Essere genitori
Giurare per Ippocrate, o giurare per il CUP. La macchina sanitaria disumana e tuo figlio
Una minimale, micrologica avventura sanitaria di questo pater familias, e del suo figliolo, per cercare di significare il grande disegno di distruzione in cui, ticket dopo ticket, ci troviamo tutti.
Venerdì mattina il bambino, mentre lo porto verso uno dei suoi ultimi giorni di quarta elementare, mi dice che ha qualcosa all’orecchio. Non ci vuole molto a capire che, semplicemente, gli si è formato un tappo. Di fatto, quando gli parlo, sembra sentire poco. Un breve consulto con la madre conferma: «ma sì, è come quello dell’anno scorso. Non ti ricordi?» No, sono il padre, non la mamma, la mia tendenza è svuotare, in automatico, in tempi brevissimi, la cache cerebrale dei problemi.
Un’altra cosa mi spinge a mettere più attenzione del dovuto su quel tappo: lo ha, con estrema probabilità, ereditato direttamente da me. Nel senso: l’orecchio è stato a lungo per me quello che definiscono un «organo-bersaglio», come si alza lo stress ecco che arrivano occlusioni, otiti esterne dolorosissime, o perfino (immagino che la cosa sia collegata) problemi ai denti del giudizio.
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Non prendo la cosa sottogamba, perché so che non passa da solo: puoi provare tutto, gli spray, le goccette che ti sfrigolano dentro, i candelotti fumanti piantati verso il timpano. Un tappo è un tappo: si leva solo con una certa pressione. In passato, me lo hanno tolto otorinolaringoiatri, dottori generici, persino qualche infermiera di ambulatorio. Non bevo, quindi posso dire che nella vita ho stappato più orecchi che bottiglie di alcolico.
Non è una grande operazione: serve solo il siringone e quella bacinella metallica a forma di rene (o di fagiuolo) che devi tenere a lato, dove ad una certa apparirà, in tutto il suo orrore, il tappo, mentre nell’orecchio risuona la libertà, per la gioia dell’organismo tutto. La durata totale è, chiunque lo sa, qualche minuto appena.
Tornato a casa la sera, lo trovo nella stessa condizione. Il bambino sente poco, è ancora avvolto in quella sensazione di fastidio e rassegnazione che ricordo benissimo.
Decido di fare la mossa: è venerdì sera, il pediatra non c’è (e non devo essere sicuro che faccia queste cose, mi dicono), posso solo pensare ad una mossa radicale, portarlo in ospedale, al Pronto Soccorso pediatrico. Un luogo che, da passate esperienze, ricordo non troppo affollato, dove si può incontrare un medico abbastanza speditamente. Vuoi non trovare lì un dottore che gli lavi l’orecchio in un minuto, con pure alle spalle una laurea per farlo e un giuramento, quello di Ippocrate, per cui vive nell’imperativo di guarire il prossimo (specie quando il prossimo è un bimbo)?
Caricato in macchina il bambino, e ivi portatolo, mi trovo innanzi a diversi capannelli di infermiere del reparto emergenze dei bambini che chiacchierano: il lavoro non deve essere tantissimo, bene. Arrivati dietro il vetro dell’ufficietto che reca la scritta «accettazione» (il posto giusto, no?) una ragazza con la mascherina, con attorno altre colleghe con cui stava amabilmente conversando nel silenzio del reparto vuoto, mi dà l’informazione che avevo tentato scacciare dalla testa: per accedere al Pronto Soccorso Pediatrico devo prima passare da quello degli adulti.
Il che vuol dire ore e ore di attesa se devi vedere un medico, in un’atmosfera di estenuazione che richiede le guardie giurate in sala d’attesa (novità degli ultimi anni: cos’è cambiato? È peggiorato il servizio? Sono arrivati «ospiti» stranieri che tendono alle escandescenze? Il combinato disposto dei due fenomeni). La fila più drammatica, illogica, disperante è in realtà prima ancora, quella del cosiddetto «triage» – no, la parola italiana non la vogliono: è già questo dice tanto sulla macchina della sanità, cioè sul fatto che la sanità è una macchina.
C’est-à-dire: fai la fila, lungamente, solo per dire cos’hai e farti aprire la pratica da una tizia dietro ad un doppiovetro. Una fila disorganizzata, senza biglietti e con la costante di masse immigrate prima di te (la condizione comune della cittadinanza nella Repubblica Italiana nel secolo XXI), nessuna attenzione per la tua situazione – sei grave? Hai bisogno solo di una carta? etc. – cioè, nessun triage di nessun tipo.
Qui scatta la prima realizzazione: la tua situazione medica, la tua vita, è in realtà sottomessa ad un sistema di prenotazione. Un macchinario più grande di te, che non ti considera davvero se non come numero, e di fatto ti danno un braccialetto con un codice a barre, una cosa che era nei film di fantascienza distopica non troppo anni fa.
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Lo dico perché lo so per esperienza: l’anno scorso, in una storia che non ho ancora raccontato su Renovatio 21, ma che qualche lettore conosce perché coincise con la rarità assoluta del sito fermo per una settimana, andai in pronto soccorso per un malanno piuttosto intenso. Flashback.
Fu proprio durante la fila del triage, in cui arrivai bianco e barcollante, che ad un certo punto cedetti in modo talmente spettacoloso che ancora oggi ne vado fiero: al culmine della capacità di resistere al problema che avevo, mi sentii mancare completamente il respiro (sensazione mai avuta, neanche facendo una vasca di piscina in apnea), non avevo nemmeno la forza di chiedere aiuto… quindi, forse per la terza o quarta volta in tutta l’intera mia esistenza, vomitai – ad abundantiam, scatenando il fuggi fuggi generale, neanche fosse apparso nel nosocomio Godzilla, o un altro mostro gigante sputatore a caso.
Era l’immagine di un uomo piegato dal problema biologico, e nessuno, nessun medico, nessun infermiere, nel limbo-triage della coda burocratica multietnica, lo volle aiutare: furono proprio le guardie giurate, quelli che non hanno giurato ipocritamente per Ippocrate, e forse proprio per questo hanno conservato una qualche umanità. Quando tornai a respirare, messo dal personale in una sedia a rotelle, immaginavo che mi avrebbero fatto saltare la coda, vista la gravità – quelli prima di me stavano tutti in piedi e non avevano appena rimesso un ettolitro di anima, vitrea e gialla, sul pavimento davanti alla porta automatica proibita (si apre solo da dentro) che dà al reparto dove attendere senza speranza per altre ore ed ore.
Maddeché: feci un’altra ora di fila seduto, sconvolto e dolorante, sulla sedia a rotelle ospedaliera, e arrivato al bancone con il supervetro, l’infermiere pure mi redarguì per quello che avevo fatto. A quel punto, raccolta un po’ di adrenalina e di rabbia, mi alzai dalla sedia e alzai la voce flebile: «eccerto, la prossima volta che sto per morire improvvisamente soffocato avverto prima voi, però guardi, c’era la sua fila». L’infermiere rimase zitto.
Il proseguo di questa storia dell’anno scorso, il cui racconto rimando da tempo perché tocca il tema delicato delle trasfusioni e del loro rifiuto, lo racconto un’altra volta – anticipo tuttavia che di lì a qualche giorno di ospedalizzazione il primario con codazzo di una diecina di dottori si presentò al mio letto e, poco prima che fossi operato, usò parole che dipinsero con chiarezza nella mia mente l’immagine della mia morte per dissanguamento sul tavolo operatorio. «Lei rifiuta le trasfusioni … e tante altre cose… quindi, se succede qualcosa, che facciamo, la lasciamo morire dissanguato?»
Devo dire che nessuno, nemmeno nelle risse più belluine, mi aveva mai fatto sentire una violenza simile, la violenza della morte, con tutto ciò che adesso essa comporta per la mia discendenza. La risposta mi venne immediata: «visto che si è portato un po’ di testimoni, dichiaro pure pubblicamente che rifiuto anche l’espianto di organi». Il barone chirurgico, e tutti i suoi vassalli, valvassori, valvassini in camice bianco uscirono in silenzio, senza salutare.
Quindi, mentre venerdì sera aspettavo in quella stessa fila con mio figlio, non potevo non pensare a quei momenti dell’estate scorso. Non potevo permettermi di far passare un bambino, sangue del mio sangue, attraverso il processo di disumanizzazione che conosco e ho testimoniato – anche solo quello dell’attesa ridicola del triage, che è solo il primo grado della cancellazione della dignità umana con la sanità moderna può tranquillamente portarti alla morte. (Renovatio 21, lo sapete, non parla d’altro, su tutti i fronti declinabili).
Fine flashback. Quindi, dopo aver resistito mezzora in fila solo per avere un pezzo di carta con cui far curare un bimbo in un reparto vuoto, non gliela ho più fatta.
Il padre, stringendo la mano del figlio, lo porta via. «Papà… ma tutti gli ospedali sono così?» chiede lui, intuendo che il silenzio prolungato del genitore nasconde l’incontenibile disprezzo per il sistema. C’è di peggio, gli dico. Ma la questione è la Sanità, lo Stato moderno, in generale, cioè lo Stato impersonale e immorale che giocoforza fa male agli uomini sino ad eliminarli, gli spiego borbottando come il vecchio che sto diventando, incurante del fatto che questi sono discorsi per i miei lettori e non per un bambino di nove anni.
Piano B: mancano pochi minuti alle 20, la grande farmacia sulla strada è aperta. Lì, avevo visto in precedenza, eseguono visite otoscopiche e lavaggi auricolari. Sessanta euro: un salasso. Sono disposto a sobbarcarmelo, pur di liberare mio figlio dal suo problemino all’orecchio, che è il mio. (Sangue del mio sangue… cerume del mio cerume?)
Facciamo la fila anche qui, ma in questo caso c’è il numero, stile salumiere al supermercato. Quindi, la sorpresa: no, in realtà i lavaggi non li fanno, cioè li fanno, sì, ma non sono i farmacisti (anche loro laureati, anche loro con giuramento), ma delle infermiere apposite, che vengono solo ogni tanto, bisogna prenotare, etc. Usciamo dal negozio con il materiale per il Piano C: spruzzo di acqua di mare da 15 euro a bomboletta, flaconcino di dimetilbenzene per ammorbidire il tappo da non so quanto.
Arrivati a casa il Piano C si rivela esattamente quello a cui cercavo di non pensare: un fallimento totale. Lo spruzzetto è insignificante, le goccette sono inefficaci al punto che pensiamo di aver fatto peggio.
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È a questo punto che si fa largo nella mia mente – che mai si deve rassegnare, se si tratta di un bambino – il Piano D: chiamare la guardia medica, quella bizzarra istituzione parallela all’ospedale, l’ambulatorietto dove, diciamoci le cose come stanno, vai quando hai troppa paura della fila in pronto soccorso. Apre la sera, a significare che loro ci sono quando i dottori non ci sono, come se prima essere curato, o anche solo ascoltato, avviene senza problema. Ad ogni modo, una volta andavi, entravi, aspettavi, parlavi col dottore, che ti dava la prescrizione, e via. Non più: dopo il COVID devi chiamare al telefono, dove puoi trovare a volte una persona che ti scoraggia dal presentarti, e prenotare. La pandemia è stata essenzialmente una buropandemia, con la burocrazia che ha infettato qualsiasi istituzione, dalle scuole, alle banche, ai bar… lo sappiamo.
Faccio il numero della guardia medica, ma è troppo presto. Rispondono solo dopo le 20. Attendo, chiamo. Dopo un po’ rispondono. Racconto. Mi dicono che la guardia medica non si occupa dei bambini, che un tappo all’orecchio non è un’emergenza, e di certo loro non fanno lavaggi all’orecchio… io faccio silenzio, perché nell’intimo comincio a capire che la tattica vincente è quella di fare in modo che ascoltino se stessi. Funziona: la ragazza – la dottoressa – mi dice che vabbè, posso portarlo, ma solo per farlo vedere.
Fatta, penso io: ambiente ambulatoriale, niente masse afroasiatiche che premono alle porte, solo un medico e un bambino che sta male, che può essere aiutato con una manovra che dura un minuto, migliorandogli di netto la vita.
Macché. Arriviamo in ambulatorio, una casa cubica grigia praticamente senza finestre e un portone blindato modernissimo. Suoni il campanello, confermi di aver un appuntamento. Entrati, nessuno ci riceve, stiamo 15 minuti ad aspettare da soli al buio. Di sopra senti degli schiamazzi: il personale sta facendo bisbocce, suona come una pausa prolungata, visto che l’orario dell’appuntamento, e dell’inizio delle attività dell’ambulatorio, è quello delle 20:30.
Finalmente scende una ragazzina in camice, è una dottoressa, è quella con cui ho parlato al telefono. Se ha avuto l’umanità di visitare il piccolo, vuoi che non abbia quella di aiutarlo con la più semplice delle procedure, fatta letteralmente di acqua fresca? Guardo nell’armadio: la bacinella-fagiuola c’è, il siringone pure. Fatta. Fatta. Dai.
Invece, la dott.ssa Tizia ci dice che non può fare nulla, loro non guardano i bambini, tantomeno possono fare lavaggi, per quelli devo andare dal pediatra, e visto che non ci sarà per giorni, al Pronto Soccorso pediatrico, cioè il luogo da cui sono fuggito in preda alla rabbia contro il mostro sanitario applicato su tutti, soprattutto sul mio bimbo.
Epperò, per gentilezza, la Tizia dottoressa si offre di «guardarlo», come promesso, e lo fa: fuori l’otoscopio, e in meno di cinque secondi scatta la difficile diagnosi: «sì c’è un bel tappo». Grazie, non avevamo capito. Poi si mette a scrivere a verbale, e qui ci mette un quarto d’ora. La proporzione, mentre aspetto, mi è già chiarissima: cinque secondi per guardare il bambino, e non risolvere nulla perché non è sua mansione, e un quarto d’ora per riempire un modulo burocratico: cosa è importante, per i medici odierni, è chiarissimo. Prima della persona, viene la macchina, il sistema sanitario di cui sono ingranaggi salariati. Prima di Ippocrate, viene il Centro Unico di Prenotazione, il CUP.
La dottoressa ci dà pure una prescrizione per un altro tipo di gocce. Tornando a casa, sconfitti, ci saranno anche quelle da comprare. Così, dirigo verso la farmacia di turno (a quel punto la sola aperta) di un quartiere non semplicissimo (cioè, vinto dall’invasione immigrata), una farmacia non nota per la gentilezza: nemmeno parli attraverso lo spioncino, ma tramite il cassettone con cui devi scambiare la tessera sanitaria, i soldi, il bancomat, contro i farmaci – il farmacista non lo vedi in faccia mai, e neppure, in verità, ne odi la voce. È una transazione impersonale e difficile, cui già mi ero proprio lì sottoposto settimane prima sempre fuori orario, facendo anche allora una fila colossale.
Arriviamo, tra la serqua di immigrati che spuntano ovunque tra il bar e il parchetto circostante, notiamo davanti a noi un africano: ha la testa praticamente dentro il cassettone serale della farmacia, è piegato in avanti e parla a voce altissima, del resto la struttura, come ho detto, non sembra essere fatta per ascoltare il paziente. «Io devo prendere quel farmaco» spiega l’africano al farmacista invisibile. «Io devo… io prendo sempre… non ho ricetta perché non posso andare dal dottor, perché lavoro, faccio autista tutto giorno», garantisce. A fianco a lui, un altro africano a caso, in ciabatte e cappello da baseball, fissa nel vuoto il tramonto sui condomini del quartiere popolare.
Davanti alla persistenza dell’immigrato che cerca di farsi dare un farmaco senza ricetta, e alla blindatura del farmacista ignoto che la rimbalza, perdo, per l’ennesima vola la pazienza: non posso perdere altro tempo qui, con il bambino per mano, e neppure posso rischiare quando l’africano, probabilisticamente, andrà in escandescenze, non capendo, o fingendo di non capire, che per la medicina che vuole ci vuole un documento medico, la prescrizione. Quando ciò accadrà, penso, il pericolo ce lo beccheremo tutto io e mio figlio, che siamo in partibus infidelium, mentre il farmacista invisibile tornerà tranquillo a guardarsi Netflix, protetto da schermature di metallo e vetro antisfondamento.
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Fuggiamo anche da lì, mentre il risentimento per il mondialismo e la Necrocultura sanitaria traspirano dalla mia pelle – il piccolo, sembra comprendere telepaticamente. Del resto è mio figlio, e lo sto crescendo io… Il problema all’orecchio tuttavia rimane, e il papà non sa davvero risolverlo.
Ripieghiamo: altra farmacia di turno, fuori città. Ci metteremo un po’, ma almeno non permetterò che mio figlio possa essere messo in pericolo da colui che senz’altro ci pagherà le pensioni. Qui c’è uno spioncino dci venti centimetri per venti, una finestrella che ti fa vedere una stanza vuota e, quando entra, parte della faccia del farmacista di turno. Qui mi azzardo: «scusi… non è che fate lavaggi auricolari? Se non può aprirmi le passo la testa di mio figlio attraverso la finestrella». Sorride. Non ha idea dello sforzo, e dell’umiliazione, che sto vivendo per trovare qualcuno che aiuti mio figlio. È notte inoltrata.
A casa, è tardi. Preghiere, libro, a letto. Quando gli spengo la luce spero tanto che si svegli con il problema risolto automaticamente. Non è così. Discussioni mattutine con la madre. Forse va via da solo, ma bisogna aspettare. Era successo quando eravamo andati alle terme (altro evento svuotato via dalla memoria cache paterna). Va bene.
Sabato mattinata, lavoro, faccio la spesa, commissioni varie, ma il pensiero mi tarantola. Cosa sto facendo? Lo lascio lì, mio figlio, con un malanno addosso? Ma che roba è?
Il giorno dopo avrebbe avuto il capitolo finale di una delle cose più fondamentali dell’universo, il minibasket. Cosa fa, va in campo e non sente le indicazioni dell’allenatrice? Poco dopo, ci sarebbe un ulteriore evento determinante: esame di passaggio di cintura a judo. Il lettore di Renovatio 21 sa che, nel mondo moderno che ha programmaticamente cancellato ogni forma di iniziazione maschile (con il risultato di generazioni di drogati ed omosessuali), il genitore deve attaccarsi allo sport, surrogato della caccia e della guerra, per ogni briciola iniziatica di sviluppo spirituale possibile.
È così che prendo la decisione più dura: vado a Canossa. Cioè, torno in ospedale. Piano E. Va bene, farò la fila al triage del Pronto Soccorso adulto, quella dove rischiavo di morire soffocato l’anno passato, è per il bene di mio figlio. E poi magari a quest’ora non c’è nessuno, ci mandano subito al pediatrico, e zac, problema risolto, assieme alla mia dissonanza cognitiva di padre che non riesce a trovare, in tutto il sistema, una persona in grado di mettere un po’ di acqua nell’orecchio di un bambino.
Muniti di una Nintendo Switch strategica – per cui la noia me la ciuccio via io, mentre lui seduto gioca a Zelda o Capitan Tsubasa – ci ripresentiamo al Pronto Soccorso, e – colpo di fortuna! Alè! – non v’è nessuno. Subito al bancone, dove però l’infermiera ci mette un po’ a guardarci in faccia. Quando lo fa, dobbiamo rispiegare tutto, ma va bene, siamo vicini alla meta, l’orecchio stappato è dietro l’angolo. Scatta il braccialetto con codice a barre distopico. Evvai. Ampie falcate verso il Pronto Soccorso pediatrico, cioè verso la tanto attesa liberazione auricolare.
Eccoci: le infermiere pediatriche sono appollaiate nei consueti capannelli a reparto praticamente vuoto. Ripeti tutta la storia. Poi le domande importanti. Salute? Sì, sempre in salute. Allergie? No, nessuna. Vaccini?
«No».
«Dico, i vaccini pediatrici normali…», precisa lei. No, nemmeno uno.
L’infermiera esita, si irrigidisce un pochino, vedo. Poi chiede di possibili allergie di farmaci. No. Io ribadisco che vorrei solo, compatibilmente con i loro tempi e le emergenze, che lavassero l’orecchio di mio figlio. Lei chiama una collega più giovane, che, mascherata, mi dice perentoria: ma no, qui non facciamo lavaggi d’orecchio, ci mancherebbe, e poi sono lì per le emergenze… Non c’è nessuno, dico io. «Non possiamo fare questa cosa», dice. Va bene, dico, ma c’è un dottore, in questo momento? Ne hanno disponibili addirittura due, mi informa, e io penso il silenzio del reparto vuoto è tale che probabilmente stanno pure ascoltando direttamente la conversazione.
Le dottoresse, continua l’infermiera mascherinata, al massimo possono vedere il bambino.
A quel punto mi indurisco io: scusi, siamo già stati in guardia medica, abbiamo il referto, cinque secondi di otoscopio hanno confermato che il bambino ha solo un tappo, nient’altro. A questo punto, se non è possibile fare altro, noi andiamo, stiamo perdendo tempo noi, facendone perdere anche a voi.
«È libero di farlo. Metteremo “non risponde alla chiamata”». Chiamata de che? Praticamente ci siamo solo noi. E quindi, pagherò il ticket anche senza ottenere nulla? «Sì certo, arriverà a casa». Nella mia testa, mentre il fastidio tocca vette stratosferiche, si fa largo anche la prospettiva che poi, da qualche parte resterà il fatto che porto mio figlio all’ospedale e poi però spariamo. Sapete: quel tipo di cosa che poi può essere usato contro di te quando magari le istituzioni cercano materia per darti addosso – chi conosce la storia dell’antivaccinismo in Italia sa di cosa parlo.
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Per cui, eccoci con le mani legate (da un braccialetto con codice a barre). La chiamata però è, come intuibile, immediata. Nell’ambulatorio c’è una dottoressa semi-meridionale, anche gentile, con uno stuolo di infermiere che vanno e vengono dalle porte. C’è la possibilità che si consumi l’atto di umanità, e la dottoressa levi il tappo di cerume a mio figlio? No. «Non sono cose che facciamo. Le fa l’otorinolaringoiatra». Quindi, ci mandate di sopra, in otorinolaringoiatria, chiedo. «No, non si può. L’otorino il sabato e la domenica c’è solo al mattino fino a mezzogiorno. È andato via poche ore fa. Non è che possiamo richiamarlo per un orecchio tappato».
Io non replico nulla, continuo semplicemente a concentrare il mio sentimento guardandola dritta negli occhi. Ad un certo punto, per un istante brevissimo, sento che anche lei capisce quanto la situazione sia grottesca, e toglie lo sguardo. Forse solo per un attimo, nella sua mente può essersi fatto largo il pensiero che il suo lavoro, anzi il suo compito, la sua missione, è diverso dal passare le carte, dal fare solo ciò che è demandato burocraticamente?
Forse. Io però ad un certo punto obietto, sia pure con una certa calma: «dottoressa, quindi, mi vuole dire che, tra le migliaia di dottori e infermieri che lavorano in questo ospedale, non c’è nessuno che può fare un lavaggio all’orecchio di mio figlio?». No, mi dice, bisogna sentire l’otorino, che non c’è. Ecco, potete venire domani mattina, se e quando avrà tempo, vi seguirà lui. Queste sono le carte.
Usciamo anche da questo ennesimo capitolo di tritacarne buro-sanitario sconfitti. Nessuno, nell’universo provinciale di dottori, infermieri, farmacisti, vuole aiutarci, nemmeno con un’inezia come un lavaggio d’orecchio – non è (più) suo compito, punto.
SMS alla madre, che era già disillusa. «Tornate a casa… lo sapevamo». Io però non ho intenzione di mollare, e quindi ragiono: quello che ci serve non è un medico, né un sanitario, uno specialista, nulla. No: dobbiamo solo trovare, qui dentro, una persona rimasta umana. Dobbiamo trovare qualcuno che si ricorda che ha giurato per Ippocrate, e non per il CUP. Qualcuno che vede un bambino mogio e, invece, di compilare scartoffie per mandarlo via, lo aiuta.
Piano F, Mission Impossibile: trovare umanità residua, in ospedale? È l’ultima cosa da fare, l’extrema ratio a cui giungere: la ricerca della persona umana. Saltare i canali istituzionali, l’imbuto della burocrazia sanitaria, e parlare faccia a faccia con un essere umano non divorato dalla macchina.
Quindi, ascensore. Reparto Otorinolaringoiatria, dritti – e pazienza se mi hanno detto che il dottore non c’è: una laurea non è la sostanza che stiamo cercando in questo momento. Arriviamo, ho il bambino per mano: c’è silenzio, ma capisco che sono tutti impegnati. In una saletta-ambulatorio c’è un tizio seduto ad una scrivania che parla con uno in piedi, immagino siano dottore ed infermiere, non so, faccio sempre fatica a distinguerli, forse è un effetto voluto, come la sparizione delle suore dagli ospedali.
Mi guardano, ma non si curano, non stanno chiacchierando, ma discutendo operativamente. Io, per cortesia, non li interrompo. So che per la cosa che devo chiedere non devo sembrare scortese, perché ho capito quanto questa quisquilia sia contra legem, quanto l’elasticità della medicina sia totalmente perduta. Non insisto, ma persisto, aspetto fuori dalla porta.
Arriva una vecchia infermiera: «scusi… ha bisogno?» Le spiego tutto. Vorrei solo un lavaggio d’orecchio per questo bambino. «Ma è stato in Pronto Soccorso pediatrico?»… «Veniamo da lì. Ci hanno dato appuntamento qui per domani. In realtà io mi chiedevo se non ci fosse qualcuno in grado di farlo ora… Signora, sono due giorni che giro come una palla da flipper» Mentre mi esce questa similitudine mai venutami prima, sento che, in questo contesto, le mie parole, anche nella volontà di non lasciar trasparire nessun fastidio, possono suonare come pura sfacciataggine. Ma come, senza prenotazione? Ma come, fuori orario così?
«Senta, in realtà il dottore è ancora qui… è molto impegnato però… doveva andare via ore fa. Io non le assicuro nulla, se posso glielo chiedo, vediamo cosa dice. Lei aspetti qui». Mi si apre il cuore: «signora, quello che sta facendo per noi è già ora molto di più quello che ha fatto una dozzina di suoi colleghi nelle ultime ore».
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Il ragionamento era giusto: un essere umano in ospedale ancora esisteva. Ora bisognava vedere se questa sua umanità era condivisa con il suo superiore: cosa non impossibile, perché bonun sui diffusivum, diceva San Tommaso, il bene si espande, la carità è contagiosa. Aspetto in piedi sulla porta, il bambino lo metto seduto con i videogiochi. In reparto lavoro ne avevano: torme di pazienti con il naso fasciato escono dalle camere durante l’orario di visita, ad un certo punto vedo una ragazza che crolla al suolo, non so se per scherzo, mentre famigliari e infermieri turbinano attorno a lei. Un sabato pomeriggio intenso, e io sono lì sono per uno stupido tappo all’orecchio, in effetti.
Arriva, infine, la tanto agognata notizia: vedo l’infermiera buona che parla in fondo al corridoio con il dottore, che è proprio quello che prima stava alla scrivania. Vengono verso di me, lui mi dice che va bene, è tardi, ma facciamolo. Piazzano il bambino su una sedia accanto ad una macchina complicata, che in realtà è uno spruzzo per le orecchie professionale, montato però in modo che il tubicino non arriva benissimo (quanto lo usano…?).
Entrano in sala, dal nulla, altre quattro infermiere, ognuna tiene qualcosa. Il dottore va di otoscopio e conferma: tappone sul destro, tappino, pure, sul sinistro. Zum, acqua nell’orecchio, gli occhietti chiusi in una smorfia di dolore. Salta fuori una roba nera gigantesca, tra inni esultanti delle infermiere.
Per il sinistro è più difficile, il dottore chiede uno strumento con un cognome francese – pinza di Villot? Boh! – che nessuna delle astanti sa cosa sia. Se lo trova lui, un ferretto ansato. Due colpetti dentro al padiglione auricolare, tra smorfie di estemporaneo dolore vero del bambino. Acqua: salta un altro tappo, più chiaro, che nuota sconfitto nella bacinella metallica. Altri versi esultanti delle infermiere.
Fatto. Durata del tutto: meno, molto meno di cinque minuti. Difficoltà dell’operazione: inesistente – ma riconosco il bonus ricevuto dall’estrema professionalità dello specialista. Il quale giunge infine alla tremenda realizzazione… non ci sono le carte adeguate… «quindi non posso scrivere niente?» No, però ha aiutato il bambino. E suo padre. Grazie. Grazie infinite.
Il piccolo, come nuovo. Quel senso di liberazione lo conosco bene: sono io, del resto, che probabilmente gli ho trasmesso geneticamente, o chissà in che altro modo, quel problema. Il sabato pomeriggio è andato totalmente (con tutta la sera del venerdì), e lui rifiuta pure di suggellare la vittoria con il gelato: è un bambino tanto bravo, i dolci li mangia solo raramente, e solo quando ne ha davvero voglia.
Io ho modo di elaborare sull’accaduto: sì, come sapevo, la classe medica è cambiata, in nessun modo sente la necessità di aiutare il prossimo, come prevedeva il giuramento di Ippocrate. Non è avvenuto tutto di colpo: giurare di «non somministrare farmaci mortali o suggerire consigli tali, né fornire medicinali abortivi» e poi lavorare tra 194, RU486, vaccini, psicofarmaci, eutanasia, predazione degli organi, non è conciliabile.
Tuttavia, capiamo come la pandemia abbia completato la trasformazione: il dottore è esecutore, lo si può vedere solo tramite interfaccia informatica (quando lo si vede: basta una mail, e ti trovi il farmaco prescritto in farmacia, senza neanche risposta), e una sua eventuale dissidenza, in scienza e coscienza, rispetto alla vulgata dominante è punita draconianamente: radiazione, penale, pubblico ludibrio.
Se la professione medica si automatizza, non possiamo aspettarci che essa tratti i pazienti anzitutto come esseri umani. Giocoforza, la sanità odierna, con i suoi dogmi e i suoi computer, i codici a barre e l’ultra-specialismo, i farmaci non testati e la fine del consenso informato, non può che essere un processo disumanizzante.
Non sono concetti astratti, analisi bioetiche da accademia: è la vostra realtà presente, è ciò che c’è dietro ad un’odissea sfiancante per trovare qualcuno che, semplicemente, faccia un lavaggio auricolare ad un bambino.
Ora, tremiamo davanti all’imbuto che la Sanità dell’impero della Necrocultura mette davanti a chiunque ha un problema ben più grave. E vibriamo di rabbia quando pensiamo che tale problema può essere stato causato dal problema stesso. Che il danno iatrogeno sia in realtà diffuso al punto da rendere insostenibile la società nel suo insieme.
Non si tratta di una questione di poco conto. La ridefinizione totale del sistema sanitario ridotto ad apparato di dolore e morte, pena l’implosione sua e della civiltà, è la sfida più grande che ogni partito politico raziocinante, ogni essere umano rimasto tale, deve intraprendere.
Perché, ne ho dimostrazione materiale, questa macchina disumana è qualcosa che non possiamo permetterci vedere inflitta sui nostri figli.
Roberto Dal Bosco
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Essere genitori
L’allattamento al seno è meglio del latte artificiale, ma le mamme devono limitare l’esposizione alle sostanze chimiche: studio
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- Una maggiore esposizione ai ritardanti di fiamma polibromurati è stata associata a punteggi più bassi nei test di sviluppo di Bayley , che misurano il pensiero, il movimento e lo sviluppo socio-emotivo nei neonati e nei bambini piccoli.
- Numerosi pesticidi organoclorurati presenti nel latte materno sono stati associati a peggiori risultati cognitivi e linguistici durante l’infanzia, e alcuni di essi sono stati associati a un rischio maggiore di ADHD.
- Secondo l’Infant-Toddler Social and Emotional Assessment, i bambini le cui madri presentavano livelli più elevati di ritardanti di fiamma nel latte materno avevano 3,3 volte più probabilità di avere comportamenti più orientati verso l’esterno (esternalizzanti) , come l’impulsività.
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- I bisfenoli (come il BPA), utilizzati nei rivestimenti delle lattine per alimenti, nei contenitori di plastica e nelle ricevute termiche, sono stati rilevati in tutto il mondo. Queste sostanze chimiche possono imitare gli ormoni e altri studi hanno collegato l’esposizione precoce al BPA a un aumento del rischio di malattie cardiache, ictus, diabete di tipo 2 e obesità in età adulta.
- I pesticidi organoclorurati, molti dei quali utilizzati in agricoltura e nel controllo dei parassiti e persistenti nel suolo e negli alimenti, sono stati rilevati frequentemente, tra cui 36 diverse sostanze chimiche in 11 studi. Ricerche precedenti hanno collegato l’esposizione a tumori infantili, disturbi neurologici , infertilità, parto prematuro e problemi metabolici e riproduttivi.
- I ritardanti di fiamma polibromurati, utilizzati in schiume per mobili, componenti elettronici e tessuti, e i policlorobifenili (PCB) , un tempo utilizzati in apparecchiature elettriche e materiali industriali e ancora presenti nel suolo, nell’acqua e negli alimenti, sono stati rilevati in tutti i 10 studi che li hanno valutati. L’esposizione è stata associata a punteggi più bassi nello sviluppo infantile, a un maggiore rischio di problemi comportamentali e a squilibri ormonali tiroidei.
- Sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche (PFAS , o «sostanze chimiche perenni»), utilizzate in pentole antiaderenti , tessuti antimacchia, imballaggi alimentari e processi industriali, sono state comunemente rilevate, tra cui PFOA e PFOS. Lo studio suggerisce che queste sostanze chimiche potrebbero essere più concentrate nel latte materno. L’esposizione è stata associata a cancro, malattie della tiroide, danni al fegato, indebolimento del sistema immunitario e problemi di sviluppo.
- Gli ftalati, comunemente presenti nella plastica , nei prodotti per la cura della persona e negli imballaggi alimentari, sono stati rilevati frequentemente, con metaboliti come MEHP, MiBP e MnBP che sono comparsi in tutti gli studi. Sebbene gli ftalati vengano eliminati rapidamente dall’organismo, sono ampiamente presenti nei beni di consumo. L’esposizione precoce è stata collegata a problemi riproduttivi, malattie metaboliche e problemi dello sviluppo neurologico.
- I parabeni, conservanti comuni utilizzati in lozioni, cosmetici, shampoo e alcuni alimenti confezionati, sono stati identificati in 10 studi, e il metilparabene è presente in tutti. In quanto interferenti endocrini, i parabeni possono essere collegati a problemi riproduttivi , cancro al seno, obesità e disturbi della tiroide.
- Gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA), un tipo di inquinante atmosferico prodotto dalla combustione di combustibili fossili, dai gas di scarico del traffico, dal fumo di tabacco e dalle emissioni industriali, sono stati rilevati frequentemente. L’esposizione agli IPA è stata associata a problemi metabolici, respiratori, riproduttivi e dello sviluppo.
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Essere genitori
Livelli pericolosamente elevati di metalli tossici nei giocattoli di plastica per bambini
Un recente studio brasiliano ha rilevato concentrazioni allarmanti di metalli tossici nei giocattoli per bambini commercializzati nel Paese. Lo riporta Science Daily.
Ricercatori di due università brasiliane hanno esaminato un vasto campionario di giocattoli di plastica, sia di produzione nazionale che importati, conducendo l’indagine più completa mai realizzata sulla contaminazione chimica di questi articoli.
Il dato più inquietante riguarda il bario: in molti campioni la sua concentrazione è risultata fino a 15 volte superiore al limite di sicurezza previsto dalla normativa brasiliana. L’esposizione prolungata al bario è associata a gravi danni cardiaci e neurologici, inclusa la paralisi.
«Sono state rilevate anche elevate quantità di piombo, cromo e antimonio. Il piombo, associato a danni neurologici irreversibili, problemi di memoria e riduzione del QI nei bambini, ha superato il limite nel 32,9% dei campioni, con alcune misurazioni che hanno raggiunto quasi quattro volte la soglia accettata» scrive Science Daily. «L’antimonio, che può scatenare problemi gastrointestinali, e il cromo, un noto cancerogeno, erano presenti al di sopra dei livelli accettabili rispettivamente nel 24,3% e nel 20% dei giocattoli».
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Attraverso la spettrometria di massa al plasma, lo studio ha identificato ben 21 elementi tossici: argento (Ag), alluminio (Al), arsenico (As), bario (Ba), berillio (Be), cadmio (Cd), cerio (Ce), cobalto (Co), cromo (Cr), rame (Cu), mercurio (Hg), lantanio (La), manganese (Mn), nichel (Ni), piombo (Pb), rubidio (Rb), antimonio (Sb), selenio (Se), tallio (Tl), uranio (U) e zinco (Zn).
«Questi dati rivelano uno scenario preoccupante di contaminazione multipla e mancanza di controllo. Tanto che nello studio suggeriamo misure di controllo più severe, come analisi di laboratorio regolari, tracciabilità dei prodotti e certificazioni più stringenti, soprattutto per i prodotti importati», ha dichiarato uno degli autori principali della ricerca.
Gli studiosi hanno inoltre calcolato i tassi di rilascio delle sostanze: la percentuale che effettivamente passa dal giocattolo al bambino durante l’uso normale (inclusa la pratica di portarli alla bocca). I valori oscillano tra lo 0,11% al 7,33%, quindi solo una piccola parte del contaminante viene assorbita. Tuttavia, le elevatissime concentrazioni iniziali e l’esposizione quotidiana prolungata (per mesi o anni) rendono il rischio sanitario comunque significativo.
I ricercatori ritengono che i metalli pesanti entrino nei giocattoli soprattutto durante la produzione, in particolare con le vernici e i pigmenti utilizzati. Le correlazioni tra gli elementi rilevati suggeriscono, in molti casi, una fonte comune di contaminazione.
In studi precedenti, lo stesso gruppo aveva già documentato la presenza nei giocattoli di interferenti endocrini (sostanze che alterano l’equilibrio ormonale), associati a problemi di fertilità, disturbi metabolici e aumento del rischio oncologico.
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Essere genitori
I bambini con cellulare prima dei 12 anni corrono un rischio maggiore di obesità, depressione e sonno scarso
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I genitori devono parlare con i loro figli dell’uso del cellulare
Barzilay ha sottolineato che i cellulari non sono intrinsecamente dannosi. «Offrono vantaggi significativi, connettendo le persone e fornendo accesso a informazioni e conoscenze», ha affermato. Ha empatizzato con i genitori che devono decidere per quanto tempo aspettare a dare un cellulare ai propri figli e che devono stabilire dei limiti di tempo una volta che lo fanno. I genitori possono stare tranquilli che i cellulari non sono ammessi nella stanza dei bambini durante la notte e che è opportuno dedicare loro del tempo per socializzare e fare attività fisica, ha affermato. Barzilay ha anche incoraggiato i genitori ad aiutare i propri figli a sviluppare «abitudini tecnologiche sane» parlando regolarmente con loro dell’uso del cellulare e di come li fa sentire. «Quando gli adolescenti capiscono che queste conversazioni nascono da un impegno genuino nei confronti della loro salute, sono più propensi a collaborare con i genitori, riconoscendo che entrambe le parti condividono l’obiettivo comune di sostenere il loro benessere generale», ha affermato.Sostieni Renovatio 21
I social media sono solo una parte del problema
Lo studio di Pediatrics si è concentrato sul possesso di cellulari, non sul tipo di contenuti a cui i bambini accedono quando li usano. Tuttavia, parte della controversia sull’uso del cellulare da parte dei bambini riguarda l’impatto negativo dei social media su di loro. Ad esempio, The Defender ha recentemente riportato la notizia di una ragazzina di 12 anni che si è tolta la vita appena tre settimane dopo aver iniziato ad assumere Prozac, in seguito ad anni di dipendenza dai social media che, secondo i suoi genitori, avevano contribuito alla sua depressione. Sua madre è ora coinvolta in una causa che accusa TikTok, Snapchat e YouTube di aver preso di mira i bambini vulnerabili con contenuti dannosi. A gennaio, i ricercatori dell’organizzazione no-profit Sapien Labs hanno riferito che sentimenti di aggressività, rabbia e allucinazioni erano in forte aumento tra gli adolescenti negli Stati Uniti e in India, e che tale aumento era collegato all’età sempre più precoce in cui i bambini acquistano i cellulari. Questo mese, l’Australia si prepara a implementare il primo divieto nazionale al mondo sui social media per gli adolescenti. A partire dal 10 dicembre, le aziende di social media dovranno adottare «misure ragionevoli» per garantire che i bambini e gli adolescenti di età inferiore ai 16 anni in Australia non possano creare account sulle loro piattaforme. Entro tale data, le aziende dovranno anche rimuovere o disattivare gli account dei giovani australiani. Ma i cellulari non sono dannosi per i bambini solo a causa dei social media, secondo il dottor Robert Brown, radiologo diagnostico con oltre 30 anni di esperienza e vicepresidente della ricerca scientifica e degli affari clinici per l’Environmental Health Trust. All’inizio di quest’anno, Brown ha pubblicato una ricerca che dimostrava che bastano appena 5 minuti di esposizione al cellulare per far sì che le cellule del sangue di una donna sana si aggregassero in modo anomalo, anche quando il cellulare si trovava a un centimetro dalla pelle. Brown ha dichiarato al The Defender di essere incoraggiato nel vedere istituzioni di alto livello come l’Università della Pennsylvania prestare attenzione alle conseguenze dell’uso dei cellulari sulla salute dei bambini. Tuttavia, vorrebbe anche che la ricerca si concentrasse su come le radiazioni a radiofrequenza (RF) emesse dai telefoni danneggiano la salute dei bambini. «Non è solo la giovane età in cui si acquista un telefono a essere responsabile», ha affermato. Miriam Eckenfels, direttrice del programma sulle radiazioni elettromagnetiche (EMR) e wireless di Children’s Health Defense, è d’accordo. «Lo studio di Pediatrics si aggiunge alla montagna di prove che dimostrano che gli smartphone sono problematici e che i genitori devono proteggere i propri figli. Oltre al contenuto, anche le radiazioni RF sono dannose». Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ormai riconosciuto che ci sono prove «altamente certe» che l’esposizione alle radiazioni dei cellulari provoca due tipi di cancro negli animali, ha affermato. «Genitori e pubblico devono avviare un dialogo sensato sulla tecnologia quando si tratta dei nostri figli e smettere di dare per scontato che queste tecnologie siano innocue», ha affermato Eckenfels. Suzanne Burdick Ph.D. © 2 dicembre, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD. Questo articolo è stato aggiornato per chiarire che il bupropione (Wellbutrin) è un antidepressivo, ma non un SSRI. È un inibitore della ricaptazione della noradrenalina e della dopamina, o NDRI. Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
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