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Storia

Dottrina Monroe e «Destino Manifesto»: le origini storiche della politica continentale USA

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Nel 1775 il testo di Thomas Jefferson in cui si difendeva la necessità di prendere le armi contro la madre patria, Dichiarazione delle cause e della necessità di prendere le armi, diede origine ad accesi dibattiti tra le tredici colonie nord-americane. Il timore di affrontare un salto verso l’ignoto, immaginando un’America non più britannica e nemmeno europea, aveva però infervorato gli animi di quella élite economica che spingeva per la secessione.

 

Nel 1776, Thomas Paine attraverso il pamphlet Common SenseSenso comune») fornì allora le linee guida per convincere l’opinione pubblica della bontà del progetto di distacco dalla corona britannica. Il testo conteneva forti critiche verso la monarchia britannica che, secondo l’autore, inibiva le possibilità economiche delle colonie impedendo loro di commerciare liberamente con paesi terzi.

 

I legami con la Gran Bretagna e le nazioni europee obbligavano a prendere parte a inutili guerre che drenavano immense risorse. La visione eccezionalista e internazionalista di Paine, anche attraverso il noto Model Treaty redatto da Adams, divenne il discorso egemone nella politica estera statunitense degli anni a venire.

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Secondo Paine la struttura sarebbe stata imperniata su: la centralità del commercio; l’universalismo; l’interdipendenza tra politica interna ed estera; l’eccezionalità degli Stati Uniti; il rapporto tra gli obiettivi posti e gli strumenti necessari per raggiungerli.

 

A tutti gli effetti si trattava di un’ideologia del commercio che prevedeva per i futuri Stati Uniti un ruolo e una funzione centrali nella trasformazione dell’ordine globale. Il distacco dall’impero e la formazione di una Repubblica diventavano la condizione necessaria per la creazione di un nuovo ordine mondiale e per la «nascita di un mondo nuovo».

 

Secondo Paine, questa svolta epocale avrebbe messo fine alle guerre e alle logiche di potenza che fino a quel momento avevano prevalso, per questo motivo la causa americana diventava la causa dell’umanità, «facendo ricominciare il mondo di nuovo». Ogni strumento sarebbe stato lecito per adempiere al proprio destino.

 

Mentre Paine sognava la liberazione dei popoli dal male della guerra non esitava comunque a dichiarare necessaria l’immediata istituzione di un governo centrale e di una marina militare per difendere i traffici commerciali. La nascita della nazione era accompagnata da un marcato nazionalismo che non avrebbe disdegnato il ricorso alla forza militare pur di raggiungere i propri scopi.

 

La Dichiarazione d’indipendenza del 1776 conteneva un atto di unione tra le colonie che lasciava intravedere un’evoluzione dell’internazionalismo del Common Sense. L’eccezionalità americana si bilanciava tra la vocazione imperiale e la salvaguardia della sua struttura politica repubblicana. Il presidente George Washington, nel suo discorso d’addio al congresso, denominato Farewell Address, del 1796, citò il principio del nonentanglement. Washington avvertì la nazione di mantenersi a giusta distanza dai vincoli europei per non venirne risucchiati e di sviluppare il proprio mondo resistendo alle ingerenze esterne. 

 

Gli Stati Uniti nel 1790. Immagini di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

 

Ad inizio Ottocento la Louisiana era in mano spagnola: il Regno di Spagna l’aveva acquistata dalla Francia nel 1763, in seguito alla Guerra dei Sette anni. La navigabilità del fiume Mississippi e la possibilità di accesso al Golfo del Messico attraverso New Orleans rappresentavano per la repubblica statunitense premesse fondamentali per il proprio sviluppo economico. Le regioni americane dell’Ovest dipendevano dall’utilizzo del fiume per trasportare le merci. La Spagna nel 1800, ormai ridotta a mero satellite dell’Impero napoleonico, accettò di restituirle la Louisiana.

 

Nel 1803 Napoleone offrì agli Stati Uniti l’intero bacino del Mississippi che diede un significativo consolidamento geopolitico e la libertà di accesso al Golfo del Messico. Con la Spagna sempre più fiacca, la Francia definitivamente fuori dai giochi e l’Inghilterra presente in Canada ma con i territori del Nord Ovest attraversati dagli affluenti del grande fiume americano, il contrasto europeo all’espansionismo americano risultava ampiamente indebolito.

 

Il Trattato Adams-Onís del 1819 portò definitivamente alla realizzazione dell’obiettivo di trasformare gli Stati Uniti in una repubblica transcontinentale. L’accordo prevedeva la cessione delle due Floride e la rinuncia della Spagna a qualsiasi pretesa sui territori dell’area del Nord-Ovest fino al Pacifico. La parallela crisi in America Latina stava portando alla definitiva distruzione dell’impero spagnolo.

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Le varie repubbliche indipendenti nate a cavallo tra gli anni Dieci e Venti dell’Ottocento vennero salutate con entusiasmo come nuove realtà che avanzavano sulla stessa linea evolutiva statunitense. La posizione di Adams però si manteneva distaccata. Il pregiudizio nutrito verso le popolazioni latinoamericane cattoliche e spesso meticce e, soprattutto nei decenni successivi, l’orientamento razzista verso il Sudamerica avrebbe dominato l’opinione pubblica. 

 

La Dottrina Monroe del 1823 si riassumeva in tre principi chiave che avrebbero indirizzato il comportamento di politica estera statunitense verso il Sudamerica nei decenni a venire: la non colonizzazione Europea; il non intervento americano a discapito europeo; la non ingerenza reciproca tra America ed Europa. Il contenuto della dichiarazione di Monroe tornava ad affermare con veemenza una visione eccezionalista, internazionalista, anticoloniale e liberale. 

 

Verso la metà dell’Ottocento nel congresso americano si discuteva sul proseguimento dell’avanzamento imperiale a nord ovest nell’Oregon e a sud ovest nel Texas. Il 27 dicembre del 1845 sul New York Morning News uscì «The True Title», un articolo a firma di John O’Sullivan in cui appariva per la prima volta lo slogan «Manifest Destiny» («Destino manifesto»). Il destino degli Stati Uniti doveva essere quello di «occupare e conquistare l’intero continente» assegnato loro «dalla Provvidenza per realizzare il grande esperimento della libertà e dell’autogoverno federale».

 

Già dai primi anni Venti dell’Ottocento, molti coloni statunitensi erano stati incoraggiati dal governo messicano a stabilirsi nelle scarsamente popolate terre del Texas, superando in pochi anni gli spagnoli per numero di abitanti. Le tensioni e le instabilità che ne derivarono portarono a tensioni tra i coloni texani e il governo messicano. Nello scontro tra i due eserciti, i messicani furono sconfitti nella battaglia di San Jacinto dell’aprile del 1836.

 

Il Texas venne annesso agli Stati Uniti solamente dopo una decina di anni da una spregiudicata mossa politica del presidente uscente Tyler il primo maggio 1845. Il confine venne spostato sul Rio Grande, molto più a sud di quanto non lo fosse in precedenza, determinando una condizione impossibile da accettare per il Messico. Nel maggio del 1846 un contingente messicano attraversò il Rio Grande e attaccò le truppe americane.

 

La guerra terminò assai rapidamente nel 1847 con l’invasione di Città del Messico. Il vivace dibattito interno fra le fazioni rappresentanti il sud e il nord del paese si concentrò sull’annessione completa del Messico, ma le teorie razziste prevalsero, imponendo di mantenere quanto più possibile il confine sulla color line, il confine della razza.

 

Vignetta satirica del 1896 di Victor Gillam (1867–1920): europei e latinoamericani fuori dalla linea tracciata dallo Zio Sam; immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

 

Con il Trattato di Guadalupe Hidalgo del gennaio 1848, il Messico accettava la sottrazione del Texas sul confine del Rio Grande, e inoltre anche i territori del Nuovo Messico e della California, perdendo così un terzo del suo territorio.

 

Gli Stati Uniti, invece, riuscivano a concludere il processo di unificazione continentale del Paese da costa a costa. 

 

Marco Dolcetta Capuzzo

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Immagine di John Gast (1842–1896), American Progress (1872), Autry Museum of the American West, Los Angeles.

Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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Arte

Da Nasser a Sting e i Police: il mistero di Miles Copeland, musicista e spia della CIA

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La I.R.S. Records venne fondata nel 1979 da Miles Copeland III. L’etichetta produsse alcuni tra i più rappresentativi artisti musicali degli anni Ottanta. L’influenza che esercitò nel punk inglese e nella new wave fu fondamentale producendo prodigi come i Police, i R.E.M., i Dead Kennedys. Il logo della casa discografica statunitense ritraeva un uomo in primo piano con un cappello anni ’50 stilizzato in bianco e nero e chiamato spy guy   Un altro fratello Copeland, Ian (1949-2006), fondò la Frontier Booking International, in acronimo F.B.I., una agenzia di talenti specializzata nella musica e che rappresentò tra gli altri anche i R.E.M., Jane’s Addiction, Snoop Dog, Sting.    Il terzo fratello Copeland, Steward invece era il batterista dei Police e quindi proprio di Sting. Entrato di diritto nella Rock and Roll Hall of Fame come membro dei Police, venne aggiunto anche nella Modern Drummer Hall of Fame e nella Classic Drummer Hall of Fame. Ha avuto poi una carriera come compositore di colonne sonore per il cinema, musicando pellicole rimaste nella storia come il capolavoro di Francis Ford Coppola Rusty il selvaggio (1983), Wall Street (1987) e Talk Radio (1988) di Oliver Stone, Riff-Raff (1991) e Piovono pietre (1993) di Ken Loach e pure il videogioco Alone in the Dark.

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Se i tre fratelli denotano una esagerata presenza di talento scorrere nelle loro vene quello che sorprende ancora di più è la fonte da cui questi tre fenomeni derivano. Il loro padre, di nome Miles Copeland, fu uno dei fondatori della CIA nonché musicista e personaggio eccezionale nel panorama politico dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti.    Prima della guerra, ancora in Alabama provò a seguire le orme del padre iscrivendosi alla locale università con l’intenzione di diventare medico. Folgorato dal jazz, invece, comprò una tromba e si diede totalmente allo swing. Nel giro di poco si ritrovò a suonare e comporre con giganti come Glenn Miller, Benny Goodman, Buddy Rich, racconta lo storico John Simkin in un suo articolo.   Arrivò però Pearl Harbour e la direzione della sua vita cambiò completamente. Entrò a far parte dell’ufficio finanziario della guardia nazionale. Racconta proprio il sito della CIA che un giorno gli venne chiesto di ripetere un test d’intelligenza perché, dal risultato ottenuto, erano tutti convinti che avesse utilizzato un trucco. Una volta ripetuto guadagnò un risultato se possibile ancora maggiore.    L’esito del test attirò l’attenzione del generale William «Wild Bill» Donovan, direttore di una nuova agenzia chiamata Office of Strategic Service (OSS), la prima agenzia americana che fungeva da servizio segreto. Donovan, che stava formando la base della nuova agenzia, era sempre alla ricerca dei migliori prospetti e con le migliori connessioni. Miles aveva senza dubbio colpito il generale anche per quello che il figlio Stewart chiamava il gift of gab, il dono della chiacchiera. Era un abile oratore e una persona di grande spirito per cui creare empatia non era mai stato un problema.   Amava giocare, si considerava un giocatore, prendeva parte con entusiasmo alle simulazioni di guerra. Nel dopo guerra creò un gioco da tavola cult basato sul suo fondamentale libro, pieno di rivelazioni, Games of Nation, anche questo diventato introvabile oggetto di culto.   Mentre era Londra Copeland divenne amico di Boris Pash, capo della sicurezza del Manhattan Project e anche di Ernest Hemingway. Venne assegnato a dirigere la scuola di controspionaggio, la Corps of Intelligence Police, che divenne nel 1942 la Counterintelligence Corps, CIC, partecipazione che gli valse la Legione di Merito. Copeland partecipò attraverso la CIC all’operazione Overlord, lo sbarco in Normandia ed era parte della BIGOT list, acronimo per British Invasion of German Occupied Territory, un ristrettissimo gruppo di persone con un passato inattaccabile e degne di ottenere i documenti più protetti e riservati.    La CIC, oltre ad impegnarsi nel più famoso Manhattan Project si occupò anche di altri progetti di spicco per l’epoca. Uno di questi, la missione ALSOS, diretta da Boris Pash, era il tentativo da parte degli alleati di raccogliere quante più informazioni possibili sugli sviluppi scientifici nazisti in ambito nucleare; quindi l’operazione Paperclip che cooptò oltre 1600 scienziati, ingegneri e tecnici vari dalla Germania nazista per reinserirli in ambito per lo più scientifico militare statunitense; l’operazione TICOM che aveva come scopo l’impadronirsi di risorse riguardanti la crittografia e le ultime vette della ricerca scientifica sulle telecomunicazioni, ambito in cui i tedeschi eccellevano. Alla fine della guerra Copeland venne anche incaricato di redigere la cronaca del controspionaggio del periodo appena trascorso, intervistando decine di spie e scienziati nazisti.    In seguito alla trasformazione dell’OSS in CIA, Copeland partecipò alla messa a punto del progetto fino alla sua realizzazione nel 1947, anno di nascita della più grande agenzia spionistica americana. Dopodiché ottenne la gestione dell’ufficio dell’agenzia a Damasco in Siria e divenne l’uomo in Medio Oriente per i servizi statunitensi. Nel marzo del 1949 supportò il colpo di stato in Siria in cui venne deposto il governo legalmente eletto in favore del potere militare. Nel 1953 prese parte all’operazione Ajax incaricata di destituire il primo ministro iraniano, Mohammed Mossadegh, reintegrando Reza Pahlavi, assicurando così l’accesso statunitense al petrolio iraniano e contemporaneamente istituendo un avamposto del primo mondo contro i sovietici.    Fluente in almeno dieci lingue, divenne amico personale del presidente egiziano Nasser. Nonostante il cammino tra USA e Egitto avesse preso due strade differenti e i servizi americani avessero preso in considerazione operazioni estreme verso il presidente africano Copeland rimase genuinamente al suo fianco e un ammiratore dell’opera politica di Nasser.    Mantenne ufficialmente questo ruolo per dieci anni costruendo la posizione dell’Intelligence americana nel territorio attraverso il reclutamento di agenti in loco e la costruzione delle reti informative necessarie.

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In seguito, dopo aver rassegnato le dimissioni perché in totale disaccordo con le politiche di Eisenhower, continuò a lavorare privatamente nel solco dell’Intelligence a stelle e strisce fino agli anni Settanta quando si distaccò completamente dando vita a una nuova carriera di autore. I vari articoli e libri che scrisse ottennero un notevole successo ma ebbero anche la conseguenza di esacerbare definitivamente i rapporti con l’agenzia governativa. Nel 1988, scrisse un articolo «Spooks for Bush» in cui dichiarò il totale supporto del mondo dell’Intelligence verso la candidatura di G. W. Bush all’elezione come presidente del 1994.   E. Micheal Burke, ex ufficiale OSS, CIA, e in seguito con una importante carriera nel mondo dello spettacolo, scrisse nell’agosto 1974 una recensione su uno dei suoi testi più famosi Without cloak or dagger (1974). Copeland nel suo libro descriveva la CIA come il demonio di cui ignoriamo l’esistenza, gestita da una cricca di vecchi commilitoni abbastanza potenti da buttare giù un direttore non particolarmente apprezzato come James Schlesinger.   La CIA è un organo interno più potente dei vari governi succedutosi sullo sfondo che ha come grande dilemma trovare il modo per restare potenti, anonimi, silenziosi ma allo stesso vincere la confidenza del pubblico. Come scrive Copeland nel libro: «conosciamo il nemico, sappiamo come gestirlo, siamo incorruttibili. Anche se non ci conoscete, potete implicitamente fidarvi di noi».   Marco Dolcetta Capuzzo  

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Spirito

Mons. Viganò: «non c’è paradiso per i codardi!»

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Renovatio 21 pubblica questo intervento di monsignor Carlo Maria Viganò.

 

 

Non c’è paradiso per i codardi!

La Vittoria della Lega Santa a Lepanto
Intervento al Convegno dell’Associazione culturale «Veneto Russia» Settimo di Pescantina (VR), 11 Ottobre 2025

 

 

 

Salve, Regina, rosa de spina,
rosa d’amor, Madre del Signor.
Fa’ che mi no mora e che no mora pecador,
che no peca mortalmente e che no mora malamente.

Preghiera del marinaio, recitata da tutta la flotta veneziana
prima di muovere battaglia nelle acque di Patrasso.

 

Cari Amici,

 

consentitemi di ringraziare gli organizzatori di questo evento e di porgere il mio saluto a tutti i partecipanti. È per me un piacere potermi unire a voi nel celebrare l’anniversario della Vittoria di Lepanto, prendendo parte alla nona edizione del Convegno che quest’anno ha come tema il paradosso di un’Europa laicista, liberale e massonica che muove guerra alla Russia cristiana e antiglobalista.

 

Viviamo ormai negli ultimi tempi, in cui lo scontro tra Cristo e Anticristo impone a tutti noi di schierarci sotto le insegne del nostro Re divino e della Sua augustissima Madre, nostra Regina, memori delle parole del Signore: Chi non è con Me, è contro di Me (Mt 12, 30).

 

Il 7 Ottobre 1571, nel Golfo di Patrasso, la flotta della Lega Santa schiacciava vittoriosa l’orgoglio ottomano, rallentando l’espansione islamica nel Mediterraneo occidentale. Un’espansione che non si è mai fermata con il «dialogo» tra Croce e Mezzaluna, ma con l’uso della forza militare, il sacrificio di tante vite umane e la protezione soprannaturale che la Regina delle Vittorie e Mediatrice di tutte le Grazie ha spiegato come un manto sulla Cristianità minacciata dall’Islam.

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Anche alle porte di Vienna, il 12 Settembre 1683 – ossia solo 112 anni dopo Lepanto – il Turco venne sconfitto dalle armate cattoliche, sotto il patrocinio del Santo Nome di Maria. Temibile e terribile come un esercito schierato in ordine di battaglia: solo al pronunciare queste parole, sentiamo un nodo alla gola, nella commozione di contemplare la nostra Augusta Regina a capo delle schiere angeliche e terrene.

 

Ella era apparsa in simili sembianze anche il 7 Agosto 626, quando Costantinopoli era assediata dagli Avari, dagli Slavi e dai Persiani Sassanidi e il popolo cristiano riunito nella chiesa delle Blacherne invocava il Suo intervento. Sfolgorante di luce e con Gesù Bambino tra le braccia, la Vittoriosa Condottiera – come è chiamata nell’Inno Akatisto – aveva sbaragliato i nemici, meritando alla Capitale dell’Impero il titolo di «città di Maria».

 

Ma se l’aiuto divino e l’intercessione potentissima della Semprevergine Madre di Dio hanno portato a compimento in modo miracoloso e certamente soprannaturale vittorie umanamente difficili se non impossibili, non possiamo non ricordare che questi prodigiosi e provvidenziali interventi, queste irruzioni della potenza del Deus Sabaoth nelle umane contingenze, si rendono possibili solo dove questo tutto inarrivabile e divino è preceduto dal nulla della nostra cooperazione all’opera della Redenzione.

 

In virtù dell’Incarnazione della Seconda Persona della Santissima Trinità, infatti, l’Uomo-Dio prende possesso dell’umanità di cui per divinità, per stirpe e per diritto di conquista Egli è costituito Signore e Re. Ma questo consorzio della natura divina del Figlio di Dio con la natura umana di Gesù Cristo, attuato dall’Unione ipostatica, fa sì che anche ogni membro del Corpo Mistico possa unirsi alla Passione di Cristo Capo, completando nella propria carne quello che manca ai patimenti di Cristo, per il bene del Suo corpo che è la Chiesa (Col 1, 24). E nell’economia della salvezza, ogni uomo è chiamato a contribuire all’opera della Redenzione attivamente, senza cercare in un fatalismo ben poco cattolico un alibi alla propria ignavia.

 

Ma nel rievocare Lepanto, non possiamo non ricordare anche la figura eroica di Marcantonio Bragadin, nobile veneziano e governatore di Famagosta, a Cipro, durante l’assedio ottomano del 1570-1571. La città cadde nell’agosto 1571, e Bragadin negoziò una capitolazione onorevole con il comandante ottomano Lala Mustafa Pascià, che promise salva la vita ai difensori. I Turchi però, venendo meno alla parola data, violarono l’accordo: Bragadin fu torturato e sottoposto a una morte brutale; venne scorticato vivo e la sua pelle fu riempita di paglia e inviata come trofeo al sultano Selim II.

 

Questo orribile crimine suscitò sdegno nei membri della Lega Santa e la vittoria di Lepanto fu vista anche come una vendetta per l’assedio di Cipro, le atrocità subite da Bragadin (1) e come una punizione per la slealtà dei Turchi, inconcepibile per un cavaliere Cristiano.

 

L’eroismo di Bragadin trovò emuli anche nel golfo di Patrasso: don Giovanni d’Austria, Comandante supremo della Lega Santa a soli ventiquattr’anni e grande stratega, fu uomo di fede. Durante la battaglia incoraggiava i rematori e i soldati al grido: Non c’è paradiso per i codardi!

 

Sebastiano Venier, Capitano generale veneziano e veterano di settantacinque anni, si distinse per coraggio e ardore, incitando i suoi compagni: Chi non combatte non è Veneziano. Il suo eroismo gli meritò l’elezione a Doge nel 1577.

 

Il comandante veneziano Agostino Barbarigo morì in battaglia dopo essere stato colpito da una freccia a un occhio ed aver continuato a comandare l’ala sinistra della flotta, contribuendo così alla vittoria finale. Marcantonio Colonna, Ammiraglio pontificio, si distinse per il suo impegno nel soccorrere i feriti e nel garantire che i prigionieri ottomani fossero trattati con umanità, coerentemente con i valori cristiani che la Lega Santa professava.

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Fu il loro coraggio, la loro abnegazione, ma soprattutto la loro fede sincera e virile a costituire quel nulla che il Signore attende da noi prima di scendere in campo al nostro fianco e darci una vittoria altrimenti impensabile. Il Suo tutto, il nostro nulla. Il nulla di chi, sulle facciate dei palazzi, non si vergognava di incidere Non nobis Domine non nobis, sed nomini tuo da gloriam. Di chi, costituito in autorità e membro del Serenissimo Senato, non esitò ad attribuire la Vittoria della flotta cristiana non alla potenza navale, né alla forza delle armi, ma all’intercessione della Beata Vergine del Rosario, che San Pio V – il Papa di Lepanto – aveva ordinato di invocare recitando la santa Corona.

 

Perché vi fu un’epoca in cui gli uomini erano uomini, e uomini di valore, uomini di parola, uomini di guerra, uomini di fede. Peccatori certamente, ma coraggiosi, disposti a morire per difendere la Santa Chiesa e ricacciare gli idolatri invasori nelle loro plaghe remote. Ut Turcarum et hæreticorum conatus ad nihilum perducere digneris: Te rogamus, audi nos! Così pregarono a Costantinopoli, così pregavano a Lepanto, così hanno pregato a Vienna: sempre fiduciosi che l’aiuto di Dio sarebbe giunto nel momento in cui esso si mostrava inequivocabilmente divino e soprannaturale, e sempre con la mediazione della Madre di Dio, l’onnipotente per Grazia.

 

Il nostro Dio è un Dio geloso: geloso del Suo popolo e geloso della propria Signoria su di noi, che non permette sia usurpata da alcuno e che vuole condividere con la propria Santissima Madre, nostra Signora e Regina. Egli è Re e come Re vuole regnare: oportet illum regnare, è necessario che Egli regni. E quando regna Cristo, si compie il voto del Salmista: Beatus populus, cujus Dominus Deus ejus (Ps 143, 15), beato il popolo del quale è Signore il suo Dio.

 

Quanto tempo è passato dalla Vittoria di Lepanto! Cinquecentocinquantaquattro anni: oltre mezzo millennio. Ed oggi, in un mondo che guarda con incomprensione e disprezzo all’eroismo dei caduti di Lepanto e alla loro Fede, considerandoli pericolosi fanatici, le orde islamiche non solo non sono respinte ai nostri confini, ma sono accolte e ospitate e nutrite e curate e lasciate libere di delinquere e di trasformare la nostra Patria in una nazione islamica.

 

Trecentonovantun anni dopo Lepanto, il primo «concilio» della «nuova chiesa» – il Vaticano II di cui ricorre oggi l’anniversario dell’apertura – teorizzò quell’ecumenismo sincretico condannato dai Romani Pontefici che nell’arco di pochi anni avrebbe condotto Paolo VI, il 19 gennaio 1967 (2), a restituire lo stendardo che Mehmet Alì Pascià aveva issato sulla sua ammiraglia, la Sultana. In quel gesto sconsiderato Paolo VI umiliava la Chiesa e il suo Predecessore San Pio V, al quale quel vessillo era stato donato da Sebastiano Venier che lo aveva conquistato eroicamente arrembando la Sultana.

 

A dispetto delle smanie ecumeniche dei papi conciliari e sinodali, noi conserviamo ancora il gonfalone che San Pio V benedisse e fece issare al pennone della Reál, l’ammiraglia delle ammiraglie della flotta cristiana: un drappo di seta porpora bordata d’oro, al cui centro campeggia l’immagine del Santissimo Redentore, affiancata dai Santi Apostoli Pietro e Paolo, e il motto In hoc signo vinces. Fu Marcantonio Colonna a riportarlo a Gaeta, come voto fatto a Sant’Erasmo, patrono dei marinai (3). In quell’immagine e in quel motto si riassume il senso della vita cristiana, valido ai tempi gloriosi di Lepanto come nei tempi presenti di apostasia.

 

In nome di un distorto concetto di accoglienza e di inclusività, milioni di islamici sono traghettati e accompagnati nelle nostre città e villaggi, dove le chiese ormai vuote diventano moschee. In molti luoghi il suono sacro e solenne delle campane tace, ma vi risuona la voce del muezzìn che chiama alla preghiera i seguaci di Maometto. Se questo è oggi non solo possibile, ma addirittura incoraggiato e celebrato come conquista di civiltà, lo dobbiamo alla Rivoluzione: alla rivoluzione francese, per l’attacco alla monarchia cattolica nella sfera civile; alla rivoluzione conciliare e sinodale, per l’attacco alla sacra monarchia del Papato nella sfera ecclesiastica. Democrazia e sinodalità sono due facce della stessa falsa moneta. Su un lato campeggia l’emblema del liberalismo massonico, sull’altro quello dell’ecumenismo sincretista irenista.

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L’Europa è tornata da decenni ad essere terra di conquista e sarà presto a maggioranza islamica, specialmente in nazioni ribelli come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania. Il loro tradimento di Nostro Signore Gesù Cristo e i loro crimini contro la Legge di Dio gridano vendetta al Cielo e non rimarranno impuniti. Ma anche l’Italia non è meno colpevole, dimentica dell’eredità gloriosa di cui è stata custode e che si fonda sulla Civiltà Cattolica, sulla Regalità di Cristo, su un ordine cosmico che pone al centro il Dio che si è fatto uomo, e non l’uomo che si fa dio. Come sempre è avvenuto nel corso della Storia, saranno i nemici di Dio a punire i Suoi figli ribelli.

 

Tornare a Lepanto? Ricostituire una Lega Santa contro i nemici della Cristianità?

 

La Provvidenza saprà indicarci la via al momento opportuno. Ma in qualsiasi frangente noi dovessimo trovarci, qualsiasi avversità, qualsiasi minaccia alla nostra Fede e alla nostra identità possa incombere su di noi, una sola cosa non dobbiamo dimenticare, delle ragioni della Vittoria: non sottrarci al nostro dovere di testimoniare la Fede che professiamo, il Battesimo nel quale siamo stati incorporati a Cristo, la Tradizione alla quale apparteniamo. Non trovare pretesti per rimanere inerti a guardare i nemici di Cristo mentre demoliscono la Santa Chiesa, soprattutto quando questi traditori sono ai vertici della Gerarchia. Non usare l’obbedienza come una coltre sotto cui nascondere l’ignavia e la mediocrità che la società contemporanea ci addita come modelli di tranquillizzante conformità al pensiero unico.

 

Facciamo la nostra parte, col coraggio e la fortezza dei soldati di Cristo: e Nostro Signore farà la Sua, con l’onnipotenza di Dio.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

7 Ottobre MMXXV
Maria Santissima Regina delle Vittorie,
Madonna delle Grazie

 

NOTE

1) La sua pelle fu successivamente recuperata dai Veneziani e portata a Venezia, dove è conservata nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo come reliquia. Bragadin divenne un simbolo del sacrificio veneziano contro l’espansione ottomana.

2) Paolo VI, Discorso al nuovo Ambasciatore di Turchia accreditato presso la Santa Sede, 19 Gennaio 1967. Cfr. https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/speeches/1967/january/documents/hf_p-vi_spe_19670119_ambasciatore-turchia.html: «Poiché Noi stessi desideravamo manifestare in qualche modo i Nostri sentimenti, con un gesto che potesse essere gradito alle Autorità della Turchia contemporanea, è stata per Noi una gioia restituire un antico stendardo, preso al tempo della battaglia di Lepanto, che, da allora, si conservava nelle collezioni del Vaticano».

3 ) Conservato dapprima in un bauletto, nel Settecento fu disteso e incorniciato, così da poter essere esposto al pubblico. Nel ’43 una bomba tedesca lo danneggiò, anche se non irreparabilmente. Restaurato nel dopoguerra, oggi lo Stendardo di Lepanto è conservato – e visibile al pubblico – nel Museo Diocesano della cittadina laziale.

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Immagine di Andrea Vicentino (1542–1618), Battaglia di Lepanto (tra il 1571 e 1600), Museo Correr, Venezia

Immagine di Didier Descouens via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

 

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Intelligence

Il traffico mondiale di droga: la mafia siciliana, la mafia corsa e la CIA

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Jonathan Marshall, nel suo testo Drug Wars descrive come i cartelli del narcotraffico odierno siano talmente grandi che sono arrivati addirittura a rivaleggiare con gli Stati più potenti al mondo.    Tuttavia la nascita di queste organizzazioni in seguito alla fine della Guerra Mondiale va fatta risalire al lavoro fatto dalla CIA per assicurarsi un maggiore sostegno possibile in giro per il mondo. Sempre secondo Marshall la CIA era presente all’origine della maggioranza delle organizzazioni atte a produrre e distribuire ma questo, sempre secondo l’autore, è semplicemente finito nel dimenticatoio.   Durante la Seconda Guerra Mondiale i servizi segreti americani, OSS (Office of Strategic Service), e i loro equivalenti in marina ONI (Office of Naval Intelligence), coltivarono stretti rapporti con i maggiori rappresentanti della mafia italiana, uno dei più importanti cartelli di narcotraffico di sempre. Earl Brennan, a capo dell’OSS sezione mediterranea, reclutò ampiamente dal sottobosco di New York e Chicago.

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Il rapporto tra i servizi segreti della marina statunitense con la mafia italiana fu ancora più inquietante. Intrecciando relazioni con i capomafia siciliani esiliati da Mussolini trovarono nella malavita un solido interlocutore per assicurare il controllo dell’isola durante lo sbarco della marina e soprattutto successivamente quando vollero cautelarsi contro la propagazione del comunismo nell’isola e nell’Italia intera. Il rapporto più stretto fu quello creato con il mobster più in vista dell’epoca, Lucky Luciano (1897-1962). Il mafioso, in quel momento in prigione, utilizzò il suo personale esercito per garantire la sicurezza dei porti siciliani in previsione dello sbarco degli alleati e inoltre fornì informazioni fondamentali per l’Intelligence a stelle e strisce.    All’apice di questa relazione si potevano contare 155 ruoli coperti dalla liason Stato-mafia e costanti connessioni con i più importanti boss dell’epoca come Luciano, Meyer Lansky (1902-1983), Joe Adonis (1902-1971) e Frank Costello (1891-1973). Questo rapporto diede il potere alle mafie italoamericane di sopprimere la capacità dei sindacati statunitensi, sostituendosi ad essi in cambio, secondo l’autore, di poche informazioni militari di valore rilevante. Le conseguenze furono fondamentali.    Luciano grazie ai cosiddetti meriti di guerra si guadagnò il perdono da parte del governatore di New York Thomas E. Dewey (1902-1971) e poté trasferirsi in Italia. Stabilitosi nel Bel Paese fu in grado di costruire un impero. Mise in piedi una logistica del trasporto dell’eroina che durò per oltre vent’anni. Inizialmente si concentrò nel distruggere il sistema esistente nel mercato, in seguito trovate le connessioni in Turchia e Libano, messi a punto i laboratori di trasformazione in Sicilia e a Marsiglia, organizzò la tratta degli stupefacenti attraverso canali latino americani.    In cambio di questo immenso narcodollarificio, un’enormità di capitali non tassati ma di cui erano pur consapevoli le alte sfere politiche dell’epoca, la mafia aiutò a mantenere sotto controllo la diffusione del comunismo in Italia. Molti furono i confronti di stampo mafioso con i rappresentanti comunisti, una su tutte la strage di Portella della Ginestra. Secondo l’agente della CIA Miles Copeland jr. (1916-1991) se non fosse stato per la mafia, l’Italia nel primo dopoguerra sarebbe stata assorbita in tempi brevissimi dal comunismo. 

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Lo stesso genere di operazioni vennero portate avanti dalla CIA anche in Francia nel dopo guerra dirottando fondi alla malavita corsa a Marsiglia in cambio di un aiuto con il propagarsi del comunismo nei porti. L’agente corso della CIA implicato in quel momento divenne famoso negli anni Sessanta per essere la congiunzione con quello che divenne in seguito conosciuto come il triangolo d’oro tra Laos e Vietnam. Già nel 1951 Luciano e i corsi si unirono in un cartello che dominò il mercato dell’eroina per i decenni a venire.    La fine di questo schema, che passò alla storia come french connection, arrivò con l’operazione messa in campo dal governo Nixon nel giugno 1971 chiamata cinematograficamente war on drugs, la «guerra alle droghe». Nel giro di un anno vennero arrestati sia Auguste Ricord (1911-1985) che Lucien Sarti (1937-1972), le due figure principali dei cosiddetti marsigliesi andando a chiudere un capitolo ventennale.   Nel giro di qualche tempo la logistica seppe però riorganizzarsi «benedicendo» l’arrivo degli anni Ottanta e la cocaina come suo minimo comune denominatore.   Marco Dolcetta Capuzzo

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Immagine: mugshot del 1936 di Lucky Luciano, dipartimento di Polizia di Nuova York Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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