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Economia

Il collasso delle banche è per portarci alla moneta digitale

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Mentre scrivo pare sia partito in Europa il domino delle banche. Che il contagio si fermi a quelle piccole, o prosegua tirando giù istituti nazionali, alla fine non cambia molto.

 

La Silicon Valley Band, come è stato notato, non è una banca qualsiasi: ha in pancia tutto il danaro che il Venture Capital – concentrato quasi tutto in uffici a Sandhill Road, la via che porta a Stanford – e quindi con la Banca vanno a morire, perché impossibilitate di ritirare il proprio danaro, centinaia, migliaia di startup tecnologiche. È il collasso dell’intero settore tecnologico californiano, quello che di fatto governa il mondo. Lo avete visto anche voi: da mesi, Google, Facebook e compagnia licenziano decine di migliaia di dipendenti.

 

I venture capitalist in questi ultimi giorni twittavano impazziti: salvataggio bancario subito! Altrimenti, i loro investimenti sarebbero andati in fumo. Detto, fatto: Biden ha proceduto con il bailout. Il presidente senile si è fatto riprendere in TV con tutta l’ufficialità della Casa Bianca: il sistema bancario è al sicuro. Eccerto, detto da lui, si fidano tutti.

 

Si tratta del secondo più grande crack bancario della storia d’America. Quello della banca Signature, che è seguito di poco, è il terzo. La situazione è senza precedenti.

 

Pare chiaro che né alla SVB né alla Signature sapevano cosa stessero facendo. Con la FED che stampa danaro, in realtà, non sapevano dove metterlo. Potevano occuparsi di altro. Nel 2020 donarono a Black Lives Matter e affini 73 milioni di dollari.

 

Poco prima del crack, la SVB sui social mostrava le foto del «ritiro» per l’uguaglianza delle donne della banca, andate a sciare in una località di prestigio. La Signature ha prodotto video woke, con balletti e video musicali dei dipendenti, che vanno ben al di là del cringe. La stessa banca pochi mesi prima faceva un evento, forse ancora visibile in rete, sui pronomi gender da utilizzare tra i colleghi e con i clienti.

 

 

Tutto facevano, meno che fare le banche. Il Daily Mail ha scritto che il board della SVB era costituito da donne che come competenza avevano l’essere tutte mega-donor (cioè grandi donatrici) dei Clinton e di Obama. In rete tutti si chiedono come sia stato possibile il crack, visto che a bordo c’erano anche persone che avevano testimoniato da vicino il collasso della Lehman Brothers nel 2008.

 

La Silicon Valley Bank, del resto, non veniva da un brutto periodo. Aveva asset per 40 miliardi di dollari nel 2019. Con la pandemia, e i super affari conseguenti della Silicon Valley che serviva l’umanità rinchiusa in internet e nei propri appartamenti in lockdown, arrivò nel 2022 alla cifra di 221 miliardi. Davvero, i soldi non sapevano dove metterli, il tracollo deve essere stato repentino, ma non troppo: il CEO ed altri hanno venduto le loro azioni, ricevendo in cambio milioni, prima del patatrac. Siamo alle solite: specie se osserviamo le scene della gente che va allo sportello e, di contro, gli impiegati chiamano la polizia.

 

Lo spezzatino immediato ha visto la HSBC – la Banca di Hong Kong e Shanghai, antica istituzione britannica coinvolta nella guerra dell’oppio un secolo e mezzo fa e nel riciclo dei miliardi dei narcos di recente – comprarsi il ramo della SVB in Albione: per una sterlina. Una storia che abbiamo già sentito… e che ricorderemo tra un attimo.

 

Ora, qualcuno in America parla di una situazione, amministrativa e mediatica, che quasi chiamava questo fallimento. Lo «specialista» TV Jim Cramer, volto del canale anti-Trump MSNBC, consigliava i titoli SVB e Signature ancora poche settimane fa. Tucker Carlson ieri sera si è lasciato scappare che sembra quasi che l’amministrazione Biden invitasse questo piccolo disastro per le banche regionali, mentre le grandi banche andrebbero benissimo. Di nostro abbiamo captato qualche segnale, non sappiamo quanto credibile, che punta il dito verso Peter Thiel e i suoi fondi di investimento, che avrebbero fatto muovere capitali nella SVB di modo da generare il caos.

 

Di fatto c’è che in borsa il giorno dopo l’annuncio della fine di SVB sono crollate tutte le banche regionali. Western Alliance,  -75%; First Republic, -65%; Zions Bancorp, -43%; PacWest, -41%; Comerica, -33%; Fifth Third, -20%. Le contrattazioni sono state quindi fermate.  Ma il destino del credito regionale USA pare segnato.

 

Scusate, ma questa situazione ci ricorda qualcosa. Le piccole banche spariscono… e vengono ingollate dai grandi istituti.

 

Dov’era successo? Ah, sì, in Italia. Ricorderete: al governo c’era Renzi, che con un decreto toglie il voto capitario alle Banche Popolari e obbliga quelle con attivi superiori a 8 miliardi a diventare società per azioni nel giro di un anno e mezzo dalle disposizioni di Bankitalia. «Abbiamo un sistema bancario molto solido, la nostra operazione sulle banche popolari lo rafforzerà ancora di più», disse il premier in un’intervista al settimanale L’Espresso, testata allora posseduta da Carlo de Benedetti. Particolare non privo di significato: Renzi fu attaccato perché, durante un colloquio con il finanziere piddino svizzero già FIAT e Rothscild, avrebbe fornito informazioni privilegiate che lo avrebbero favorito.

 

Il decreto, scrive Il Fatto, fu «un terremoto: le prime 10 [Banche popolari] si devono quotare in Borsa e trasformarsi in Spa, abbandonando il voto capitario (una testa un voto a prescindere dal numero di azioni) che le rendeva non scalabili. Un pezzo del credito italiano viene consegnato al mercato, acquisendo valore da un giorno all’altro».

 

«La settimana prima del decreto, elaborato da Bankitalia, i titoli di alcune popolari già quotate hanno strani rialzi (Etruria sale del 65%)». Già: Etruria. Ricordate?

 

Non c’è solo De Benedetti. L’11 marzo 2015 l’autorità di controllo CONSOB sente Serra, capo di un hedge fund londinese e sostenitore delle Leopolde di Renzi, «nell’ambito dell’indagine sul possibile abuso di informazioni privilegiate relative all’acquisto di quote in diversi istituti popolari».

 

La fine è nota. Dopo scandali vari (come la scoperta dei prestiti «baciati») vengono disintegrati quasi tutti i banchi popolari maggiori. UBI Banca si prende Etruria. La Banca Popolare di Bari viene salvata direttamente dallo Stato. Le due venete, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza (quest’ultima, per anni, apparsa come invincibile) vengono assorbite da Intesa San Paolo. Vengono comprate per un euro – ah, ecco dove avevamo sentito quella storia.

 

Molti risparmiatori, che si erano fatti convincere ad investire nella banca invece che tenersi il conto corrente, nel processo hanno perso tutto. Tutto: un’intera vita di risparmi, senza averne una vita di riserva per rifarsi. I casi sono talvolta tremendi: non c’è solo il nonno che vuole comprare l’appartamento al nipote, c’è la madre che non ha più i soldi per curare il cancro della figlia. Storie così. Gente ingenua? No, si erano fatti persuadere perché la banca popolare, piccola ed amichevole, era una dolce certezza in un mondo sempre più instabile.

 

All’epoca avevo parlato con una persona addentro alle cose delle popolari disintegrate. Un professionista lucido e tranquillo – mille anni luce dal partigiano o dal complottista. Il suo discorso era semplice. Mi diceva che il diktat contro le popolari era nato a Francoforte, alla BCE, e da qui trasmesso a Bankitalia. C’era il fatto che alcune banche dei laender, le banche regionali tedesche, erano saltate con la catastrofe del 2008. Lo stesso anche per alcuni istituti britannici. Tutti salvati dallo Stato. Le popolari italiane, invece, avevano retto. Farle fuori faceva parte di una logica che trascendeva logiche nazionali. Si trattava, diceva, un progetto di riordino e accentramento del credito che aveva portata vastissima. Poteva anche esserci stato il caso che avessero illuso qualche pezzo grosso che la sua popolare sarebbe sopravvissuta. Invece fu il bagno di sangue generale, senza pietà alcuna.

 

Ora, rammento questa chiacchierata di un pranzo di lustri fa solo per dire che, con probabilità, stiamo assistendo allo stesso fenomeno, solo su scala americana.

 

Ho, però, un grande dubbio. In Italia, quella volta, a beneficiare della sparizione dei piccoli istituti furono le grandi banche. Mentre scrivo, in Europa le Borse sono in caduta libera.

 

Credit Suisse è collassata, mandando in fumo 355 miliardi. Commerzbank e Deutsche Bank stanno perdendo quasi l’8%. La francese Société Generale perde oltre il 10% e BNP Paribas il 9,8%. In Italia Unicredit ed Intesa Sanpaolo perdono il 7%, Unipol il 5%, Banco BPM il 5,85%.

 

È partito il contagio? Può essere. Tuttavia crediamo che, arrivati a questo punto, a beneficiarne non saranno più i pesci grossi, né in Europa, né in USA. Non vi sarà una grande banca che comprerà quella in difficoltà (come con le popolari), o anche se sarà così, si tratterà solo di un passaggio, di uno strumento temporaneo.

 

Perché appare chiaro che una nuova grande crisi finanziaria non potrà far altro che chiamare la soluzione già invocata da tutte le élite, la CBDC: Central Bank Digital Currency, la moneta elettronica emessa dalle Banche Centrali nazionali, ovvero il «Bitcoin di Stato».

 

Su Renovatio 21, ne abbiamo parlato ad nauseam, e sappiamo che, in Europa, il lancio dell’eurodigitale è definito «inevitabile» dalla stessa BCE, e correrà su piattaforme informatiche dove – sorpresa – viaggiava il green pass. Sistemi concepiti e realizzati prima della pandemia.

 

È il caso di ripetere questa enormità: le banche potrebbero essere sul punto di essere disrupted, disintermediate. Il portafoglio digitale del cittadino non avrà bisogno di istituti che gli tengano i soldi: perché quei soldi non esistono, sono puro software. Non stanno abolendo solo il contante: stanno per abolire anche le banche.

 

Ma come può il potere desiderare un mondo senza banche? Cosa ne guadagnerebbe? Qui diventa chiaro un altro tema che sfugge ai più: non lo fanno per i soldi, lo fanno per il controllo. Quello è il loro vero obbiettivo: sorvegliare e punire, sanzionare e dirigere l’intera popolazione, come si è visto benissimo durante il biennio pandemico, come e più di quello che fanno nell’incubo biototalitario digitale cinese.

 

La moneta digitale, il danaro programmabile, sarà questo: vi impedirà di comprare e di vendere, vi spegnerà con un click. Le multe saranno contestabili, forse, solo a posteriori, perché prelevate direttamente dal conto elettronico – come ovviamente le tasse. Alcuni prodotti non vi sarà possibili comprarli (la Nutella, se al database risulta che avete il diabete) altri vi saranno inibiti nello spazio e nel tempo (acquistare benzina in un periodo di fermo ecologico, in una data città).

 

La vostra vita sarà gestita da una piattaforma che realizza il potere finale del danaro: la manipolazione dell’esistenza umana. L’unico rapporto che potrete avere col sistema, a quel punto, sarà la vostra sottomissione. La vostra schiavitù.

 

Potete non credere a tutti le bandierine che Renovatio 21 ha sollevato in questi anni: l’ID digitale, propalato dalla Francia allo Sri Lanka, da Bologna all’Ucraina, stranamente sostenuto da banche come quelle del Canada, ad esempio, che citano il World Economic Forum senza bene rendersi conto di esseri tacchini entusiasti del Natale.

 

Prestate, tuttavia, un secondo di attenzione a questa notizia apparsa neanche sei giorni fa sul sito dello SWIFT, la che agisce come intermediario finanziario esecutore delle transazioni finanziarie mondiali. «Il successo dei test apre la strada all’uso transfrontaliero di CBDC» titola la pagina. «Nell’ottobre dello scorso anno, abbiamo annunciato di aver sviluppato con successo una soluzione per consentire ai CBDC di spostarsi tra i sistemi basati su DLT [cioè tecnologia Blockchain, ndr] e quelli basati su fiat [cioè il danaro comune, ndr] utilizzando l’infrastruttura finanziaria esistente».

 

La transizione, insomma, è pronta. «Ora abbiamo testato questa soluzione in un ambiente di prova con 18 banche centrali e commerciali. I partecipanti hanno espresso un forte sostegno per il continuo sviluppo della soluzione, osservando che ha consentito lo scambio continuo di CBDC, anche quelli costruiti su piattaforme diverse».

Vale la pena di ricordare cosa è successo con lo SWIFT. A inizio 2022, con l’impennata delle tensioni con la Russia per l’Ucraina, si minacciò di espellere Mosca dal circuito SWIFT. Impossibile, dissero molti – si tratta dell’equivalente di una bomba nucleare finanziaria. È solo il tintinnare delle sciabole. Non lo faranno mai, è una cosa mai vista.

 

Invece, poi, lo hanno fatto. La Russia è stata buttata fuori dallo SWIFT: prima della distruzione del Nord Stream, avevano tirato giù anche questa infrastruttura. Ora il Cremlino lavora con l’Iran e con la Cina per costruire alternative al circuito.

 

Curioso: stanno per partire con la moneta digitale, ma nel giro pare di capire che non vogliono i russi. Né, a breve, chiunque si identificherà con il blocco anti-occidentale che va creandosi nella geopolitica planetaria – quello che peraltro, diciamo en passant, è pure fuori dai confini del vaccino mRNA.

 

Qualcuno deve aver deciso che l’Occidente deve subire per primo questa trasformazione radicale, la digitalizzazione dell’economia e quindi della vita umana, divenuta un oggetto cibernetico, quindi, etimologicamente, controllabile.

 

La popolazione lo accetterà: si è visto col COVID. Gli altri Paesi, quelli che potrebbero essere renitenti (perché hanno cultura diversa, o forse perché non hanno al vertice politici venduti) verranno convinti poi, magari a suon di droni, di armi biologiche, di bombe atomiche.

 

Il disegno potrebbe essere questo. È un incubo, lo so. Ma bisogna pure cominciare a raccontarlo. E a fare qualcosa.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Economia

Il capo di Saudi ARAMCO dichiara che la transizione energetica sta fallendo

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Il CEO di Saudi Aramco, Amin Nasser, ha dichiarato il 18 marzo durante una conferenza petrolifera a Houston, in Texas, che la «transizione energetica» globale è fallita.

 

Il Nasser ha affermato che la produzione e la domanda di combustibili fossili continueranno a crescere, senza raggiungere il picco nel 2030 o in qualsiasi altro anno: «nel mondo reale, l’attuale strategia di transizione sta visibilmente fallendo su molti fronti poiché si scontra con dure realtà».

 

Le nazioni «dovrebbero abbandonare la fantasia di eliminare gradualmente petrolio e gas, e invece investire in essi in modo adeguato, riflettendo ipotesi realistiche sulla domanda» ha continuato il capo del colosso petrolifero dei Saud.

 

Nasser ha basato la visione saudita sulla quota molto piccola della produzione e del consumo di energia mondiale che le «rinnovabili» ancora rappresentano, nonostante un decennio di massicci investimenti in esse, in alcuni anni fino all’esclusione del 90% degli investimenti in qualsiasi altra cosa.

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Il capo di Saudi ARAMCO affermato che nonostante 9,5 trilioni di dollari investiti in «fonti rinnovabili» dal 2005, l’eolico e il solare forniscono ancora meno del 4% della produzione di energia in tutto il mondo; i veicoli elettrici del presidente Biden, rappresentano meno del 3% delle vendite di autoveicoli.

 

Come riportato da Renovatio 21, lo stesso Nasserro nel febbraio 2023 aveva attaccato gli investimenti ambientali, sociali e di governance (ESG), dicendo che rappresentano una minaccia per l’accessibilità e la sicurezza energetica.

 

«Se le politiche guidate dai fattori ESG vengono attuate con un pregiudizio automatico nei confronti di tutti i progetti energetici convenzionali, il sottoinvestimento risultante avrà serie implicazioni» aveva detto il funzionario petrolifero saudita. «Per l’economia globale. Per la convenienza energetica. E per la sicurezza energetica».

 

La ARAMCO, che nel 2022 aveva segnalato la volontà di andare in borsa per più di 50 miliardi di dollari, produce più di 10 milioni di barili al giorno, divenendo quindi tra le più grandi compagnie petrolifere al mondo nonché il più importante finanziatore del governo saudita, che la possiede quasi al 100%.

 

La società nasce nel 1933, quando il governo saudita firma un accordo di concessione con la Standard Oil of California (SOCAL) che gli permette di fare delle prospezioni petrolifere in Arabia Saudita. Nel 1944 diviene Arabian American Company, cioè ARAMCO, nome che conserva tutt’ora, così come si conserva il patto di protezione americana della famiglia Saud stipulato in quegli anni dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt e dal re saudita Abdulaziz Ibn Saud – il cosiddetto patto del Grande Lago Amaro, di cui Renovatio 21 vi ricorda spesso, ossia la creazione del petrodollaro, fonte della grande ricchezza e durevole influenza di Washington nel mondo.

 

Come riportato da Renovatio 21, segnali chiarissimi mandati dai sauditi – la vendita di petrolio in yuan cinesi, il desiderio espresso da Ryadh di entrare nei BRICS – mostra che il patto del Grande Lago Amaro è probabilmente agli sgoccioli.

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Immagine di Pearl Initiative via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic

 

 

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Cina

Le aziende europee: imprevedibile e più difficile fare affari in Cina

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   L’ultimo rapporto della Camera di Commercio UE in Cina lamenta le difficoltà create dalla presenza sempre più massiccia della politica nell’economia. La sicurezza nazionale sembra più importante della crescita della Cina. Xi Jinping ha in programma una visita in Francia a maggio per ricucire le relazioni.   Secondo un rapporto pubblicato dalla Camera di commercio dell’Unione Europea in Cina, la politica si è insinuata nell’ambiente commerciale e le aziende si trovano ad affrontare rischi sempre maggiori per la penetrazione della politica. Per questo le aziende straniere devono allocare maggiori risorse per il controllo dei rischi e la conformità in un mercato divenuto imprevedibile.   Il rapporto – basato su un sondaggio e interviste ai membri della Camera di commercio dell’UE in Cina – ha evidenziato che il 55% dei membri concorda sul fatto che l’ambiente commerciale è diventato più politico rispetto all’anno precedente. L’indagine ha anche rilevato che il 76% dei membri ha rivisto le proprie operazioni in Cina e ha cercato di diversificare la catena di fornitori.   Nel contesto della strategia di de-risking adottata dall’UE, un numero maggiore di investitori stranieri in Cina sta valutando di adeguare le proprie strategie commerciali. Il rapporto Riskful Thinking: Navigating the Politics of Economic Security, ha illustrato gli approcci alla gestione delle minacce percepite e le misure adottate dalle aziende.   Le relazioni commerciali tra l’Ue e la Cina hanno subito un’impennata dopo che l’Unione europea ha avviato un’indagine sui veicoli elettrici cinesi sovvenzionati.   Inoltre, la strategia di de-risking mira a ridurre l’eccessiva dipendenza economica dalla Cina, soprattutto nei settori delle materie prime e delle industrie chiave legate alla transizione verde, come le batterie elettriche e i pannelli solari.   Queste azioni hanno suscitato il malcontento di Pechino. In mezzo alle tensioni dei conflitti geopolitici, il mercato cinese sembra essere meno attraente per gli investitori stranieri e le aziende devono affrontare maggiori pressioni. L’anno scorso, un’indagine condotta dalla Camera di commercio dell’UE in Cina ha mostrato che la fiducia delle imprese si è notevolmente deteriorata e ben il 64% delle aziende intervistate ha risposto che le operazioni commerciali sono diventate più difficili.

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Le politiche delle autorità cinesi sono la causa principale che ha spinto le aziende europee in Cina a ripensare i propri orientamenti.   Il blocco nazionale durante la pandemia di COVID, la posizione della Cina nella guerra in corso in Ucraina e lo scontro tra Cina e Stati Uniti hanno costretto molte a considerare una catena di approvvigionamento alternativa al di fuori della Repubblica popolare. Alcune aziende hanno già spostato attività nel Sud-Est asiatico.   Inoltre, le aziende che operano in aree tecnologiche sensibili, come la progettazione e la produzione di semiconduttori, stanno adottando un approccio più attento alle operazioni in Cina per evitare di violare il divieto di esportazione che potrebbe far scattare le sanzioni.   Da parte loro le autorità cinesi hanno iniziato a dare un giro di vite alle società di consulenza per motivi di sicurezza nazionale. L’ultima legge cinese contro lo spionaggio e la legge sulla sicurezza nazionale hanno ampliato fortemente l’ambito di applicazione. L’anno scorso alcune famose società di revisione e di consulenza in Cina sono state oggetto di irruzione da parte della polizia. Alcuni dipendenti sono stati arrestati per spionaggio.   Pur biasimando fortemente la strategia di de-risking adottata da Unione europea e Stati Uniti, la Cina adotta misure simili. Pechino ha implementato il controllo delle esportazioni di alcune competenze e materie prime, come le terre rare, per garantire la posizione di leader in settori tecnologici chiave.   La promozione dell’autosufficienza fa parte della strategia nazionale sotto il governo di Xi Jinping. Le autorità attribuiscono maggiore importanza all’ideologia: anche la salvaguardia della sicurezza economica è diventata uno dei compiti principali dell’agenzia cinese per l’intelligence e l’antispionaggio.   Intanto si parla di una possibile visita di Xi Jinping in Francia a maggio per celebrare il 60° anniversario dell’istituzione delle relazioni diplomatiche. Sarebbe la prima visita di Xi in Europa dopo la pandemia di COVID-19. Secondo i rapporti, il tema della visita di Xi sarà il commercio e la Cina è desiderosa di ricucire le relazioni con l’Ue dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.   Attualmente, la stagnante economia cinese sta subendo diverse pressioni e crisi nel settore immobiliare, e Pechino si aspetta che gli investimenti stranieri restino in Cina.   Per rinvigorire il turismo, a marzo la Cina ha esteso l’esenzione dal visto ad altri sei Paesi europei: i visitatori possono soggiornare in Cina senza visto fino a 15 giorni.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Alimentazione

Gli stabilimenti africani di cacao chiudono a causa del costo elevato delle fave

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I maggiori produttori mondiali di cacao, Costa d’Avorio e Ghana, hanno interrotto o ridotto la lavorazione nei principali impianti a causa dell’impennata dei costi dei semi, ha riferito Reuters giovedì, affermando che la situazione ha portato a un aumento globale dei prezzi del cioccolato. Lo riporta RT.

 

Le due nazioni dell’Africa occidentale producono quasi il 60% del cacao mondiale. Tuttavia, secondo un rapporto pubblicato martedì dalla Banca africana di esportazione-importazione (Afreximbank), entrambi sono alle prese da mesi con cambiamenti climatici estremi e malattie dei baccelli del cacao.

 

Secondo Afreximbank, le forniture di cacao dall’ex colonia francese nel periodo da ottobre 2023 a febbraio 2024 sono diminuite di circa il 39% rispetto all’anno precedente, attestandosi a 1,04 milioni di tonnellate. Le esportazioni del Ghana sono diminuite di circa il 35% a 341.000 tonnellate tra settembre 2023 e gennaio 2024.

 

I futures del cacao di riferimento con consegna a marzo sull’Intercontinental Exchange (ICE) di New York sono saliti sopra i 6.000 dollari per tonnellata venerdì scorso prima di scendere a circa 5.880 dollari per tonnellata, superando ancora il precedente record di 5.379 dollari stabilito nel 1977.

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Si prevede che i prezzi dei fagioli aumenteranno ulteriormente a causa della minaccia all’offerta globale rappresentata dal fenomeno meteorologico El Nino, che ha causato siccità nell’Africa occidentale nel terzo trimestre del 2023 e dovrebbe durare fino ad aprile, hanno avvertito gli analisti del settore.

 

«Abbiamo bisogno di una massiccia distruzione della domanda per recuperare il ritardo con la distruzione dell’offerta», ha detto alla Reuters citando Steve Wateridge, direttore di Tropical Research Services.

 

Transcao, azienda statale di trasformazione del cacao, uno dei nove stabilimenti della Costa d’Avorio, ha dichiarato di non essere in grado di acquistare le fave ai prezzi attuali e di fare affidamento sulle scorte esistenti. Anche il commerciante globale Cargill ha faticato a reperire fagioli per il suo principale impianto di lavorazione in Costa d’Avorio, chiudendo le operazioni per circa una settimana il mese scorso, hanno riferito a Reuters fonti anonime.

 

Il Ghana, il secondo coltivatore di cacao al mondo, ha visto la maggior parte dei suoi otto stabilimenti, inclusa la Cocoa Processing Company (CPC) di proprietà statale, sospendere ripetutamente le operazioni per settimane dallo scorso ottobre, ha riferito l’agenzia di stampa. CPC ha affermato di funzionare solo a circa il 20% della capacità a causa della carenza.

 

La settimana scorsa, Michele Buck, CEO del colosso americano dei dolciumi Hershey e uno dei maggiori produttori di cioccolato al mondo, ha previsto che i «prezzi storici del cacao» limiteranno la crescita degli utili nel 2024, con conseguente aumento dei prezzi dei prodotti.

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