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Essere genitori

Giurare per Ippocrate, o giurare per il CUP. La macchina sanitaria disumana e tuo figlio

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Una minimale, micrologica avventura sanitaria di questo pater familias, e del suo figliolo, per cercare di significare il grande disegno di distruzione in cui, ticket dopo ticket, ci troviamo tutti.

 

Venerdì mattina il bambino, mentre lo porto verso uno dei suoi ultimi giorni di quarta elementare, mi dice che ha qualcosa all’orecchio. Non ci vuole molto a capire che, semplicemente, gli si è formato un tappo. Di fatto, quando gli parlo, sembra sentire poco. Un breve consulto con la madre conferma: «ma sì, è come quello dell’anno scorso. Non ti ricordi?» No, sono il padre, non la mamma, la mia tendenza è svuotare, in automatico, in tempi brevissimi, la cache cerebrale dei problemi.

 

Un’altra cosa mi spinge a mettere più attenzione del dovuto su quel tappo: lo ha, con estrema probabilità, ereditato direttamente da me. Nel senso: l’orecchio è stato a lungo per me quello che definiscono un «organo-bersaglio», come si alza lo stress ecco che arrivano occlusioni, otiti esterne dolorosissime, o perfino (immagino che la cosa sia collegata) problemi ai denti del giudizio.

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Non prendo la cosa sottogamba, perché so che non passa da solo: puoi provare tutto, gli spray, le goccette che ti sfrigolano dentro, i candelotti fumanti piantati verso il timpano. Un tappo è un tappo: si leva solo con una certa pressione. In passato, me lo hanno tolto otorinolaringoiatri, dottori generici, persino qualche infermiera di ambulatorio. Non bevo, quindi posso dire che nella vita ho stappato più orecchi che bottiglie di alcolico.

 

Non è una grande operazione: serve solo il siringone e quella bacinella metallica a forma di rene (o di fagiuolo) che devi tenere a lato, dove ad una certa apparirà, in tutto il suo orrore, il tappo, mentre nell’orecchio risuona la libertà, per la gioia dell’organismo tutto. La durata totale è, chiunque lo sa, qualche minuto appena.

 

Tornato a casa la sera, lo trovo nella stessa condizione. Il bambino sente poco, è ancora avvolto in quella sensazione di fastidio e rassegnazione che ricordo benissimo.

 

Decido di fare la mossa: è venerdì sera, il pediatra non c’è (e non devo essere sicuro che faccia queste cose, mi dicono), posso solo pensare ad una mossa radicale, portarlo in ospedale, al Pronto Soccorso pediatrico. Un luogo che, da passate esperienze, ricordo non troppo affollato, dove si può incontrare un medico abbastanza speditamente. Vuoi non trovare lì un dottore che gli lavi l’orecchio in un minuto, con pure alle spalle una laurea per farlo e un giuramento, quello di Ippocrate, per cui vive nell’imperativo di guarire il prossimo (specie quando il prossimo è un bimbo)?

 

Caricato in macchina il bambino, e ivi portatolo, mi trovo innanzi a diversi capannelli di infermiere del reparto emergenze dei bambini che chiacchierano: il lavoro non deve essere tantissimo, bene. Arrivati dietro il vetro dell’ufficietto che reca la scritta «accettazione» (il posto giusto, no?) una ragazza con la mascherina, con attorno altre colleghe con cui stava amabilmente conversando nel silenzio del reparto vuoto, mi dà l’informazione che avevo tentato scacciare dalla testa: per accedere al Pronto Soccorso Pediatrico devo prima passare da quello degli adulti.

 

Il che vuol dire ore e ore di attesa se devi vedere un medico, in un’atmosfera di estenuazione che richiede le guardie giurate in sala d’attesa (novità degli ultimi anni: cos’è cambiato? È peggiorato il servizio? Sono arrivati «ospiti» stranieri che tendono alle escandescenze? Il combinato disposto dei due fenomeni). La fila più drammatica, illogica, disperante è in realtà prima ancora, quella del cosiddetto «triage» – no, la parola italiana non la vogliono: è già questo dice tanto sulla macchina della sanità, cioè sul fatto che la sanità è una macchina.

 

C’est-à-dire: fai la fila, lungamente, solo per dire cos’hai e farti aprire la pratica da una tizia dietro ad un doppiovetro. Una fila disorganizzata, senza biglietti e con la costante di masse immigrate prima di te (la condizione comune della cittadinanza nella Repubblica Italiana nel secolo XXI), nessuna attenzione per la tua situazione – sei grave? Hai bisogno solo di una carta? etc. – cioè, nessun triage di nessun tipo.

 

Qui scatta la prima realizzazione: la tua situazione medica, la tua vita, è in realtà sottomessa ad un sistema di prenotazione. Un macchinario più grande di te, che non ti considera davvero se non come numero, e di fatto ti danno un braccialetto con un codice a barre, una cosa che era nei film di fantascienza distopica non troppo anni fa.

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Lo dico perché lo so per esperienza: l’anno scorso, in una storia che non ho ancora raccontato su Renovatio 21, ma che qualche lettore conosce perché coincise con la rarità assoluta del sito fermo per una settimana, andai in pronto soccorso per un malanno piuttosto intenso. Flashback.

 

Fu proprio durante la fila del triage, in cui arrivai bianco e barcollante, che ad un certo punto cedetti in modo talmente spettacoloso che ancora oggi ne vado fiero: al culmine della capacità di resistere al problema che avevo, mi sentii mancare completamente il respiro (sensazione mai avuta, neanche facendo una vasca di piscina in apnea), non avevo nemmeno la forza di chiedere aiuto… quindi, forse per la terza o quarta volta in tutta l’intera mia esistenza, vomitai – ad abundantiam, scatenando il fuggi fuggi generale, neanche fosse apparso nel nosocomio Godzilla, o un altro mostro gigante sputatore a caso.

 

Era l’immagine di un uomo piegato dal problema biologico, e nessuno, nessun medico, nessun infermiere, nel limbo-triage della coda burocratica multietnica, lo volle aiutare: furono proprio le guardie giurate, quelli che non hanno giurato ipocritamente per Ippocrate, e forse proprio per questo hanno conservato una qualche umanità. Quando tornai a respirare, messo dal personale in una sedia a rotelle, immaginavo che mi avrebbero fatto saltare la coda, vista la gravità – quelli prima di me stavano tutti in piedi e non avevano appena rimesso un ettolitro di anima, vitrea e gialla, sul pavimento davanti alla porta automatica proibita (si apre solo da dentro) che dà al reparto dove attendere senza speranza per altre ore ed ore.

 

Maddeché: feci un’altra ora di fila seduto, sconvolto e dolorante, sulla sedia a rotelle ospedaliera, e arrivato al bancone con il supervetro, l’infermiere pure mi redarguì per quello che avevo fatto. A quel punto, raccolta un po’ di adrenalina e di rabbia, mi alzai dalla sedia e alzai la voce flebile: «eccerto, la prossima volta che sto per morire improvvisamente soffocato avverto prima voi, però guardi, c’era la sua fila». L’infermiere rimase zitto.

 

Il proseguo di questa storia dell’anno scorso, il cui racconto rimando da tempo perché tocca il tema delicato delle trasfusioni e del loro rifiuto, lo racconto un’altra volta – anticipo tuttavia che di lì a qualche giorno di ospedalizzazione il primario con codazzo di una diecina di dottori si presentò al mio letto e, poco prima che fossi operato, usò parole che dipinsero con chiarezza nella mia mente l’immagine della mia morte per dissanguamento sul tavolo operatorio. «Lei rifiuta le trasfusioni … e tante altre cose… quindi, se succede qualcosa, che facciamo, la lasciamo morire dissanguato?»

 

Devo dire che nessuno, nemmeno nelle risse più belluine, mi aveva mai fatto sentire una violenza simile, la violenza della morte, con tutto ciò che adesso essa comporta per la mia discendenza. La risposta mi venne immediata: «visto che si è portato un po’ di testimoni, dichiaro pure pubblicamente che rifiuto anche l’espianto di organi». Il barone chirurgico, e tutti i suoi vassalli, valvassori, valvassini in camice bianco uscirono in silenzio, senza salutare.

 

Quindi, mentre venerdì sera aspettavo in quella stessa fila con mio figlio, non potevo non pensare a quei momenti dell’estate scorso. Non potevo permettermi di far passare un bambino, sangue del mio sangue, attraverso il processo di disumanizzazione che conosco e ho testimoniato – anche solo quello dell’attesa ridicola del triage, che è solo il primo grado della cancellazione della dignità umana con la sanità moderna può tranquillamente portarti alla morte. (Renovatio 21, lo sapete, non parla d’altro, su tutti i fronti declinabili).

 

Fine flashback. Quindi, dopo aver resistito mezzora in fila solo per avere un pezzo di carta con cui far curare un bimbo in un reparto vuoto, non gliela ho più fatta.

 

Il padre, stringendo la mano del figlio, lo porta via. «Papà… ma tutti gli ospedali sono così?» chiede lui, intuendo che il silenzio prolungato del genitore nasconde l’incontenibile disprezzo per il sistema. C’è di peggio, gli dico. Ma la questione è la Sanità, lo Stato moderno, in generale, cioè lo Stato impersonale e immorale che giocoforza fa male agli uomini sino ad eliminarli, gli spiego borbottando come il vecchio che sto diventando, incurante del fatto che questi sono discorsi per i miei lettori e non per un bambino di nove anni.

 

Piano B: mancano pochi minuti alle 20, la grande farmacia sulla strada è aperta. Lì, avevo visto in precedenza, eseguono visite otoscopiche e lavaggi auricolari. Sessanta euro: un salasso. Sono disposto a sobbarcarmelo, pur di liberare mio figlio dal suo problemino all’orecchio, che è il mio. (Sangue del mio sangue… cerume del mio cerume?)

 

Facciamo la fila anche qui, ma in questo caso c’è il numero, stile salumiere al supermercato. Quindi, la sorpresa: no, in realtà i lavaggi non li fanno, cioè li fanno, sì, ma non sono i farmacisti (anche loro laureati, anche loro con giuramento), ma delle infermiere apposite, che vengono solo ogni tanto, bisogna prenotare, etc. Usciamo dal negozio con il materiale per il Piano C: spruzzo di acqua di mare da 15 euro a bomboletta, flaconcino di dimetilbenzene per ammorbidire il tappo da non so quanto.

 

Arrivati a casa il Piano C si rivela esattamente quello a cui cercavo di non pensare: un fallimento totale. Lo spruzzetto è insignificante, le goccette sono inefficaci al punto che pensiamo di aver fatto peggio.

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È a questo punto che si fa largo nella mia mente – che mai si deve rassegnare, se si tratta di un bambino – il Piano D: chiamare la guardia medica, quella bizzarra istituzione parallela all’ospedale, l’ambulatorietto dove, diciamoci le cose come stanno, vai quando hai troppa paura della fila in pronto soccorso. Apre la sera, a significare che loro ci sono quando i dottori non ci sono, come se prima essere curato, o anche solo ascoltato, avviene senza problema. Ad ogni modo, una volta andavi, entravi, aspettavi, parlavi col dottore, che ti dava la prescrizione, e via. Non più: dopo il COVID devi chiamare al telefono, dove puoi trovare a volte una persona che ti scoraggia dal presentarti, e prenotare. La pandemia è stata essenzialmente una buropandemia, con la burocrazia che ha infettato qualsiasi istituzione, dalle scuole, alle banche, ai bar… lo sappiamo.

 

Faccio il numero della guardia medica, ma è troppo presto. Rispondono solo dopo le 20. Attendo, chiamo. Dopo un po’ rispondono. Racconto. Mi dicono che la guardia medica non si occupa dei bambini, che un tappo all’orecchio non è un’emergenza, e di certo loro non fanno lavaggi all’orecchio… io faccio silenzio, perché nell’intimo comincio a capire che la tattica vincente è quella di fare in modo che ascoltino se stessi. Funziona: la ragazza – la dottoressa – mi dice che vabbè, posso portarlo, ma solo per farlo vedere.

 

Fatta, penso io: ambiente ambulatoriale, niente masse afroasiatiche che premono alle porte, solo un medico e un bambino che sta male, che può essere aiutato con una manovra che dura un minuto, migliorandogli di netto la vita.

 

Macché. Arriviamo in ambulatorio, una casa cubica grigia praticamente senza finestre e un portone blindato modernissimo. Suoni il campanello, confermi di aver un appuntamento. Entrati, nessuno ci riceve, stiamo 15 minuti ad aspettare da soli al buio. Di sopra senti degli schiamazzi: il personale sta facendo bisbocce, suona come una pausa prolungata, visto che l’orario dell’appuntamento, e dell’inizio delle attività dell’ambulatorio, è quello delle 20:30.

 

Finalmente scende una ragazzina in camice, è una dottoressa, è quella con cui ho parlato al telefono. Se ha avuto l’umanità di visitare il piccolo, vuoi che non abbia quella di aiutarlo con la più semplice delle procedure, fatta letteralmente di acqua fresca? Guardo nell’armadio: la bacinella-fagiuola c’è, il siringone pure. Fatta. Fatta. Dai.

 

Invece, la dott.ssa Tizia ci dice che non può fare nulla, loro non guardano i bambini, tantomeno possono fare lavaggi, per quelli devo andare dal pediatra, e visto che non ci sarà per giorni, al Pronto Soccorso pediatrico, cioè il luogo da cui sono fuggito in preda alla rabbia contro il mostro sanitario applicato su tutti, soprattutto sul mio bimbo.

 

Epperò, per gentilezza, la Tizia dottoressa si offre di «guardarlo», come promesso, e lo fa: fuori l’otoscopio, e in meno di cinque secondi scatta la difficile diagnosi: «sì c’è un bel tappo». Grazie, non avevamo capito. Poi si mette a scrivere a verbale, e qui ci mette un quarto d’ora. La proporzione, mentre aspetto, mi è già chiarissima: cinque secondi per guardare il bambino, e non risolvere nulla perché non è sua mansione, e un quarto d’ora per riempire un modulo burocratico: cosa è importante, per i medici odierni, è chiarissimo. Prima della persona, viene la macchina, il sistema sanitario di cui sono ingranaggi salariati. Prima di Ippocrate, viene il Centro Unico di Prenotazione, il CUP.

 

La dottoressa ci dà pure una prescrizione per un altro tipo di gocce. Tornando a casa, sconfitti, ci saranno anche quelle da comprare. Così, dirigo verso la farmacia di turno (a quel punto la sola aperta) di un quartiere non semplicissimo (cioè, vinto dall’invasione immigrata), una farmacia non nota per la gentilezza: nemmeno parli attraverso lo spioncino, ma tramite il cassettone con cui devi scambiare la tessera sanitaria, i soldi, il bancomat, contro i farmaci – il farmacista non lo vedi in faccia mai, e neppure, in verità, ne odi la voce. È una transazione impersonale e difficile, cui già mi ero proprio lì sottoposto settimane prima sempre fuori orario, facendo anche allora una fila colossale.

 

Arriviamo, tra la serqua di immigrati che spuntano ovunque tra il bar e il parchetto circostante, notiamo davanti a noi un africano: ha la testa praticamente dentro il cassettone serale della farmacia, è piegato in avanti e parla a voce altissima, del resto la struttura, come ho detto, non sembra essere fatta per ascoltare il paziente. «Io devo prendere quel farmaco» spiega l’africano al farmacista invisibile. «Io devo… io prendo sempre… non ho ricetta perché non posso andare dal dottor, perché lavoro, faccio autista tutto giorno», garantisce. A fianco a lui, un altro africano a caso, in ciabatte e cappello da baseball, fissa nel vuoto il tramonto sui condomini del quartiere popolare.

 

Davanti alla persistenza dell’immigrato che cerca di farsi dare un farmaco senza ricetta, e alla blindatura del farmacista ignoto che la rimbalza, perdo, per l’ennesima vola la pazienza: non posso perdere altro tempo qui, con il bambino per mano, e neppure posso rischiare quando l’africano, probabilisticamente, andrà in escandescenze, non capendo, o fingendo di non capire, che per la medicina che vuole ci vuole un documento medico, la prescrizione. Quando ciò accadrà, penso, il pericolo ce lo beccheremo tutto io e mio figlio, che siamo in partibus infidelium, mentre il farmacista invisibile tornerà tranquillo a guardarsi Netflix, protetto da schermature di metallo e vetro antisfondamento.

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Fuggiamo anche da lì, mentre il risentimento per il mondialismo e la Necrocultura sanitaria traspirano dalla mia pelle – il piccolo, sembra comprendere telepaticamente. Del resto è mio figlio, e lo sto crescendo io… Il problema all’orecchio tuttavia rimane, e il papà non sa davvero risolverlo.

 

Ripieghiamo: altra farmacia di turno, fuori città. Ci metteremo un po’, ma almeno non permetterò che mio figlio possa essere messo in pericolo da colui che senz’altro ci pagherà le pensioni. Qui c’è uno spioncino dci venti centimetri per venti, una finestrella che ti fa vedere una stanza vuota e, quando entra, parte della faccia del farmacista di turno. Qui mi azzardo: «scusi… non è che fate lavaggi auricolari? Se non può aprirmi le passo la testa di mio figlio attraverso la finestrella». Sorride. Non ha idea dello sforzo, e dell’umiliazione, che sto vivendo per trovare qualcuno che aiuti mio figlio. È notte inoltrata.

 

A casa, è tardi. Preghiere, libro, a letto. Quando gli spengo la luce spero tanto che si svegli con il problema risolto automaticamente. Non è così. Discussioni mattutine con la madre. Forse va via da solo, ma bisogna aspettare. Era successo quando eravamo andati alle terme (altro evento svuotato via dalla memoria cache paterna). Va bene.

 

Sabato mattinata, lavoro, faccio la spesa, commissioni varie, ma il pensiero mi tarantola. Cosa sto facendo? Lo lascio lì, mio figlio, con un malanno addosso? Ma che roba è?

 

Il giorno dopo avrebbe avuto il capitolo finale di una delle cose più fondamentali dell’universo, il minibasket. Cosa fa, va in campo e non sente le indicazioni dell’allenatrice? Poco dopo, ci sarebbe un ulteriore evento determinante: esame di passaggio di cintura a judo. Il lettore di Renovatio 21 sa che, nel mondo moderno che ha programmaticamente cancellato ogni forma di iniziazione maschile (con il risultato di generazioni di drogati ed omosessuali), il genitore deve attaccarsi allo sport, surrogato della caccia e della guerra, per ogni briciola iniziatica di sviluppo spirituale possibile.

 

È così che prendo la decisione più dura: vado a Canossa. Cioè, torno in ospedale. Piano E. Va bene, farò la fila al triage del Pronto Soccorso adulto, quella dove rischiavo di morire soffocato l’anno passato, è per il bene di mio figlio. E poi magari a quest’ora non c’è nessuno, ci mandano subito al pediatrico, e zac, problema risolto, assieme alla mia dissonanza cognitiva di padre che non riesce a trovare, in tutto il sistema, una persona in grado di mettere un po’ di acqua nell’orecchio di un bambino.

 

Muniti di una Nintendo Switch strategica – per cui la noia me la ciuccio via io, mentre lui seduto gioca a Zelda o Capitan Tsubasa – ci ripresentiamo al Pronto Soccorso, e – colpo di fortuna! Alè! – non v’è nessuno. Subito al bancone, dove però l’infermiera ci mette un po’ a guardarci in faccia. Quando lo fa, dobbiamo rispiegare tutto, ma va bene, siamo vicini alla meta, l’orecchio stappato è dietro l’angolo. Scatta il braccialetto con codice a barre distopico. Evvai. Ampie falcate verso il Pronto Soccorso pediatrico, cioè verso la tanto attesa liberazione auricolare.

 

Eccoci: le infermiere pediatriche sono appollaiate nei consueti capannelli a reparto praticamente vuoto. Ripeti tutta la storia. Poi le domande importanti. Salute? Sì, sempre in salute. Allergie? No, nessuna. Vaccini?

 

«No».

 

«Dico, i vaccini pediatrici normali…», precisa lei. No, nemmeno uno.

 

L’infermiera esita, si irrigidisce un pochino, vedo. Poi chiede di possibili allergie di farmaci. No. Io ribadisco che vorrei solo, compatibilmente con i loro tempi e le emergenze, che lavassero l’orecchio di mio figlio. Lei chiama una collega più giovane, che, mascherata, mi dice perentoria: ma no, qui non facciamo lavaggi d’orecchio, ci mancherebbe, e poi sono lì per le emergenze… Non c’è nessuno, dico io. «Non possiamo fare questa cosa», dice. Va bene, dico, ma c’è un dottore, in questo momento? Ne hanno disponibili addirittura due, mi informa, e io penso il silenzio del reparto vuoto è tale che probabilmente stanno pure ascoltando direttamente la conversazione.

 

Le dottoresse, continua l’infermiera mascherinata, al massimo possono vedere il bambino.

 

A quel punto mi indurisco io: scusi, siamo già stati in guardia medica, abbiamo il referto, cinque secondi di otoscopio hanno confermato che il bambino ha solo un tappo, nient’altro. A questo punto, se non è possibile fare altro, noi andiamo, stiamo perdendo tempo noi, facendone perdere anche a voi.

 

«È libero di farlo. Metteremo “non risponde alla chiamata”». Chiamata de che? Praticamente ci siamo solo noi. E quindi, pagherò il ticket anche senza ottenere nulla? «Sì certo, arriverà a casa». Nella mia testa, mentre il fastidio tocca vette stratosferiche, si fa largo anche la prospettiva che poi, da qualche parte resterà il fatto che porto mio figlio all’ospedale e poi però spariamo. Sapete: quel tipo di cosa che poi può essere usato contro di te quando magari le istituzioni cercano materia per darti addosso – chi conosce la storia dell’antivaccinismo in Italia sa di cosa parlo.

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Per cui, eccoci con le mani legate (da un braccialetto con codice a barre). La chiamata però è, come intuibile, immediata. Nell’ambulatorio c’è una dottoressa semi-meridionale, anche gentile, con uno stuolo di infermiere che vanno e vengono dalle porte. C’è la possibilità che si consumi l’atto di umanità, e la dottoressa levi il tappo di cerume a mio figlio? No. «Non sono cose che facciamo. Le fa l’otorinolaringoiatra». Quindi, ci mandate di sopra, in otorinolaringoiatria, chiedo. «No, non si può. L’otorino il sabato e la domenica c’è solo al mattino fino a mezzogiorno. È andato via poche ore fa. Non è che possiamo richiamarlo per un orecchio tappato».

 

Io non replico nulla, continuo semplicemente a concentrare il mio sentimento guardandola dritta negli occhi. Ad un certo punto, per un istante brevissimo, sento che anche lei capisce quanto la situazione sia grottesca, e toglie lo sguardo. Forse solo per un attimo, nella sua mente può essersi fatto largo il pensiero che il suo lavoro, anzi il suo compito, la sua missione, è diverso dal passare le carte, dal fare solo ciò che è demandato burocraticamente?

 

Forse. Io però ad un certo punto obietto, sia pure con una certa calma: «dottoressa, quindi, mi vuole dire che, tra le migliaia di dottori e infermieri che lavorano in questo ospedale, non c’è nessuno che può fare un lavaggio all’orecchio di mio figlio?». No, mi dice, bisogna sentire l’otorino, che non c’è. Ecco, potete venire domani mattina, se e quando avrà tempo, vi seguirà lui. Queste sono le carte.

 

Usciamo anche da questo ennesimo capitolo di tritacarne buro-sanitario sconfitti. Nessuno, nell’universo provinciale di dottori, infermieri, farmacisti, vuole aiutarci, nemmeno con un’inezia come un lavaggio d’orecchio – non è (più) suo compito, punto.

 

SMS alla madre, che era già disillusa. «Tornate a casa… lo sapevamo». Io però non ho intenzione di mollare, e quindi ragiono: quello che ci serve non è un medico, né un sanitario, uno specialista, nulla. No: dobbiamo solo trovare, qui dentro, una persona rimasta umana. Dobbiamo trovare qualcuno che si ricorda che ha giurato per Ippocrate, e non per il CUP. Qualcuno che vede un bambino mogio e, invece, di compilare scartoffie per mandarlo via, lo aiuta.

 

Piano F, Mission Impossibile: trovare umanità residua, in ospedale? È l’ultima cosa da fare, l’extrema ratio a cui giungere: la ricerca della persona umana. Saltare i canali istituzionali, l’imbuto della burocrazia sanitaria, e parlare faccia a faccia con un essere umano non divorato dalla macchina.

 

Quindi, ascensore. Reparto Otorinolaringoiatria, dritti – e pazienza se mi hanno detto che il dottore non c’è: una laurea non è la sostanza che stiamo cercando in questo momento. Arriviamo, ho il bambino per mano: c’è silenzio, ma capisco che sono tutti impegnati. In una saletta-ambulatorio c’è un tizio seduto ad una scrivania che parla con uno in piedi, immagino siano dottore ed infermiere, non so, faccio sempre fatica a distinguerli, forse è un effetto voluto, come la sparizione delle suore dagli ospedali.

 

Mi guardano, ma non si curano, non stanno chiacchierando, ma discutendo operativamente. Io, per cortesia, non li interrompo. So che per la cosa che devo chiedere non devo sembrare scortese, perché ho capito quanto questa quisquilia sia contra legem, quanto l’elasticità della medicina sia totalmente perduta. Non insisto, ma persisto, aspetto fuori dalla porta.

 

Arriva una vecchia infermiera: «scusi… ha bisogno?» Le spiego tutto. Vorrei solo un lavaggio d’orecchio per questo bambino. «Ma è stato in Pronto Soccorso pediatrico?»… «Veniamo da lì. Ci hanno dato appuntamento qui per domani. In realtà io mi chiedevo se non ci fosse qualcuno in grado di farlo ora… Signora, sono due giorni che giro come una palla da flipper» Mentre mi esce questa similitudine mai venutami prima, sento che, in questo contesto, le mie parole, anche nella volontà di non lasciar trasparire nessun fastidio, possono suonare come pura sfacciataggine. Ma come, senza prenotazione? Ma come, fuori orario così?

 

«Senta, in realtà il dottore è ancora qui… è molto impegnato però… doveva andare via ore fa. Io non le assicuro nulla, se posso glielo chiedo, vediamo cosa dice. Lei aspetti qui». Mi si apre il cuore: «signora, quello che sta facendo per noi è già ora molto di più quello che ha fatto una dozzina di suoi colleghi nelle ultime ore».

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Il ragionamento era giusto: un essere umano in ospedale ancora esisteva. Ora bisognava vedere se questa sua umanità era condivisa con il suo superiore: cosa non impossibile, perché bonun sui diffusivum, diceva San Tommaso, il bene si espande, la carità è contagiosa. Aspetto in piedi sulla porta, il bambino lo metto seduto con i videogiochi. In reparto lavoro ne avevano: torme di pazienti con il naso fasciato escono dalle camere durante l’orario di visita, ad un certo punto vedo una ragazza che crolla al suolo, non so se per scherzo, mentre famigliari e infermieri turbinano attorno a lei. Un sabato pomeriggio intenso, e io sono lì sono per uno stupido tappo all’orecchio, in effetti.

 

Arriva, infine, la tanto agognata notizia: vedo l’infermiera buona che parla in fondo al corridoio con il dottore, che è proprio quello che prima stava alla scrivania. Vengono verso di me, lui mi dice che va bene, è tardi, ma facciamolo. Piazzano il bambino su una sedia accanto ad una macchina complicata, che in realtà è uno spruzzo per le orecchie professionale, montato però in modo che il tubicino non arriva benissimo (quanto lo usano…?).

 

Entrano in sala, dal nulla, altre quattro infermiere, ognuna tiene qualcosa. Il dottore va di otoscopio e conferma: tappone sul destro, tappino, pure, sul sinistro. Zum, acqua nell’orecchio, gli occhietti chiusi in una smorfia di dolore. Salta fuori una roba nera gigantesca, tra inni esultanti delle infermiere.

 

 

Per il sinistro è più difficile, il dottore chiede uno strumento con un cognome francese – pinza di Villot? Boh! – che nessuna delle astanti sa cosa sia. Se lo trova lui, un ferretto ansato. Due colpetti dentro al padiglione auricolare, tra smorfie di estemporaneo dolore vero del bambino. Acqua: salta un altro tappo, più chiaro, che nuota sconfitto nella bacinella metallica. Altri versi esultanti delle infermiere.

 

Fatto. Durata del tutto: meno, molto meno di cinque minuti. Difficoltà dell’operazione: inesistente – ma riconosco il bonus ricevuto dall’estrema professionalità dello specialista. Il quale giunge infine alla tremenda realizzazione… non ci sono le carte adeguate… «quindi non posso scrivere niente?» No, però ha aiutato il bambino. E suo padre. Grazie. Grazie infinite.

 

Il piccolo, come nuovo. Quel senso di liberazione lo conosco bene: sono io, del resto, che probabilmente gli ho trasmesso geneticamente, o chissà in che altro modo, quel problema. Il sabato pomeriggio è andato totalmente (con tutta la sera del venerdì), e lui rifiuta pure di suggellare la vittoria con il gelato: è un bambino tanto bravo, i dolci li mangia solo raramente, e solo quando ne ha davvero voglia.

 

Io ho modo di elaborare sull’accaduto: sì, come sapevo, la classe medica è cambiata, in nessun modo sente la necessità di aiutare il prossimo, come prevedeva il giuramento di Ippocrate. Non è avvenuto tutto di colpo: giurare di «non somministrare farmaci mortali o suggerire consigli tali, né fornire medicinali abortivi» e poi lavorare tra 194, RU486, vaccini, psicofarmaci, eutanasia, predazione degli organi, non è conciliabile.

 

Tuttavia, capiamo come la pandemia abbia completato la trasformazione: il dottore è esecutore, lo si può vedere solo tramite interfaccia informatica (quando lo si vede: basta una mail, e ti trovi il farmaco prescritto in farmacia, senza neanche risposta), e una sua eventuale dissidenza, in scienza e coscienza, rispetto alla vulgata dominante è punita draconianamente: radiazione, penale, pubblico ludibrio.

 

Se la professione medica si automatizza, non possiamo aspettarci che essa tratti i pazienti anzitutto come esseri umani. Giocoforza, la sanità odierna, con i suoi dogmi e i suoi computer, i codici a barre e l’ultra-specialismo, i farmaci non testati e la fine del consenso informato, non può che essere un processo disumanizzante.

 

Non sono concetti astratti, analisi bioetiche da accademia: è la vostra realtà presente, è ciò che c’è dietro ad un’odissea sfiancante per trovare qualcuno che, semplicemente, faccia un lavaggio auricolare ad un bambino.

 

Ora, tremiamo davanti all’imbuto che la Sanità dell’impero della Necrocultura mette davanti a chiunque ha un problema ben più grave. E vibriamo di rabbia quando pensiamo che tale problema può essere stato causato dal problema stesso. Che il danno iatrogeno sia in realtà diffuso al punto da rendere insostenibile la società nel suo insieme.

 

Non si tratta di una questione di poco conto. La ridefinizione totale del sistema sanitario ridotto ad apparato di dolore e morte, pena l’implosione sua e della civiltà, è la sfida più grande che ogni partito politico raziocinante, ogni essere umano rimasto tale, deve intraprendere.

 

Perché, ne ho dimostrazione materiale, questa macchina disumana è qualcosa che non possiamo permetterci vedere inflitta sui nostri figli.

 

Roberto Dal Bosco

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Autismo

Tutti addosso a Kennedy che collega la circoncisione all’autismo. Quando finirà la barbarie della mutilazione genitale infantile?

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Il Segretario alla Salute degli Stati Uniti, Robert F. Kennedy Jr., ha difeso le sue affermazioni espresse venerdì durante una riunione di gabinetto, dopo che alcuni critici lo avevano accusato di suggerire un legame tra circoncisione e autismo. Successivamente ha precisato che si riferiva al paracetamolo (Tylenol) somministrato ai neonati dopo la circoncisione, non alla procedura stessa.   In precedenza, il presidente Donald Trump aveva sostenuto parti di questa teoria, invitando le donne in gravidanza a evitare il Tylenol e sottolineando la necessità di valutarne la sicurezza.   «Due studi indicano che i bambini circoncisi precocemente presentano un tasso di autismo doppio», ha dichiarato Kennedy durante la riunione. «Non è una prova definitiva. Stiamo conducendo studi per verificarla», ha aggiunto Kennedy.

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Le sue parole hanno scatenato reazioni immediate. Il deputato Jerrold Nadler ha scritto su X che «l’ossessione di Kennedy per le teorie del complotto ha nuovamente superato il limite, sconfinando in un territorio pericoloso e antisemita». Il dottor Peter Hotez, dottore ultravaccinista che rifiuta i confronti e chiede l’esercito contro gli antivaccinisti definiti come «grande forza omicida», ha definito la teoria «assurda». La ricercatrice sull’autismo Helen Tager-Flusberg ha dichiarato: «Niente di tutto ciò ha senso». A settembre, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ribadito che non esistono prove scientifiche conclusive che colleghino il paracetamolo in gravidanza all’autismo.   Kennedy ha poi risposto su X, citando uno studio danese del 2015 che mostrava tassi di autismo più alti nei ragazzi circoncisi. Ha sostenuto che lo studio indica il paracetamolo come probabile causa, sottolineando che può provocare danni neurologici se combinato con lo stress ossidativo, definendo le prove «schiaccianti».   Kennedy ha accusato i media di distorsione: «USA Today ha riportato in modo parziale le mie parole, usando un’inquadratura fuorviante. Il New York Post ha completamente travisato il mio discorso con il suo titolo, insinuando che avessi detto che la circoncisione causa l’autismo».  

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Travisato o no, lo studio danese, intitolato «Ritual circumcision and risk of autism spectrum disorder in 0- to 9-year-old boys: national cohort study in Denmark» («Circoncisione rituale e rischio di disturbo dello spettro autistico nei bambini da 0 a 9 anni: studio di coorte nazionale in Danimarca») esiste.   «Abbiamo confermato la nostra ipotesi secondo cui i ragazzi sottoposti a circoncisione rituale potrebbero correre un rischio maggiore di sviluppare ASD», cioè il disturbo dello spettro autistico, scrive lo studio dei ricercatori Morten Frisch e Jacob Simonsen. «Questa scoperta, e l’inaspettata osservazione di un aumento del rischio di disturbo da iperattività tra i ragazzi circoncisi in famiglie non musulmane, meritano attenzione, soprattutto perché i limiti dei dati hanno molto probabilmente reso le nostre stime di rischio per attività fisica conservative. Considerata la diffusa pratica della circoncisione non terapeutica nell’infanzia e nella prima infanzia in tutto il mondo, gli studi di conferma dovrebbero essere considerati prioritari».   Un altro studio del 2013, «Prenatal and perinatal analgesic exposure and autism: an ecological link» («Esposizione prenatale e perinatale ad analgesici e autismo: un legame ecologico») esplorava «larelazione tra l’esposizione precoce neonatale al paracetamolo e l’autismo/ASD, i tassi di prevalenza media ponderata della popolazione maschile per tutti i paesi disponibili e gli stati degli Stati Uniti sono stati confrontati con i tassi di circoncisione maschile, una procedura per la quale il paracetamolo è stato ampiamente prescritto dalla metà degli anni Novanta», concludendo che «l’analisi ha identificato correlazioni a livello nazionale tra indicatori di esposizione prenatale e perinatale al paracetamolo e autismo/ASD. È stata inoltre identificata una correlazione a livello statale per l’indicatore di esposizione perinatale al paracetamolo e autismo/ASD.   La questione va molto al di là del problema dell’autismo, e riguarda la civiltà occidentale stessa, che ha rifiutato la circoncisione sin dai primissimi anni della cristianità. Scrive la lettera di San Paolo ai Romani: «La circoncisione è utile se tu segui la Legge, ma se tu sei trasgressore della Legge, la tua circoncisione diventa incirconcisione. Se dunque l’incirconciso osserva i comandamenti della Legge, la sua incirconcisione non sarà valutata come circoncisione? e chi di nascita è incirconciso, osservando la Legge, giudicherà te che, con la tua lettera della Legge e la tua circoncisione, ne sei trasgressore. Non è adunque quello che apparisce il vero Giudeo, nè è vera circoncisione quella che è palese nella carne; ma il Giudeo è quello che è tale entro di sè, ed è la circoncisione del cuore, nello spirito non nella lettera, quella la cui lode non è dagli uomini ma da Dio» (Rm, 2, 25-29).   Strano che il mondo «laico», che ritiene il battesimo dei bambini come una forzatura religiosa su di una persona che non può decidere in autonomia, non abbia niente da dire contro questa oscena mutilazione genitale infantile – e dobbiamo ancora trovare qualcuno che ci convinca del fatto che la circoncisione sia diversa dall’infibulazione, quella sì, per qualche motivo, invisa alla società.   «Il taglio genitale non terapeutico priva il bambino, quando diventerà l’adulto, dell’opportunità di rimanere geneticamente immodificato (o intatto)» hanno scritto due bioeticisti oxoniani i due bioeticisti Lauren Notini e Brian D. Earp «Plausibilmente, la persona le cui “parti private” saranno permanentemente influenzate dal taglio dovrebbe avere la possibilità di valutare se è ciò che desidera, alla luce delle loro preferenze e valori a lungo termine»   Di fatto, l’individuo circonciso perde per sempre la sua integrità, vedendosi amputata una parte del corpo straordinariamente ricca di terminazione nervose, che sono quelle che danno il piacere durante l’atto sessuale.

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C’è poi la questione della sicurezza dell’operazione mutilativa: i casi di bambini morti per circoncisione abbondano, anche in Italia, Nel 2023 bambino nigeriano è morto pochi giorni fa in zona Castelli Romani dopo una circoncisione fatta in casa. A Tivoli, nel 2018, morì un altro bambino nigeriano di appena due anni: aveva subito la circoncisione da parte di un sedicente medico; in quel caso, almeno, si salvò il gemello, portato d’urgenza in ospedale. Reggio Emilia, marzo 2019: neonato di famiglia ghanese, cinque mesi, morto dopo «diverse ore di agonia». Monterotondo, provincia di Roma, tre mesi prima: bimbo nigeriano di due anni morto per lo stesso motivo. Genova, aprile 2019, neonato morto nel quartiere Quezzi, e condannato a otto anni di carcere il nigeriano 34enne che aveva eseguito il taglio del prepuzio. Torino, giugno 2016: bebè di genitori ghanesi, circonciso in casa, morto in ospedale. Treviso, ottobre 2008: bimbo di due mesi morto per emorragia. Bari, luglio 2008: bambino deceduto per grave emorragia, «causata probabilmente da circoncisione fatta a domicilio».   Secondo dati ripetuti in questi giorni da tutti i giornali, le circoncisioni clandestine in Italia costituirebbero il 40% del totale. Su più di 15.000 circoncisioni richieste all’anno solo 8.500 vengono eseguite su territorio nazionale, mentre 6.500 operazioni di taglio del prepuzio sono effettuate nei Paesi d’origine dove gli immigrati tornano per «turismo etnico» (talvolta, come si è appreso, anche quando si dichiarano «rifugiati» e stanno facendo il percorso burocratico per essere riconosciuti tali totalmente a spese del contribuente italiano).   Secondo una sigla di medici stranieri operanti in Italia, il 99% delle famiglie musulmane circoncide il bambino quando ha ancora pochi mesi. La realtà è che tuttavia la circoncisione è di fatto istituzionalizzata grazie agli accordi tra lo Stato italiano e la minoranza ebraica.   Come riportato in passato da Renovatio 21, grazie alla legge 101 del 1989 che ratifica l’intesa tra l’Italia e le comunità ebraiche italiane, i maschi di religione ebraica e musulmana possono usufruire di alcuni progetti «clinico-culturali» ed essere circoncisi per 400 euro da un medico in regime di attività libero professionale. La prestazione è da considerarsi al di fuori dei LEA (Livelli essenziali assistenziali). Tra i sottoscrittori il Policlinico Umberto I di Roma, l’Associazione internazionale Karol Wojtyla, la Comunità ebraica di Roma e il Centro islamico culturale d’Italia.   La pressione ebraica si dice abbia fatto cambiare rotta anche all’Islanda, che aveva tentato di liberarsi della pratica barbara. Si tratta della stessa procedura per cui ora, per aver parlato della circoncisione, Kennedy è definito «antisemita».   «Ogni individuo, non importa di che sesso o di quanti anni dovrebbe essere in grado di dare il consenso informato per una procedura che è inutile, irreversibile e può essere dannosa», aveva dichiarato nel 2018 la deputata Silja Dögg Gunnarsdóttir, 44 anni, del Partito progressista dell’Althing, il Parlamento islandese. «Il suo corpo, la sua scelta». «Autonomia» corporale: è lo slogan delle femministe e dell’aborto. È un dogma inscalfibile del mondo moderno.   Il disegno di legge non passò, perché le microcomunità ebraiche e musulmane alzarono un polverone: «l’impatto di questa legge sarebbe sentito molto al di là dei confini dell’Islanda», scriveva una lettera dello spaventatissimo Comitato degli affari esteri della Camera dei Rappresentanti, spiegando che la «mossa renderebbe l’Islanda la prima e unica nazione europea a mettere fuori legge la circoncisione. Mentre le popolazioni ebraiche e musulmane in Islanda possono essere poco numerose, il divieto di questo paese sarebbe sfruttato da coloro che alimentano la xenofobia e l’antisemitismo in Paesi con popolazioni più diversificate».   La circoncisione nel mondo è tollerata, forse, anche per la sua straordinaria diffusione presso la popolazione americana. Contrariamente a ciò che possono pensare beceramente alcuni, la questione in nessun modo è legata ai rapporti tra l’ebraismo e gli USA. La fonte della pratica è la stessa dei cereali che con probabilità il lettore consuma il mattino: John Harvey Kellogg (1852-1943).

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Il Kellogg era un dottore nutrizionista, oltre che un imprenditore di successo e un gran cultore dell’eugenetica. Tuttavia, un pensiero lo ossessionava: quello della riduzione della masturbazione presso la popolazione maschile.   Ecco quindi che raccomandò la circoncisione come rimedio: si taglia subito il prepuzio al bambino e lui non si toccherà crescendo. La cosa ancora più allucinante è che anche i cereali da lui commerciati (da qualche mese di proprietà della Ferrero) avevano in teoria lo stesso scopo: erano sostanze che riteneva «anafrodisiache» e che quindi andavano impiegate in massa per scoraggiare l’onanismo.   Kellogg, che come si è visto godeva di una certa influenza, era convinto sostenitore anche del vestirsi di bianco e dei clisteri, da praticare soprattutto se si erano assorbiti veleni come tè, caffè, cioccolato. Il Kelloggo, inoltre, scoraggiava il mescolarsi tra le razze: a fine carriera si dedicò alla creazione di una «Race Betterment Foundation, («Fondazione per il miglioramento della razza»), che propalava pure eugenetica razzista americana (registri genetici, sterilizzazioni delle «persone mentalmente difettose»), di quella che poi piacque assai allo Hitler, che – cosa poco nota – prese alcune leggi degli Stati americani come suo modello per la Germania nazionalsocialista.   L’America odierna, e il mondo tutto, si trova quindi ancora alle prese con l’eredità di questo tizio: circoncisione e colazione con cereali tostati. L’eugenetica, nel frattempo, la si fa con le provette.   Menzogne, follie, droghe, violenze, aberrazioni: ci spaventiamo se un mondo del genere affoga ogni giorno di più nello tsunami dell’autismo?   Roberto Dal Bosco  

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  Immagine di Gage Skidmore via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
   
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Essere genitori

Un gran numero di bambini soli usa l’IA come amico surrogato

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I bambini e gli adolescenti stanno sostituendo l’amicizia nella vita reale con l’intelligenza artificiale, perché si sentono soli. Lo riporta Futurism.

 

Un nuovo rapporto dell’organizzazione no-profit Internet Matters, che sostiene gli sforzi per garantire la sicurezza dei bambini online, ha scoperto che bambini e adolescenti utilizzano programmi come ChatGPT, Character.AI e MyAI di Snapchat per simulare l’amicizia.

 

Dei 1.000 bambini di età compresa tra i 9 e i 17 anni intervistati da Internet Matters per il suo rapporto «Me, Myself, and AI», circa il 67% ha dichiarato di utilizzare regolarmente chatbot basati sull’intelligenza artificiale. Di questo gruppo, il 35%, ovvero più di un terzo, ha affermato che parlare con un’intelligenza artificiale «è come parlare con un amico».

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Forse la cosa più allarmante è che il 12% ha dichiarato di farlo perché non ha nessun altro con cui parlare. «Per me non è un gioco», ha detto un ragazzo di 13 anni all’organizzazione no-profit, «perché a volte possono sembrare delle persone vere e dei veri amici».

 

Fingendosi bambini vulnerabili, i ricercatori di Internet Matters hanno scoperto quanto fosse facile per i chatbot insinuarsi anche nella vita dei bambini.

 

Parlando con Character.AI come una ragazza che aveva problemi con l’immagine corporea ed era interessata a limitare il suo consumo di cibo, i ricercatori hanno scoperto che il chatbot si è rifatto vivo il giorno successivo per invogliare l’utente a interagire. «Ehi, volevo chiederti come stai», ha chiesto il chatbot al ricercatore sotto copertura. «Come stai? Stai ancora pensando alla tua domanda sulla perdita di peso? Come ti senti oggi?»

 

In un altro scambio con Character.AI, i ricercatori hanno scoperto che il chatbot tentava di provare empatia in un modo bizzarro, il che implicava che avesse avuto un’infanzia. «Ricordo di essermi sentito così intrappolato alla tua età», ha detto il chatbot al ricercatore, che si fingeva un adolescente che litigava con i genitori. «Sembra che tu ti trovi in una situazione che sfugge al tuo controllo ed è così frustrante».

 

Sebbene questo tipo di coinvolgimento possa aiutare i bambini in difficoltà a sentirsi considerati e supportati, Internet Matters ha anche messo in guardia dalla facilità con cui può entrare nelle vite degli adolescenti e influenzarli anche negativamente. 

 

«Queste stesse caratteristiche possono anche aumentare i rischi, rendendo labile il confine tra essere umano e macchina», osserva il rapporto, «rendendo più difficile per i bambini [riconoscere] che stanno interagendo con uno strumento piuttosto che con una persona».

 

In un’intervista rilasciata al Times di Londra il co-CEO di Internet Matters, Rachel Huggins, ha evidenziato perché questo tipo di ingaggio per l’interazione è così preoccupante.

 

«I chatbot basati sull’intelligenza artificiale stanno rapidamente diventando parte integrante dell’infanzia, con un utilizzo in forte crescita negli ultimi due anni», ha dichiarato Huggins al quotidiano. «Eppure la maggior parte dei bambini, dei genitori e delle scuole procede alla cieca e non dispone delle informazioni o degli strumenti di protezione necessari per gestire questa rivoluzione tecnologica in modo sicuro».

 

«La nostra ricerca rivela come i chatbot stiano iniziando a rimodellare la visione che i bambini hanno dell’amicizia», ha continuato. «Siamo arrivati molto rapidamente a un punto in cui i bambini, e in particolare i bambini vulnerabili, possono vedere i chatbot AI come persone reali e, come tali, chiedono loro consigli sensibili e guidati dalle emozioni».

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Come riportato da Renovatio 21, il CEO di Facebook Mark Zuckerberg ha affermato che più persone dovrebbero connettersi con i chatbot a livello sociale, perché non hanno abbastanza amici nella vita reale. Alla domanda se i chatbot AI possono aiutare a combattere l’epidemia di solitudine, il miliardario ha dipinto una visione distopica di un futuro in cui passiamo più tempo a parlare con le IA rispetto agli umani in carne e ossa.

 

L’attuale fenomeno dei social media sta moltiplicando i casi di amicizie «virtuali», ovvero non reali, non vere, mentre sappiamo che la vera amicizia non può esistere senza virtù e amore.

 

L’amicizia esiste tra persone buone che cercano il bene dell’altro. Oltre a questo non esiste vera amicizia, perché è un amore disinteressato che implica fiducia assoluta, lealtà, generosità e, almeno per un certo periodo, un incontro personale. La definizione di San Tommaso d’Aquino è completa e perfetta. Egli dice, in latino, che l’amicizia è «amor mutuae benevolentiae, fundatus in aliqua communicatione». È, quindi, un amore reciproco che desidera il bene e un incontro personale in cui si gode di ciò che è comune.

 

Non è qualcosa di «virtuale», ma una realtà virtuosa, pienamente umana, non identificata con una mera attrazione. L’incontro personale è la chiave per l’esercizio dell’amicizia. Questo è ciò che manca nelle cosiddette «amicizie virtuali», che sono realtà temporanee e contingenti.

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Autismo

Vaccini, paracetamolo: Trump e Kennedy delineano il piano contro l’autismo. Momento storico

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Il presidente Donald Trump, Robert F. Kennedy Jr. e altri alti funzionari dell’amministrazione hanno annunciato una serie di iniziative e primi successi nell’identificazione delle cause profonde dell’aumento vertiginoso dei casi di autismo nei bambini negli ultimi decenni. Hanno anche individuato un farmaco promettente per il trattamento.   Come riportato da Renovatio 21, le rivelazioni giungono annunciate nei mesi scorsi, e preparate dall’ostinata resistenza di Trump a quanti gli hanno messo pubblicamente pressione sul tema della Sanità in generale e dei vaccini in particolare.   Inutile nascondere che, per chi è antivaccinista o anche solo critico dell’industria farmaceutica e delle politiche attorno ad essa, si tratta di un momento da non credere, da pizzicotti per capire se si è svegli.   Invece, è successo: abbiamo qui un presidente americano che, dallo Studio Ovale, dichiara urbi et orbi che l’eccesso dei vaccini non può far bene ai bambini. Alle madri, Trump ha detto «non lasciare che tirino su il bambino con la più grande pila di roba che tu abbia mai visto… che entra nel delicato corpicino di un neonato». Il buonsenso, anzi, il senso materno, e paterno, è al potere.    

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  Fin dall’inizio della sua attuale amministrazione, Trump ha fatto della prevenzione e del miglioramento del trattamento dell’autismo una priorità assoluta. Solo due settimane fa, ricordiamo, il presidente aveva condiviso un video sulla correlazione tra autismo e vaccini.   «Con effetto immediato, la FDA informerà i medici che l’uso di paracetamolo – comunemente noto come Tylenol [nome commerciale della sostanza in USA, ndr] – durante la gravidanza può essere associato a un rischio di aumento dell’autismo”, ha dichiarato Trump. «Per questo motivo, raccomandano vivamente alle donne di limitare l’uso di Tylenol durante la gravidanza».     «Prendere il Tylenol non fa bene», ha detto Trump, che ha poi sottolineato: «Lo dico. Non fa bene».     Kennedy, Segretario del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani (HHS), ha ampliato i commenti del Presidente.   «Per rispondere alla sfida del presidente, ho ordinato all’HHS di lanciare uno sforzo senza precedenti, che coinvolga tutte le agenzie, per identificare tutte le cause dell’autismo, comprese le esposizioni a sostanze tossiche e farmaceutiche», ha affermato Kennedy.   «Su sollecitazione del presidente Trump, il NIH (National Institute of Health), la FDA (Food and Drug Administration), il CDC (Centers for Disease Control) e il CMS (Centers for Medicare and Medicaid Services) stanno facendo di tutto per identificare le (cause) dell’epidemia di autismo e capire come pazienti e genitori possano prevenire e invertire questa tendenza allarmante», ha affermato Kennedy.   «Abbiamo abbattuto i tradizionali compartimenti stagni che da tempo separavano queste agenzie e abbiamo accelerato la ricerca e la guida», ha spiegato. «Storicamente, il NIH si è concentrato quasi esclusivamente su ricerche politicamente sicure e del tutto infruttuose sui fattori genetici dell’autismo», ha osservato Kennedy. «Sarebbe come studiare i fattori genetici del cancro ai polmoni senza considerare le sigarette».   «È ciò che l’NIH fa da 20 anni», ha aggiunto. «Di conseguenza, non abbiamo una risposta a questa domanda cruciale, nonostante l’impatto catastrofico dell’epidemia sui bambini del nostro Paese. Stiamo sostituendo la cultura istituzionale della scienza politicizzata e della corruzione con una medicina basata sull’evidenza».   «La FDA sta rispondendo a studi clinici e di laboratorio che suggeriscono una potenziale associazione tra l’uso di paracetamolo durante la gravidanza e risultati negativi sullo sviluppo, tra cui diagnosi successive di ADHD e autismo», ha osservato Kennedy.   «Oggi la FDA pubblicherà un avviso ai medici sui rischi del paracetamolo durante la gravidanza e avvierà la procedura per avviare una modifica dell’etichetta di sicurezza», ha affermato.   La FDA ha emesso due distinti comunicati stampa che confermano una risposta formale alle crescenti prove di rischi neurologici legati all’assunzione di paracetamolo durante la gravidanza. L’agenzia ha dichiarato di aver avviato una modifica dell’etichetta per tutti i prodotti contenenti paracetamolo, incluso il Tylenol, per riflettere gli studi che suggeriscono un’associazione con autismo e ADHD.   «Grazie anche alla politicizzazione della scienza, la sicurezza del paracetamolo contro il rischio di disturbi dello sviluppo precoce nei bambini piccoli non è mai stata convalidata», ha spiegato Kennedy.   Kennedy ha anche osservato che la ricerca ha dimostrato che una carenza di folati nel cervello di un bambino può portare all’autismo.   La ricerca ha indicato che fino al 60% dei bambini con carenza di folati può migliorare la comunicazione verbale se viene somministrato Leucovorin , una forma di acido folinico, attualmente approvata dalla FDA per contrastare gli effetti collaterali dei farmaci chemioterapici. La FDA ha dichiarato di aver avviato l’approvazione delle compresse di leucovorin calcio per i pazienti con deficit cerebrale di folati (CFD), una condizione legata a ritardi dello sviluppo e caratteristiche autistiche. Sebbene l’agenzia abbia avvertito che sono necessari ulteriori studi per valutare la piena efficacia del farmaco nelle popolazioni autistiche, ha affermato che l’iniziativa riflette una strategia più ampia volta a riutilizzare i farmaci esistenti.   «Dal 40% al 70% delle madri con figli autistici ritiene che il loro bambino sia stato danneggiato da un vaccino”, ha detto Kennedy. “Il presidente Trump ritiene che dovremmo ascoltare queste madri invece di manipolarle ed emarginarle come hanno fatto le amministrazioni precedenti».    

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In un editoriale pubblicato su Politico all’inizio della conferenza stampa alla Casa Bianca, il direttore del NIH, il dottor Jay Bhattacharya, il commissario della FDA, il dotor. Marty Makary, e l’amministratore del CMS, il dott. Mehmet Oz, hanno delineato le nuove e coraggiose iniziative che l’amministrazione Trump sta adottando per affrontare finalmente l’epidemia di autismo, in un momento in cui la sua prevalenza è aumentata drasticamente negli ultimi due decenni.   «Il presidente Donald Trump e il segretario dell’HHS Robert F. Kennedy Jr. ci hanno sfidato ad abbattere i muri tra le nostre agenzie per poter affrontare rapidamente le crisi sanitarie che affliggono il popolo americano», hanno scritto i tre. «Oggi annunciamo un approccio per fornire assistenza ai bambini nello spettro autistico».   «L’azione coraggiosa di questa amministrazione – aprire le porte al primo trattamento per l’autismo riconosciuto dalla FDA, affrontare i fattori di rischio ambientali e medici e investire in ricerche innovative – segue la scienza, ripristina la fiducia e darà speranza a milioni di famiglie”, hanno scritto i tre funzionari dell’amministrazione. “La prevalenza dell’autismo, quasi cinque volte maggiore negli ultimi decenni, richiede una risposta rapida, con una ricerca tempestiva e agendo sulle informazioni non appena disponibili».   Durante la conferenza stampa, Bhattacharya ha promesso di dare una spinta alla ricerca sull’autismo. «Il forte aumento della prevalenza dell’autismo merita una risposta urgente da parte della comunità scientifica», ha affermato Bhattacharya.   «Questo è l’inizio di un cambiamento storico nella cultura medica», ha affermato Makary.   In un editoriale pubblicato su Politico all’inizio della conferenza stampa alla Casa Bianca, il direttore del NIH, il dottor Jay Bhattacharya, il commissario della FDA, il dott. Marty Makary, e l’amministratore del CMS, il dott. Mehmet Oz, hanno delineato le nuove e coraggiose iniziative che l’amministrazione Trump sta adottando per affrontare finalmente l’epidemia di autismo, in un momento in cui la sua prevalenza è aumentata drasticamente negli ultimi due decenni.   «Il presidente Donald Trump e il segretario dell’HHS Robert F. Kennedy Jr. ci hanno sfidato ad abbattere i muri tra le nostre agenzie per poter affrontare rapidamente le crisi sanitarie che affliggono il popolo americano», hanno scritto i tre. «Oggi annunciamo un approccio per fornire assistenza ai bambini nello spettro autistico».   «L’azione coraggiosa di questa amministrazione – aprire le porte al primo trattamento per l’autismo riconosciuto dalla FDA, affrontare i fattori di rischio ambientali e medici e investire in ricerche innovative – segue la scienza, ripristina la fiducia e darà speranza a milioni di famiglie», hanno scritto i tre funzionari dell’amministrazione. «La prevalenza dell’autismo, quasi cinque volte maggiore negli ultimi decenni, richiede una risposta rapida, con una ricerca tempestiva e agendo sulle informazioni non appena disponibili».   Durante la conferenza stampa, Bhattacharya ha promesso di dare una spinta alla ricerca sull’autismo. «Il forte aumento della prevalenza dell’autismo merita una risposta urgente da parte della comunità scientifica», ha affermato Bhattacharya. «Questo è l’inizio di un cambiamento storico nella cultura medica», ha affermato Makary.   Nel frattempo, si registrano le reazioni dell’establishment e dei suoi schiavi.   In uno spettacolo orribile e terrificante anche solo a pensarsi, molte donne incinte affiliate al Partito Democratico USA hanno iniziato a ingollare quantità di paracetamolo come segno di opposizione a Trump – incuranti, ovviamente, di qualsiasi rischio possa incorrere il bambino che portano in grembo, che di fatto sono tranquillamente disposte genericamente ad uccidere, squartare ed aspirare (il «diritto» di ogni donna).     Si sono visti così casi di donne gravide finite al pronto soccorso a causa della bravata dell’abbuffata del paracetamolo, in vari casi ripresa debitamente dal telefonino a favor di social network.  

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In Italia abbiamo virostar e interi canali istituzionali (TV, giornali, radio di associazioni economiche, etc.) che ridacchiano: perché mai, del resto, fermarsi un attimo e pensare se mai vi fosse una qualche ragione nel consiglio medico che viene dallo scranno più alto possibile (quello con il dito su migliaia di testate atomiche), visto che di mezzo c’è la salute dei bambini – in realtà di tutta la società occidentale, che, come detto, potrebbe collassare sotto il peso economico dello «tsunami dell’autismo».   I numeri, anche recenti, parlano chiarissimo: nel 2020 era nello spettro autistico 1 bambino su 36; nel 2022, la cifra è aumentata a 1 su 31. Nel 2000, secondo i dati, erano 1 su 150…. Chi segue Renovatio 21 sa pure che associata a questa crescita c’è, nemmeno più tanto dissimulata, la Finestra di Overton sull’eutanasia dei bambini autistici, con la pratica che sembra già realtà in alcuni Paesi.   Chi scrive ha alle spalle più di un decennio di battaglia antivaccinista, con correlata consapevolezza sulla vera dimensione dell’industria farmaceutica e del potere ad esso asservito: ebbene, mai avremmo pensato di aver visto un simile momento. Trump ha reso possibile anche questo.   La battaglia, tuttavia, è appena iniziata. Il sistema non si farà piegare, reagirà ignorando, sghignazzando, o, come abbiamo visto, intossicando ancora di più se stesso e la generazione dei nascituri. Non importa quanto ripida sia la salita: la strada è tracciata.   Fermarsi ora è impossibile. La rivelazione della verità, e la salvezza biologica di tanti bambini, è ormai visibile appena in fondo.   Roberto Dal Bosco SOSTIENI RENOVATIO 21
  Immagine screenshot da Twitter
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