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Il New York Times: l’FBI aveva infiltrati nella rivolta del Campidoglio del 6 gennaio 2021
Il Federal Bureau of Investigation (FBI) potrebbe aver avuto fino a otto infiltrati nella confraternita di destra «Proud Boys» prima della rivolta di Capitol Hill il 6 gennaio 2021. Lo riporta il maggior quotidiano americano e mondiale, il New York Times.
Il NYT scrive che cinque membri del gruppo saranno processati il mese prossimo per il loro presunto coinvolgimento nell’attacco.
Secondo le dichiarazioni del tribunale «pesantemente censurate» citate dall’organo di stampa, la difesa di quei cinque membri ha sostenuto che alcune delle informazioni fornite dalle fonti dell’FBI «erano favorevoli ai loro sforzi per difendere i loro clienti dalle accuse di sedizione» ed erano state «impropriamente trattenute da pubblici ministeri» fino a poco tempo fa.
La rivelazione del grande quotidiano di Nuova York è arrivata tra le affermazioni di alcuni repubblicani e commentatori conservatori secondo cui la rivolta del Campidoglio sarebbe una sorta di operazione false flag, un complotto contro l’allora presidente Donald Trump e i suoi sostenitori perpetrato anche con l’ausilio dell’FBI.
Poiché i documenti depositati dal tribunale sono soggetti a un «ordine di protezione altamente restrittivo», il NYT ha affermato che non è stato possibile sapere quali dettagli gli informatori hanno condiviso con l’FBI o come potrebbe aiutare gli imputati.
L’ex leader dei Proud Boys, Enrique Tarrio, è accusato di sedizione, insieme a Joseph Biggs, Ethan Nordean, Zachary Rehl e Dominic Pezzola. Il loro processo inizierà il 12 dicembre.
Secondo il Times, i pubblici ministeri hanno negato le accuse secondo cui il governo avrebbe cercato di occultare informazioni relative alla collusione. Affermano inoltre che le informazioni in questione non erano direttamente rilevanti per il caso Proud Boys.
Il giornale ha precedentemente riferito che l’FBI aveva informatori sia nei Proud Boys che nella milizia Oath Keepers, un altro gruppo presumibilmente coinvolto nell’attacco al Campidoglio.
Tuttavia, scrive l’articolo «non è emersa alcuna prova» che suggerisca che l’FBI abbia avuto un ruolo nella rivolta del Campidoglio.
Come ha scritto recentemente il giornalista Matt Taibbi, l’FBI da forza dell’ordine con poteri investigativi si è trasformato in un’agenzia di spionaggio interno, un po’ che lo è stata nel decennio di Edgar J. Hoover, quando la reputazione del Bureau tra la popolazione americana era pessima. Si dovette procedere con film e serie TV (Il Silenzio degli Innocenti, X-Files e tanti altri prodotti ancora oggi) per riparare l’immagine dell’FBI come ente intrusivo, soverchiante, ingiusto.
Abbiamo visto, di recente, un raid nella casa di Mar-a-Lago dell’ex presidente Donald Trump e pure, meno pubblicizzate, perquisizioni pesanti a casa di almeno 35 suoi alleati. Il sentimento contro l’agenzia è tale che alcuni commentatori sono arrivati a chiedere di «sciogliere l’FBI».
C’è stato inoltre il caso del giornalista americano James Meek, specializzato in rivelazioni dell’Intelligence, «desaparecido» per mesi dopo un raid FBI in casa sua, e solo da pochi giorni rivisto a casa di sua madre senza alcuna voglia di spiegare cosa sia successo.
L’FBI avrebbe inoltre, secondo il racconto del CEO Mark Zuckerberg nel podcast di Joe Rogan, consigliato a Facebook di «limitare» la distribuzione del «laptop infernale» di Hunter Biden durante la corsa elettorale del padre Joe Biden. Secondo il New York Post, Facebook trasmetteva i dati di utenti ascrivibili alla «destra conservatrice» al reparto del terrorismo interno FBI.
Sette mesi fa l’FBI fu umiliato in tribunale nel famoso processo per il tentato rapimento (solo programmato, mai agito davvero) di un gruppo di spostati, alcuni dei quali tecnicamente senzatetto, del governatore del Michigan Gretchen Whitmer: emerse che il complotto era gestito dagli stessi agenti FBI.
Un anno fa una gola profonda FBI dichiarò che «la divisione antiterrorismo dell’FBI sta compilando e classificando le valutazioni delle minacce relative ai genitori, incluso un documento che indirizza il personale dell’FBI a utilizzare un “tag di minaccia” specifico per tenere traccia di potenziali indagini». In pratica, il focus dell’FBI si stava spostando dai terroristi (come gli islamisti) ai genitori americani che si oppongono a lockdown e indottrinamento gender e neorazzista a scuola.
Non dimentichiamo le rivelazioni fatte dal CEO di Pfizer Albert Bourla, FBI e CIA gli provvedevano briefing aggiornati riguardo alla «diffusione della disinformazione».
Come riportato da Renovatio 21, la storia della rivolta del Campidoglio del 6 gennaio come piano coordinato da agenti FBI è risalente, con un nome che salta fuori spessissimo, tale Ray Epps, personaggio filmato a varie riprese nelle ore della rivolta. Per esempio, una clip della sera prima, lo vede arringare i manifestanti dicendo che l’indomani sarebbero dovuti penetrare nel campidoglio; la folla, in risposta, gli canta in coro «Fed, Fed, Fed»: già al momento sembrava insomma un agente dell’FBI.
Daily Reminder: Fed Ray Epps has not been subpoenaed by the Jan 6 committee. ???? pic.twitter.com/vkEHY9ky6L
— Doug ???????? (@ProudPatriot247) October 13, 2022
Nonostante il caso sia finito trattato anche da alcuni politici (come il senatore repubblicano Ted Cruz), Ray Epps non è mai stato incriminato, a differenza di altri che sono stati fermati per molto meno. Anzi, proprio il New York Times, assai bizzaramente, ha fatto uscire un articolone con simpatetico ritratto di Epps (che sulla carta è un trumpiano estremista con cappello rosso di ordinanza) dove si negava la sua natura di infiltrato del 6 gennaio.
Quanto al vero significato di quanto accaduto quel giorno, Renovatio 21 ritiene sia stata una grande trappola diretta, più che ai sostenitori del trumpismo, ai militari americani, dove il culto di Trump si era diffuso molto. Nel momento dell’incertezza dovuta ai problemi del voto, il 6 gennaio funse da cartina tornasole per capire se nell’esercito – all’epoca capeggiato dal generale Milley che intanto parlava con la Pelosi e gli omologhi cinesi – vi fosse la possibilità di un ammutinamento per sostenere un possibile colpo di Stato da parte di chi non riteneva le elezioni legittime.
Tale idea è molto ben raccontata nella serie di documentari di Tucker Carlson Patriot Purge, la «purga dei patrioti».
Il finale lo stiamo vedendo in questi giorni: nel discorso più violento fatto da Biden contro la metà della popolazione del suo Paese – che non lo ha votato – il noto speech battezzato «Dark Brandon», al suo lato vi erano, ben visibili, due marines in alta uniforme…
Immagine di Tyler Merbler via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)
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Generale Flynn: valutazione strategica della rivoluzione colorata in America
Renovatio 21 pubblica questo scritto apparso su Substack del generale Michael Flynn.
Il popolo americano ha appena tirato il primo respiro dopo essere sopravvissuto a un tentativo di soffocare la Repubblica attraverso una campagna culturale di ispirazione marxista, condotta in gran parte attraverso l’amministrazione statale, i media, il mondo accademico e gli elementi politicizzati della burocrazia della sicurezza nazionale. La maggior parte dei cittadini non se ne è resa conto appieno mentre accadeva. Molti membri della comunità dell’Intelligence l’hanno accettato passivamente o l’hanno promosso attivamente. Gli architetti di questo progetto non hanno ancora finito, ma il loro impegno è stato danneggiato e ritardato. È solo per grazia di Dio che il Paese è arrivato fino a questo punto.
La versione americana della Rivoluzione Culturale è distinta dal modello maoista che devastò la Cina nel XX secolo. Non si coalizzò attorno a una singola figura rivoluzionaria carismatica. Si diffuse invece lungo le arterie della burocrazia, dell’istruzione superiore, delle strutture aziendali e delle reti di attivisti. La lunga marcia attraverso le istituzioni, come descritta da Antonio Gramsci, divenne il modello operativo. Invece di Guardie Rosse che riempivano le strade agli ordini di un leader supremo identificabile, gli Stati Uniti hanno sperimentato una convergenza coordinata di agenzie, ONG, fondazioni, organi di stampa e fronti di attivisti, tutti promotori dello stesso progetto ideologico sotto etichette diverse.
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Poiché le agenzie federali differiscono notevolmente per dimensioni, missione, cultura e resistenza interna, questa rivoluzione si è sviluppata in modo disomogeneo. Non ha mai raggiunto il dominio totale in un unico colpo decisivo. Al contrario, ha progredito con conquiste frammentarie e ha subito sconfitte frammentarie.
Ovunque il progetto ideologico conquistasse un dipartimento delle risorse umane, un percorso di formazione, un sistema scolastico pubblico o una piattaforma mediatica centrale, incontrava resistenza nei governi statali, nei media indipendenti, nei singoli tribunali e nelle reti di cittadini che si rifiutavano di conformarsi. Questa frammentarietà nell’attuazione ha rallentato il collasso e ha dato al popolo americano il tempo di rendersi conto di cosa stava accadendo e di reagire.
Anche mentre queste battaglie si svolgevano pubblicamente, correnti più oscure si muovevano sotto la superficie. Ora valutiamo che migliaia di dipendenti federali religiosi e conservatori siano stati identificati in modo discreto e indirizzati a un’entità federale poco nota, la Pre-Trial Services Agency. I resoconti e la documentazione iniziale indicano che questa agenzia potrebbe essere stata utilizzata per catalogare individui esclusivamente sulla base di ideologia e convinzioni religiose, con il pretesto del 6 gennaio e della non conformità alle vaccinazioni. L’intenzione sembra essere stata non solo la rimozione amministrativa, ma anche la potenziale criminalizzazione. Questa questione richiede un’indagine immediata e trasparente da parte di qualsiasi futura amministrazione che affermi di prendere sul serio lo stato di diritto.
Per comprendere il contesto più ampio, è necessario definire cosa intendiamo con il concetto di stato sociale. Non ci limitiamo a descrivere i programmi sociali tradizionali. Ci riferiamo invece a una costellazione di gruppi di attivisti professionisti completamente finanziati che si presentano come cause separate ma in realtà formano un unico blocco rivoluzionario. Nell’ultimo decennio, le organizzazioni sotto le insegne dell’antifascismo, della giustizia razziale, del femminismo radicale, dell’aborto su richiesta, di alcune fazioni LGBTQ+, dell’estremismo ambientalista e della difesa del controllo delle armi hanno mostrato una notevole coesione. Condividono donatori, personale, strutture narrative e tattiche di strada. I loro membri si sovrappongono. I loro messaggi sono sincronizzati. Si sostengono rapidamente a vicenda nelle campagne e nelle proteste.
Questi gruppi si presentano come movimenti di base. In realtà, funzionano molto più come una casta rivoluzionaria professionalizzata. Il loro nucleo non è composto da cittadini comuni, ma da attivisti qualificati che considerano l’agitazione un’occupazione a tempo pieno. Sono finanziati da un mix di fondazioni private, ricchi donatori e, in alcuni casi, risorse federali e statali. Fungono da braccio operativo e digitale di un progetto ideologico più ampio il cui obiettivo non è la riforma, ma la trasformazione. Sono uniti da una visione del mondo esplicitamente rivoluzionaria e implicitamente marxista, anche se molti dei loro militanti non usano questo linguaggio.
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All’interno di questa struttura, Diversità, Equità e Inclusione svolgono un ruolo centrale. La DEI non è una moda aziendale innocua. È un sistema di armi culturali e psicologiche. In pratica, la formazione e l’applicazione della DEI operano come un meccanismo di condizionamento comportamentale, utilizzando sensi di colpa, sessioni di lotta e la costante minaccia di punizioni sociali o professionali per riportare gli individui alla normalità. Il linguaggio delle microaggressioni, dei privilegi e dei pregiudizi sistemici funziona come una forma blanda di controllo ideologico. Costringe le persone a monitorare il proprio linguaggio, a mettere in discussione i propri istinti e a sottomettersi a un insieme in continua espansione di parole proibite e rituali obbligatori.
Questa non è inclusione. È conformismo forzato mascherato da virtù. I risultati all’interno delle istituzioni sono paura, silenzio e autocensura. Le persone imparano rapidamente che non si possono porre domande specifiche, affermare certi fatti e riconoscere certe prospettive senza mettere a repentaglio la propria carriera. Questo non è un effetto collaterale accidentale. È il punto. Se riesci a costringere le persone a mentire pubblicamente su realtà evidenti, le possiedi. La DEI è quindi meglio intesa come un’applicazione interna della rieducazione politica, in linea con gli approcci marxisti e neomarxisti al cambiamento culturale.
Redwashing è il termine che usiamo per la cancellazione sistematica di materiale che espone la storia, le tattiche e le conseguenze del marxismo. Quando l’educazione civica e la storia tradizionale americana vengono rimosse dai programmi scolastici e sostituite da narrazioni di risentimento, si prepara il terreno per una nuova ideologia. Quando la storia delle atrocità socialiste viene sepolta o ignorata, intere generazioni perdono la capacità di riconoscere modelli che i loro nonni avrebbero visto immediatamente. Questo non è accaduto per caso. L’istruzione superiore, i media e l’intrattenimento sono diventati i principali obiettivi di questa riscrittura della memoria.
Nel 2020, gli Stati Uniti erano stati sottoposti a decenni di questo rimodellamento culturale. Il Paese era arrivato quell’anno già indebolito e diviso. L’impatto combinato di una pandemia globale, di una campagna d’informazione del Partito Comunista Cinese e di disordini civili senza precedenti aveva portato il Paese a uno stato di esaurimento. Le forze dell’ordine erano sotto organico e demoralizzate. Il sistema sanitario era al limite delle sue capacità. Le scuole di ogni ordine e grado erano chiuse o ridotte a schermi. Le funzioni basilari che contraddistinguono una nazione del primo mondo erano state messe sotto assedio.
Queste condizioni erano ideali per gli attori rivoluzionari che comprendevano il concetto bolscevico della scintilla. Nella Cina di Mao, le brigate giovanili divennero strumenti di caos una volta che l’autorità della polizia fu smantellata e le strutture tradizionali indebolite. Negli Stati Uniti, le politiche che prevedevano il definanziamento e la delegittimazione della polizia, combinate con la protezione politica dei rivoltosi, produssero qualcosa di simile nello spirito. Le rivolte a catena del 2020 non furono un’eruzione spontanea. Furono una fase di condizionamento, progettata per minare la fiducia dell’opinione pubblica, normalizzare la violenza politica da sinistra e preparare il terreno emotivo per una crisi più mirata.
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Quella crisi è scoppiata il 6 gennaio. In questo caso, è essenziale comprendere la dottrina della violenza moderata. Questa tattica cerca di provocare un avversario in un atto disperato o imprudente che può poi essere utilizzato come arma per giustificare una repressione. Per un anno, gli americani hanno visto le loro città bruciare e si sono sentiti dire che si trattava di un evento per lo più pacifico. Poi, in un solo giorno, una protesta sul terreno del Campidoglio è stata presentata come un’insurrezione, una minaccia esistenziale alla «democrazia» e il fondamento morale per una campagna di arresti, sorveglianza e persecuzioni durata anni. Le rivolte della sinistra si sono fermate all’istante. La narrazione è cambiata da un giorno all’altro. Questo brusco cambiamento rivela un disegno, non una coincidenza.
Il 6 gennaio fu il punto di svolta pianificato che permise all’alleanza tra burocrazia e attivisti di dichiarare aperta la caccia agli americani conservatori e religiosi. Divenne la lente attraverso cui ogni dissenso poteva essere etichettato come pericoloso e sleale. Le persone che entrarono al Campidoglio quel giorno, molte delle quali pacifiche e sconcertate, divennero il pretesto per un progetto più ampio volto a rimodellare l’apparato di sicurezza nazionale dall’interno.
Ciò che accadde in seguito andò oltre l’attivismo di strada o la cattura culturale. Entrò nel flusso sanguigno dello Stato di sicurezza nazionale. Le conseguenze del 6 gennaio, il crollo dell’Afghanistan e gli obblighi federali sui vaccini si combinarono in un tentativo senza precedenti di rimodellare la forza lavoro federale attraverso la coercizione, l’intimidazione e la purificazione ideologica. All’interno della CIA e in tutto l’apparato di sicurezza nazionale, la rivoluzione interna raggiunse il suo apice, per poi iniziare a frantumarsi a causa delle sue stesse contraddizioni.
Il collasso sociale non è mai un evento isolato. È un processo.
Michael T. Flynn
Ex generale statunitense, già consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente degli Stati Uniti
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Immagine di Mike Shaheen via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
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La CIA, il KGB e il mistero di Igor Orlov detto Sasha
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Il capo dell’Intelligence iraniana accusa Stati Uniti e Israele di complottare per assassinare Khamenei
Il capo dei servizi segreti iraniani ha accusato Stati Uniti e Israele di aver ordito un complotto per assassinare la Guida Suprema Ayatollah Ali Khamenei, al fine di destabilizzare l’Iran, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa ISNA.
Sabato il ministro dell’Intelligence Esmail Khatib ha dichiarato che «il nemico cerca di colpire il leader supremo, a volte con tentativi di omicidio, a volte con aggressioni ostili», alludendo esplicitamente a Washington e Tel Aviv. Non è chiaro se si riferisse a un piano specifico, ma tali accuse pubbliche su minacce alla vita di Khamenei erano rare prima della guerra di 12 giorni tra Israele e Iran di giugno.
In quel conflitto, i raid israeliani hanno eliminato diversi alti ufficiali e scienziati nucleari iraniani, culminando in un cessate il fuoco mediato dagli USA il 24 giugno. Il premier Benjamin Netanyahu ha rivendicato gli attacchi come necessari per impedire a Teheran di sviluppare armi nucleari – una linea condivisa da Washington, che il 22 giugno si era unita ai bombardamenti su impianti nucleari iraniani. L’Iran, che nega ambizioni nucleari militari, ha bollato le operazioni come ingiustificate.
Khatib ha ammonito che «chi agisce in questa direzione, consapevolmente o meno, è un agente infiltrato del nemico». Ha poi rivelato che Israele sta affrontando «un’epidemia di infiltrazioni e spionaggio a favore dell’Iran nelle sue istituzioni», citando l’arresto recente di un ufficiale dell’aeronautica israeliana accusato di tradimento per Teheran. Secondo il ministro, l’Iran ha acquisito documenti segreti su programmi nucleari e sicurezza israeliana.
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Per Khatib, questa falla nel controspionaggio israeliano, unita alla «ferma posizione» iraniana durante la guerra, segnala un mutamento negli equilibri di potere regionali.
All’inizio dell’anno Netanyahu aveva smentito voci su un veto opposto dal presidente Donald Trump a un piano israeliano per eliminare Khamenei durante il conflitto, aggiungendo tuttavia che un tale strike «avrebbe posto fine alla guerra». Trump aveva replicato con minacce, definendo Khamenei un «bersaglio facilissimo» e precisando che Washington non lo avrebbe «eliminato, almeno non ora»; in seguito, su Truth Social, ha vantato di aver risparmiato al leader iraniano «una morte molto brutta e ignominiosa».
Come riportato da Renovatio 21, la Guida Suprema della Rivoluzione rispose al presidente americano promettendo «danni irreparabili» agli USA e annunciando che la Repubblica Islamica non avrebbe accettato una pace imposta.
Più tardi sarebbe emerso che lo stesso Trump avrebbe posto un veto al piano israeliano di assassinare l’ayatollah.
Khamenei, 86 anni, guida suprema dell’Iran dal 1989, detiene l’autorità ultima su ogni aspetto dello Stato. A inizio anno aveva definito «né saggio, né intelligente, né onorevole» iniziare dei colloqui con il presidente statunitense.
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Immagine di Mehr News Agency via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
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