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Geopolitica

I funerali di Nasrallah e l’incerto futuro di Hezbollah fra politica e resistenza armata

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

A dispetto della marea umana e della rappresentanza iraniana di alto livello, i funerali dei due leader del Partito di Dio non sono stati la dimostrazione di forza sperata. In due occasioni quattro caccia israeliani hanno sorvolato Beirut. La leadership politica cristiana, sunnita e drusa si è tenuta lontana dalla cerimonia. Aoun a Teheran: «Libano è stanco della guerra altrui sul proprio territorio».

 

A dispetto di un freddo pungente, accompagnato da cielo azzurro limpido, diverse centinaia di migliaia di sostenitori e affiliati a Hezbollah si sono riversati in massa ieri mattina da diverse aree del Paese verso la cittadella dello sport, a Beirut, per i funerali di Hassan Nasrallah. Il segretario generale del Partito di Dio è stato ucciso in un raid dell’aviazione israeliana il 27 settembre dello scorso anno, mentre una settimana più tardi è stata la volta del suo delfino Hachem Safieddine, anch’egli colpito a morte dai caccia con la stella di David.

 

Per evitare di ingolfare le strade e bloccare il traffico, sono state allestite aree di parcheggio molto distanti dal luogo della cerimonia. La folla, giunta a piedi, era così folta che lo stadio si è riempito tre ore prima dell’inizio delle esequie. A caratterizzare la funzione la recita di versetti del Corano e lamenti per colui che i suoi sostenitori considerano «un nuovo Hussein», seguiti da un discorso del nuovo segretario generale del partito, Naïm Qassem.

 

Dopo il suo intervento, un camion con le bare dei due leader ha fatto lentamente il giro dello stadio in mezzo alla folla, con gli assistenti piazzati sul pianale del mezzo intenti a restituire alla folla, dopo averli strofinati contro la bara coperta dalla bandiera gialla, i vestiti che venivano lanciati. Per motivi di sicurezza, il traffico aereo all’aeroporto è stato sospeso tra mezzogiorno e le 16, vietato anche l’uso di armi automatiche.

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Adesione deludente

L’Iran è stato, ovviamente, il Paese più presente alla cerimonia. Il regime di Teheran era rappresentato dal presidente del Parlamento, Mohammad-Bagher Ghalibaf, e dal ministro degli Affari Esteri, Abbas Araghchi, oltre che da delegazioni composte da figure religiose, politiche e militari di alto livello. Erano presenti anche rappresentanti di fazioni filo-iraniane irachene, yemenite, turche, del Bahrein e del Sultanato dell’Oman.

 

Il presidente della Repubblica Joseph Aoun e il primo ministro Nawaf Salam non hanno partecipato alla cerimonia, ma hanno inviato in loro luogo dei «rappresentanti» che hanno fatto le loro veci: il primo dal presidente del Parlamento, Nabih Berry, e il secondo dal ministro del Lavoro, Mohammad Haidar.

 

Rispettando le usanze libanesi riguardanti il lutto, il capo della Chiesa maronita card. Beshara Raï è stato rappresentato ai funerali dall’arcivescovo di Saïda, mons. Maroun Ammar. Per questa decisione, il porporato non è stato esente da critiche.

 

In termini di leadership politica libanese, la rappresentanza sunnita, cristiana e drusa è stata piuttosto esigua ai funerali di Nasrallah, certamente non all’altezza delle aspettative degli attuali vertici di Hezbollah. A parte Sleiman Frangié, candidato del Partito di Dio alla presidenza, e Talal Arslan, nessun leader delle principali fazioni cristiane era presente alla cerimonia.

 

Ambiguità di Qassem, minaccia israeliana

Per motivi di sicurezza, il nuovo segretario generale di Hezbollah Naïm Qassem non ha partecipato alla cerimonia funebre. Il suo discorso è stato trasmesso in diretta, ma da un luogo sicuro. Fonti affidabili, interpellate da AsiaNews, assicurano che «non è stato pre-registrato».

 

Per quanto riguarda il contenuto, Qassem è rimasto ambiguo, agitando venti di guerra e usando un tono di mediazione al tempo stesso. Il segretario generale di Hezbollah ha affermato che «i funzionari libanesi sono ben consapevoli degli equilibri interni» e ha chiarito che non tollererà che il suo partito venga emarginato dal potere.

 

«Il Libano è una patria definitiva e noi siamo libanesi», ha aggiunto il leader sciita, citando l’accordo di Taif, che prevede lo scioglimento di tutte le milizie.

 

«La resistenza» contro Israele «non è finita» ha insistito, per poi avvertire che il suo partito non accetterà che gli Stati Uniti «controllino il Libano». «Restiamo fedeli al nostro giuramento, Nasrallah! Continueremo sulla stessa strada anche se dovessimo sacrificare le nostre vite e le nostre case» ha proseguito, affermando che «la resistenza continuerà di generazione in generazione».

 

Secondo gli analisti, egli ha cercato di parlare a due correnti divergenti all’interno di Hezbollah: il partito filo-iraniano, infatti, ora è diviso tra un’ala della linea dura e oltranzista che vuole continuare lo sforzo militare e un’ala conciliante che vuole sfruttare politicamente il capitale di popolarità mostrato ieri in tutta la sua portata, in vista delle elezioni legislative del 2026.

 

Al contempo, la reazione israeliana ai funerali è stata particolarmente forte. Quattro aerei dello Stato ebraico hanno sorvolato Beirut due volte durante le esequie. Il sorvolo ha dato agli osservatori l’impressione che la funzione non si sarebbe potuta svolgere senza il tacito accordo di Israele, cosa che Hezbollah ha negato.

 

Commentando il sorvolo di Beirut, il ministro israeliano della Difesa Israel Katz ha dichiarato in un comunicato che gli aerei «inviano un chiaro messaggio: chiunque attacchi o minacci di distruggere Israele, farà la sua fine».

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Aoun: cortese, sferzante

«Il Libano è stremato dalle guerre altrui sul proprio territorio» ha dovuto dichiarare il presidente Joseph Aoun in modo cortese ma sferzante, al presidente del Parlamento, al capo della diplomazia e all’ambasciatore iraniano a Beirut, ricevuti al palazzo presidenziale Baabda dopo la cerimonia.

 

In risposta all’affermazione di Ghalibaf secondo cui Teheran sostiene «le decisioni sovrane del Libano, senza alcuna interferenza esterna» Aoun ha risposto di condividere questa visione di «non interferenza di un Paese negli affari di un altro». Il presidente ha poi aggiunto che «il Libano è stremato dalle guerre altrui sul proprio territorio. Nessun Paese dovrebbe interferire negli affari interni di un altro».

 

A sostegno delle proprie osservazioni, il capo dello Stato libanese ha citato l’articolo 9 della Costituzione iraniana, che stabilisce che «la libertà, l’indipendenza, l’unità e l’integrità territoriale di un Paese sono indivisibili».

 

Infine, i sostenitori di Hezbollah si sono scontrati con l’esercito libanese e hanno vandalizzato un convoglio dell’UNIFIL una settimana prima del funerale, a causa della decisione di sospendere i voli diretti a Beirut di Mahan Air, compagnia aerea iraniana.

 

In precedenza, Israele l’aveva accusata di trasportare denaro da consegnare a Hezbollah e aveva minacciato di bombardare l’aeroporto nel caso in cui i voli fossero continuati.

 

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Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Immagine di Khamenei.ir via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

 

 

 

 

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Geopolitica

Gli europei sotto shock per la strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti per il 2025

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I leader europei e i media dell’establishment sono in preda al panico dopo la diffusione, sul portale ufficiale della Casa Bianca, della «Strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America 2025» (NSS).   A terrorizzare Bruxelles e dintorni è l’impegno esplicito del governo USA a privilegiare «Coltivare la resistenza all’attuale traiettoria dell’Europa all’interno delle nazioni europee», descritta in termini aspri ma realistici. Il report si scaglia in particolare contro l’approccio dell’UE alla Russia.   L’NSS ammonisce che il Vecchio Continente rischia la «cancellazione della civiltà» se non invertirà la rotta imposta dall’Unione Europea e da altre entità sovranazionali. La «mancanza di fiducia in se stessa» del Continente emerge con evidenza nelle interazioni con Mosca. Gli alleati europei detengono un netto primato in termini di hard power rispetto alla Russia in quasi tutti i campi, salvo l’arsenale nucleare.

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Dopo l’invasione russa in Ucraina, i rapporti europei con Mosca sono drasticamente deteriorati e numerosi europei vedono nella Federazione Russa una minaccia esistenziale. Gestire le relazioni transatlantiche con la Russia esigerà un impegno diplomatico massiccio da Washington, sia per reinstaurare un equilibrio strategico in Eurasia sia per scongiurare frizioni tra Mosca e gli Stati europei.   «È un interesse fondamentale degli Stati Uniti negoziare una rapida cessazione delle ostilità in Ucraina, al fine di stabilizzare le economie europee, prevenire un’escalation o un’espansione indesiderata della guerra e ristabilire la stabilità strategica con la Russia, nonché per consentire la ricostruzione post-ostilità dell’Ucraina, consentendole di sopravvivere come Stato vitale».   Il conflitto ucraino ha paradossalmente accresciuto la vulnerabilità esterna dell’Europa, specie della Germania. Oggi, le multinazionali chimiche tedesche stanno erigendo in Cina alcuni dei più imponenti complessi di raffinazione globale, sfruttando gas russo che non possono più procurarsi sul suolo patrio.   L’esecutivo Trump si scontra con i burocrati europei che coltivano illusioni irrealistiche sul prosieguo della guerra, appollaiati su coalizioni parlamentari fragili, molte delle quali calpestano i pilastri della democrazia per imbavagliare i dissidenti. Una vasta maggioranza di europei anela alla pace, ma tale aspirazione non si riflette nelle scelte politiche, in gran parte ostacolate dal sabotaggio dei meccanismi democratici perpetrato da quegli stessi governi. Per quanto allarmati siano i continentali, l’establishment britannico lo è ancor di più.   Ruth Deyermond, docente al dipartimento di Studi della Guerra del King’s College London e specialista in dinamiche USA-Russia, ha commentato su X che il testo segna «l’enorme cambiamento nella politica statunitense nei confronti della Russia, visibile nella nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale – il più grande cambiamento dal crollo dell’URSS». Mosca appare citata appena dieci volte nel corposo documento, nota Deyermond, e prevalentemente per evidenziare le fragilità europee.   In un passaggio esemplare, il report afferma che «questa mancanza di fiducia in se stessa è più evidente nelle relazioni dell’Europa con la Russia». «L’assenza della Russia dalla Strategia di Sicurezza Nazionale 2025 appare davvero strana, sia perché la Russia è ovviamente uno degli stati che hanno l’impatto più significativo sulla stabilità globale al momento, sia perché l’amministrazione è così chiaramente interessata alla Russia (…) Non è solo la mancanza di riferimenti alla Russia a essere sorprendente, è il fatto che la Russia non venga mai menzionata come avversario o minaccia» scrive l’accademica.«La mancanza di discussione sulla Russia, nonostante la sua importanza per la sicurezza e l’ordine internazionale e la sua… importanza per l’amministrazione Trump, fa sembrare che stiano semplicemente aspettando di poter parlare in modo più positivo delle relazioni in futuro».

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La parte dedicata al dossier ucraino – che allude al fatto che «l’amministrazione Trump si trova in contrasto con i politici europei che nutrono aspettative irrealistiche per la guerra» – pare quasi redatta dal Cremlino. L’incipit della Deyermond è lapidario: «Se qualcuno in Europa si aggrappa ancora all’idea che l’amministrazione Trump non sia inamovibile filo-russa e ostile alle istituzioni e ai valori occidentali, dovrebbe leggere la Strategia per la Sicurezza Nazionale del 2025 e ripensarci».   Il NSS dedica scarsa attenzione alla NATO, se non per insistere sulla cessazione della sua espansione indefinita, ma stando ad un articolo Reuters del 5 dicembre, Washington intende che l’Europa rilevi entro il 2027 la gran parte delle competenze di difesa convenzionale dell’Alleanza, dall’intelligence ai missili. Questa scadenza «irrealistica» è stata illustrata questa settimana a diplomatici europei a Washington dal team del Pentagono incaricato della politica atlantica, secondo cinque fonti «a conoscenza della discussione».   Nel corso dell’incontro, i vertici del Dipartimento della Difesa avrebbero espresso insoddisfazione per i passi avanti europei nel potenziare le proprie dotazioni difensive dopo l’«invasione estesa» russa in Ucraina del 2022. Gli esponenti USA hanno avvisato i loro omologhi che, in caso di mancato rispetto del termine del 2027, gli Stati Uniti potrebbero sospendere la propria adesione a certi meccanismi di coordinamento difensivo NATO, hanno riferito le fonti. Le capacità convenzionali comprendono asset non nucleari, da truppe ad armamenti, e i funzionari non hanno chiarito come misurare i progressi europei nell’assunzione della quota preponderante del carico, precisa Reuters.   Non è dato sapere se il limite temporale del 2027 rifletta la linea ufficiale dell’amministrazione Trump o meri orientamenti di singoli addetti del Pentagono. Diversi rappresentanti europei hanno replicato che un tale orizzonte non è fattibile, a prescindere dai criteri di valutazione di Washington, dal momento che il Vecchio Continente necessita di risorse finanziarie aggiuntive e di una volontà politica più marcata per rimpiazzare alcune dotazioni americane nel breve periodo.   Tra le difficoltà, i partner NATO affrontano slittamenti nella fabbricazione degli equipaggiamenti che intendono acquisire. Sebbene i funzionari USA abbiano sollecitato l’Europa a procacciarsi più hardware di produzione statunitense, taluni dei sistemi difensivi e armi made in USA più cruciali imporrebbero anni per la consegna, anche se commissionati oggi.

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Orban: l’UE pianifica la guerra con la Russia entro il 2030

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Il primo ministro ungherese Viktor Orban ha sostenuto che l’Unione Europea si sta preparando a un confronto bellico con la Russia e mira a raggiungere la piena prontezza entro il 2030. Parlando sabato a un raduno contro la guerra, Orban ha denunciato come il Vecchio Continente stia già procedendo verso uno scontro militare diretto.

 

Il premier magiaro delineato un iter in quattro tappe che di norma conduce al conflitto: la rottura dei legami diplomatici, l’applicazione di sanzioni, l’interruzione della collaborazione economica e, da ultimo, l’inizio delle ostilità armate. Secondo lui, la maggioranza di questi passaggi è già stata percorsa.

 

«La posizione ufficiale dell’Unione Europea è che entro il 2030 dovrà essere pronta alla guerra», ha dichiarato, rilevando inoltre che i Paesi europei stanno virando verso un’«economia di guerra». Per Orban, taluni membri dell’UE stanno già riconfigurando i comparti dei trasporti e dell’industria per favorire la fabbricazione di armamenti.

 

Il premier du Budapest ha ribadito la contrarietà di Budapest al conflitto. «Il compito dell’Ungheria è allo stesso tempo impedire che l’Europa entri in guerra», ha precisato.

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Orban ha più volte manifestato aspre critiche alla linea dell’UE riguardo alla crisi ucraina. L’Ungheria ha sempre respinto le sanzioni nei confronti di Mosca e gli invii di armi a Kiev, invocando invece colloqui di pace in luogo di un inasprimento.

 

L’allarme riecheggia le recenti uscite del presidente serbo Aleksandar Vucic e del ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, entrambi i quali hanno insinuato che un scontro tra Europa e Russia diventi sempre più verosimile nei prossimi anni.

 

Malgrado la retorica sempre più bellicosa di certi membri dell’UE e della NATO verso la Russia, nessuno ha apertamente manifestato l’intenzione di impegnarsi in una guerra. La scorsa settimana, il presidente del Comitato Militare NATO, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, ha confidato al Financial Times che l’Unione sta valutando opzioni per un approccio più ostile nei riguardi di Mosca, inclusa l’ipotesi che un attacco preventivo possa configurarsi come atto difensivo.

 

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Geopolitica

Scontri lungo il confine tra Thailandia e Cambogia

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Lunedì la Thailandia ha condotto raid aerei in Cambogia, mentre i due vicini del Sud-est asiatico si attribuivano reciprocamente la responsabilità di aver infranto la tregua negoziata dagli Stati Uniti.   A luglio, una controversia confinaria protrattasi per oltre cinquant’anni è sfociata in scontri armati tra i due Stati. Il presidente USA Donald Trump, tuttavia, era riuscito a imporre un cessate il fuoco dopo cinque giorni di ostilità.   L’esercito thailandese ha riferito che i nuovi episodi di violenza sono emersi domenica, accusando le unità cambogiane di aver sparato contro i soldati di Bangkok nella provincia orientale di Ubon Ratchathani. Un militare thailandese è caduto, mentre altri quattro hanno riportato ferite; in seguito, ulteriori truppe thailandesi sono state bersagliate da artiglieria e droni presso la base di Anupong, ha precisato lo Stato Maggiore.    

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Il portavoce della Royal Thai Air Force, il maresciallo dell’aria Jackkrit Thammavichai, ha comunicato in tarda mattinata di lunedì che i jet F-16 sono stati impiegati per «ridurre le capacità militari della Cambogia al livello minimo necessario per salvaguardare la sicurezza nazionale e proteggere i civili». Il portavoce del ministero della Difesa cambogiano, il tenente generale Maly Socheata, ha replicato domenica sera sostenendo che le truppe thailandesi hanno sferrato vari assalti contro le postazioni di Phnom Penh, utilizzando armi leggere, mortai e carri armati.   «Anche la parte thailandese ha accusato falsamente la Cambogia senza alcun fondamento, nonostante le forze cambogiane non abbiano reagito», ha dichiarato. Il dicastero ha altresì smentito le denunce thailandesi su un potenziamento delle truppe lungo il confine.   La contesa territoriale affonda le radici nell’epoca coloniale, quando la Francia – che dominò la Cambogia fino al 1953 – delimitò i confini tra i due paesi. Gli scontri di luglio provocarono decine di vittime e oltre 200.000 sfollati da ambo le parti.   Come riportato da Renovatio 21, la Thailandia aveva sospeso la «pace di Trump» quattro settimane fa.  

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