ordine, pesantemente armati, calarsi dall’elicottero sulla tolda della nave. Secondo il portale di tracciamento MarineTraffic e vari media, l’imbarcazione è stata identificata come «The Skipper», che batteva bandiera della Guyana. Fonti come ABC News riportano che la petroliera, con una capacità fino a 2 milioni di barili di greggio, era diretta a Cuba.

 

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Gli Stati Uniti avevano sanzionato la The Skipper già nel 2022, accusandola di aver contrabbandato petrolio a beneficio del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniana e del gruppo militante libanese Hezbollah.

 

Un gruppo di parlamentari statunitensi ha di recente sollecitato un’inchiesta sugli attacchi condotti su oltre 20 imbarcazioni da settembre, ipotizzando che possano configurare crimini di guerra.

 

Il senatore democratico Chris Coons, intervistato martedì su MSNBC, ha accusato Trump di «trascinarci come sonnambuli verso una guerra con il Venezuela». Ha argomentato che l’obiettivo reale del presidente sia l’accesso alle risorse petrolifere e minerarie del paese sudamericano.

 

Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha rigettato le affermazioni di Trump sul presunto ruolo del suo governo nel narcotraffico, ammonendo Washington contro l’avvio di «una guerra folle».

 

Il Venezuela ha denunciato gli Stati Uniti per pirateria di Stato dopo che la Guardia costiera americana, coadiuvata da altre forze federali, ha abbordato e sequestrato una petroliera sanzionata nel Mar dei Caraibi.

 

Caracas ha reagito con durezza, definendo l’intervento «un furto manifesto e un atto di pirateria internazionale» finalizzato a sottrarre le risorse energetiche del Paese.

 

«L’obiettivo di Washington è sempre stato quello di mettere le mani sul nostro petrolio, nell’ambito di un piano deliberato di saccheggio delle nostre ricchezze», ha dichiarato il ministro degli Esteri Yvan Gil.

 

Il governo venezuelano ha condannato gli «arroganti abusi imperiali» degli Stati Uniti e ha giurato di difendere «con assoluta determinazione la sovranità, le risorse naturali e la dignità nazionale».

 

Da anni Caracas considera le sanzioni americane illegittime e contrarie al diritto internazionale. Il presidente Nicolas Maduro le ha definite parte del tentativo di Donald Trump di rovesciarlo e ha respinto come infondate le accuse di legami con i narcos, avvertendo che qualsiasi escalation militare condurrebbe a «una guerra folle».

 

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Geopolitica

Putin: la Russia raggiungerà tutti i suoi obiettivi nel conflitto ucraino

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La Russia porterà a compimento tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale in Ucraina, ha dichiarato il presidente Vladimir Putin.   Tra gli scopi principali enunciati da Putin nel 2022 vi sono la protezione degli abitanti delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk dall’aggressione delle forze di Kiev, nonché la smilitarizzazione e la denazificazione dell’Ucraina.   «Naturalmente porteremo a termine questa operazione fino alla sua logica conclusione, fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale», ha affermato Putin in videocollegamento durante la riunione del Consiglio presidenziale per i diritti umani di martedì.   Il presidente russo quindi ricordato che il conflitto è scoppiato quando l’esercito ucraino è stato inviato nel Donbass, regione storicamente russa che nel 2014 aveva respinto il colpo di Stato di Maidan sostenuto dall’Occidente. Questo, secondo il presidente, ha reso inevitabile l’intervento delle forze armate russe per porre fine alle ostilità.

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«Si tratta delle persone. Persone che non hanno accettato il colpo di Stato in Ucraina nel 2014 e contro le quali è stata scatenata una guerra: con artiglieria, armi pesanti, carri armati e aviazione. È lì che è iniziata la guerra. Noi stiamo cercando di mettervi fine e siamo costretti a farlo con le armi in pugno».   Putin ha ribadito che per otto anni la Russia ha cercato di risolvere la crisi per via diplomatica e «ha firmato gli accordi di Minsk nella speranza di una soluzione pacifica». Tuttavia, ha aggiunto la settimana scorsa in un’intervista a India Today, «i leader occidentali hanno poi ammesso apertamente di non aver mai avuto intenzione di rispettarli», avendoli sottoscritti unicamente per guadagnare tempo e permettere all’Ucraina di riarmarsi.   Mosca ha accolto positivamente il nuovo slancio diplomatico impresso dal presidente statunitense Donald Trump, che ha proposto il suo piano di pace in 28 punti come base per un’intesa.   Lunedì Trump ha pubblicamente invitato Volodymyr Zelens’kyj ad accettare le proposte di pace, lasciando intendere che il leader ucraino non abbia nemmeno preso in esame l’ultima offerta americana.  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0) 
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Lavrov elogia la comprensione di Trump delle cause del conflitto in Ucraina

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Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato che il presidente statunitense Donald Trump rappresenta l’unico leader occidentale in grado di cogliere le vere motivazioni alla base del conflitto ucraino.

 

Parlando mercoledì al Consiglio della Federazione, la camera alta del parlamento russo, Lavrov ha spiegato che, mentre gli Stati Uniti manifestano una «crescente impazienza» verso il percorso diplomatico mirato a cessare le ostilità, Trump è tra i pochissimi esponenti occidentali a comprendere le dinamiche che hanno originato la crisi.

 

«Il presidente Trump… è l’unico tra tutti i leader occidentali che, subito dopo il suo arrivo alla Casa Bianca nel gennaio di quest’anno, ha iniziato a dimostrare di aver compreso le ragioni per cui la guerra in Ucraina era stata inevitabile», ha dichiarato.

 

Lavrov ha proseguito sottolineando che Trump possiede una «chiara comprensione» delle dinamiche che hanno forgiato le politiche ostili nei confronti della Russia da parte dell’Occidente e dell’ex presidente statunitense Joe Biden, strategie che, a suo dire, «erano state coltivate per molti anni».

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Il ministro ha indicato che «si sta avvicinando il culmine dell’intera saga» ucraina, affermando che Trump ha sostanzialmente ammesso che «le cause profonde identificate dalla Russia devono essere eliminate».

 

Il vertice della diplomazia russa ha menzionato in modo specifico le storiche riserve di Mosca sull’aspirazione ucraina all’adesione alla NATO e la persistente violazione dei diritti della popolazione locale.

 

Lavrov ha poi precisato che Trump resta «l’unico leader occidentale a cui stanno a cuore i diritti umani in questa situazione», contrapposto ai governi dell’UE che, secondo Mosca, evadono il tema. Ha svelato che la roadmap statunitense per un’intesa includeva esplicitamente la tutela dei diritti delle minoranze etniche e delle libertà religiose in Ucraina, «in linea con gli obblighi internazionali».

 

Tuttavia, sempre secondo Lavrov, tali clausole sono state indebolite nel momento in cui il documento è stato sottoposto all’UE: il testo è stato modificato per indicare che l’Ucraina dovrebbe attenersi agli standard «adottati nell’Unione Europea».

 

Da tempo Mosca denuncia la soppressione della lingua e della cultura russa da parte di Kiev, oltre ai sforzi per limitare i diritti delle altre minoranze nazionali, e al contempo accusa i leader ucraini di fomentare apertamente il neonazismo nel paese.

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Immagine dell’Ufficio stampa della Duma di Stato della Federazione Russa via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

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