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Così Washington e Ankara hanno cambiato il regime di Damasco

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Con sorprendente sfacciataggine la stampa internazionale ci assicura che in Siria è in corso non già un cambiamento militare di regime, bensì una rivoluzione per rovesciare la Repubblica Araba siriana. Ci nascondono la presenza dell’esercito turco e delle forze speciali statunitensi. Ci inondano con una propaganda, peraltro più volte smentita, sui crimini di «Bashar». Trasformano sgozzatori feroci in rispettabili rivoluzionari. Per l’ennesima volta la stampa internazionale ci mente intenzionalmente.

 

In 11 giorni la Repubblica araba siriana, che dal 2011 ha resistito valorosamente agli attacchi degli jihadisti sostenuti dalla più grande coalizione della storia, è stata rovesciata. Cos’è successo?

 

La prima fase dell’operazione risale al 15 ottobre 2017, quando gli Stati Uniti organizzarono un assedio della Siria vietando ogni scambio commerciale con Damasco e impedendo alle Nazioni Unite di partecipare alla ricostruzione del Paese (1). Nel 2020 questa strategia fu estesa al Libano, con il Caesar Act (2).

 

Noi, Paesi membri dell’Unione europea, abbiamo partecipato tutti a questo crimine. La maggior parte dei siriani ora soffre di malnutrizione. La lira siriana è crollata: ciò che prima della guerra, nel 2011, valeva una lira, alla caduta di Damasco ne vale 50.000 (la lira è stata rivalutata tre giorni dopo, grazie a un’iniezione di denaro del Qatar). Stesse cause, medesime conseguenze: la Siria è stata sconfitta come lo fu a suo tempo l’Iraq, quando il segretario di Stato Madeleine Albright si rallegrò per aver causato la morte per malattia e malnutrizione di mezzo milione di bambini iracheni.

 

Del resto, sebbene siano stati formalmente gli jihadisti di Hayat Tahrir al-Cham (HTC) a conquistare Damasco, sul piano militare i vincitori non sono loro. Il 27 novembre l’HTC, armato dal Qatar e organizzato dall’esercito turco camuffato da Esercito Nazionale Siriano (Syrian National Army, SNA), ha preso il controllo dell’autostrada M4 che fungeva da linea di cessate-il-fuoco.

 

Inoltre l’HTC e la Turchia disponevano di droni ad alte prestazioni, manovrati da consulenti ucraini. Infine l’HTC ha portato con sé la colonia uigura del Partito Islamico del Turkestan (TIP), trincerata da otto anni ad al-Zanbaki (3). I teatri operativi israeliano, russo e cinese ora si sono fusi in un unico scenario.

 

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Poi l’insieme di queste forze ha attaccato Aleppo, fino ad allora difesa dai Guardiani della Rivoluzione iraniani. Costoro si sono ritirati senza reagire, lasciando a difesa della città solo la piccola guarnigione dell’Esercito Arabo Siriano. Di fronte a una forza così sproporzionata, il governo siriano ha ordinato alle proprie truppe di ripiegare su Hamah. Così è avvenuto il 29 novembre, dopo una breve battaglia.

 

Il 30 novembre il presidente siriano Bashar al-Assad si è recato in Russia, non per assistere all’esame del figlio Hafez all’università di Mosca, bensì per chiedere aiuto. Ma le forze russe presenti in Siria, esclusivamente aeree, potevano solo bombardare i convogli degli jihadisti. Infatti hanno cercato di sbarrare la strada all’HTC e alle forze sostenute dalla Turchia, non potendo contrastarle sul terreno. Aleppo era irrimediabilmente persa. Del resto, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in linea con la tradizione del proprio Paese (4), non ha mai riconosciuto la perdita dei territori ottomani in Grecia (Salonicco), nell’isola di Cipro, in Siria (Aleppo) e in Iraq (Mosul).

 

Con le cellule jihadiste dormienti riattivate dalla Turchia, l’Esercito Arabo Siriano, già esausto, doveva combattere su più i fronti contemporaneamente. È quanto ha cercato invano di fare il generale Maher al-Assad, fratello del presidente.

 

L’inviato speciale dell’ayatollah Ali Khamenei, Ali Larijani, si è recato a Damasco per dare spiegazioni del ritiro da Aleppo dei Guardiani della Rivoluzione e per porre le condizioni di un aiuto militare della Repubblica Islamica d’Iran: condizioni culturali inaccettabili per uno Stato laico.

 

In una conversazione telefonica con l’omologo iraniano Massoud Pezeshkian, il presidente al-Assad ha dichiarato che «l’intensificazione dell’azione dei terroristi» è un tentativo di «disgregare la regione, sbriciolarne gli Stati e ridisegnarne la mappa per adattarla agli interessi e agli obiettivi dell’America e dell’Occidente». Tuttavia il comunicato ufficiale non dà conto del tono della conversazione. Il presidente siriano voleva sapere chi aveva ordinato ai Guardiani della rivoluzione di abbandonare Aleppo. Non avendo ottenuto risposta, ha avvertito il presidente Pezeshkian delle conseguenze sull’Iran di un’eventuale caduta della Siria. Ancora nessuna reazione: Teheran ha continuato a pretendere le chiavi della Siria in cambio della sua difesa.

 

Il 2 dicembre il generale Jasper Jeffers III, comandante in capo delle Forze speciali degli Stati Uniti (UsCoCom), arriva a Beirut. La ragione ufficiale è controllare l’applicazione del cessate-il-fuoco verbale tra Israele e Libano. Tenuto conto del suo ruolo, è evidente che questa è solo una parte della sua missione: sovrintenderà infatti alla conquista di Damasco da parte della Turchia, nascosta alle spalle dell’HTC.

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Il 5 dicembre, al Consiglio di sicurezza, gli Stati Uniti rilanciano le accuse al presidente al-Assad di usare armi chimiche per reprimere il suo stesso popolo; accuse che ignorano completamente le numerosissime contestazioni, testimonianze e indagini che hanno dimostrato come si tratti solo di propaganda di guerra. Le armi chimiche sono il principale argomento della gigantesca macchina di fango anglosassone.

 

Sono queste false accuse che il numero due delle Nazioni Unite, Jeffrey Feltman, ha preso a pretesto per impedire la ricostruzione della Siria. Accuse reiterate sino a convincere l’opinione pubblica occidentale che «Bashar è il boia di Damasco» e a incolparlo di tutti i morti causati dalla guerra scatenata contro di lui e il suo Paese.

 

Contemporaneamente, il Pentagono fa sapere all’HTC e all’esercito turco che possono continuare ad avanzare, prendere Damasco e rovesciare la Repubblica Araba Siriana.

 

Il 6 e 7 dicembre in Qatar si svolge il Forum di Doha. Vi partecipano molte figure di spicco del Medio Oriente, nonché il ministro russo degli Esteri, Sergej Lavrov. A margine del Forum viene data garanzia alla Russia, che rappresenta il presidente al-Assad, che i soldati dell’Esercito Arabo siriano non saranno perseguiti e che le basi militari della Federazione di Russia non saranno attaccate. All’Iran viene invece garantito che i santuari sciiti non saranno distrutti, ma pare che Teheran lo sapesse già.

 

Secondo il ministro turco degli Esteri, Hakan Fidan, Benjamin Netanyahu e Joe Biden ritenevano che l’operazione dovesse finire lì. È stato il Pentagono che, di concerto con il Regno Unito, ne ha deciso la prosecuzione fino al rovesciamento della Repubblica Araba Siriana (5).

 

A New York il Consiglio di sicurezza adotta all’unanimità la risoluzione 2761 (6). Essa autorizza a non tener conto delle sanzioni contro gli jihadisti durante «operazioni umanitarie».

 

Le Nazioni Unite, che non hanno mai autorizzato il soccorso alle popolazioni schiacciate sotto il giogo di Daesh, improvvisamente autorizzano gli scambi commerciali con l’HTC.

 

Questo rovesciamento della posizione del Consiglio di sicurezza risponde alle istruzioni del consigliere delle Nazioni Unite, Noah Bonsey, che le aveva già enunciate a febbraio 2021, quando lavorava per George Soros (7).

 

Abu Mohammad al-Jolani, leader dell’HTC, rilascia un’intervista a Jomana Karadsheh per la CNN. La giornalista fa notare che il sito Rewards for Justice del Dipartimento di Stato offre ancora dieci milioni di dollari di ricompensa in cambio di qualsiasi informazione che permetta di arrestare il capo jihadista (8).

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Il 7 dicembre l’HTC e la Turchia prendono il controllo della prigione siriana di Saïdnaya. Un obiettivo strategico per alimentare la propaganda di guerra, che l’ha soprannominata «mattatoio umano». La campagna mediatica sostiene che vi sono state torturate e giustiziate migliaia di persone, i cui cadaveri sono stati bruciati in un forno crematorio.

 

Per tre giorni i Caschi Bianchi, ONG che ha al tempo stesso salvato vite e partecipato ai massacri, perlustrano la prigione e i suoi dintorni alla ricerca di passaggi segreti sotterranei, di camere di tortura e del forno crematorio. Purtroppo non trovano prove. Alla fine la giornalista Clarissa Ward mette in scena per CNN la liberazione di un prigioniero che per tre mesi non ha visto la luce del giorno, ma è pulito, ben vestito e con le unghie curate (9).

 

È tanto più arduo sostenere le accuse ad al-Assad di torture e di esecuzioni sommarie se si considera che il presidente siriano già nel 2011 emanò norme per vietare ogni forma di tortura, ha istituito il ministero per la Riconciliazione nazionale, per il reinserimento dei siriani che si erano uniti agli jihadisti, e infine che ha attuato amnistie generali in circa quaranta occasioni.

 

L’8 dicembre il presidente al-Assad ordina ai propri uomini di deporre le armi. Damasco cade senza colpo ferire. Gli jihadisti srotolano immediatamente striscioni – stampati con largo anticipo – e appuntano il simbolo del nuovo regime sulle loro uniformi. L’ex combattente di Al Qaeda, poi numero due di Daesh, Abu Mohammad al-Jolani, il cui vero nome è Ahmad al-Sharaa, prende il potere. Consigliato da britannici esperti in comunicazione, tiene un discorso nella Grande Moschea degli Omayyadi, sul modello di quello pronunciato dal califfo di Daesh, Abu Bakr al-Baghdadi, nella Grande Moschea di Al-Nuri di Mosul, nel 2019.

 

L’HTC ora considera i cristiani mustamin (così gli islamici chiamano gli stranieri non mussulmani che risiedono in modo limitato in territorio mussulmano), esentandoli dal patto del dhimmi (serie di diritti e oneri riservati ai non-mussulmani) e dal pagamento della tassa della jizya. A settembre 2022, per la prima volta in un decennio, nella chiesa armena di al-Yacoubiyah, nella campagna di Jisr al-Shugur, a ovest di Idlib, si è tenuta una cerimonia in onore di Sant’Anna.

 

Tremila soldati dell’Esercito Arabo Siriano si esiliano in Iraq. Vengono disarmati e alloggiati in tende al valico di frontiera di Al-Qaim, poi trasferiti in una base militare a Rutba. Bagdad annuncia che sta cercando di ottenere garanzie per il loro rientro in patria. (10)

 

Le Forze di Difesa Israeliane (FDI) lanciano un’operazione per distruggere l’equipaggiamento e le fortificazioni dell’Esercito Arabo Siriano. In quattro giorni 480 bombardamenti affondano la flotta e incendiano armerie e magazzini. Contemporaneamente squadre di terra uccidono gli scienziati più importanti del Paese.

 

Dopo aver fatto visitare ai giornalisti le fortificazioni siriane lungo la costa, ormai vuote, Benny Kata, un comandante militare israeliano, dice ai suoi ospiti: «È chiaro che resteremo qui per un certo tempo. Siamo preparati».

 

Le FDI già cominciano a rosicchiare sempre più il territorio siriano, oltre la linea di cessate-il-fuoco del Golan, che già occupano. Annunciano di voler creare in territorio siriano una seconda zona-cuscinetto per proteggere quella attuale, che è un modo per annettersi crescenti porzioni di Siria. Annettono anche il monte Hermon, così da poter sorvegliare l’intera regione.

 

Il 9 dicembre il generale Michael Kurilla, comandante in capo delle forze statunitensi nel Medio Oriente Allargato (CentCom), si reca ad Amman per incontrare il generale Yousef Al-H’naity, presidente dello Stato-Maggiore di Giordania. Gli ribadisce l’impegno degli Stati Uniti a sostenere la Giordania in caso di minacce provenienti dalla Siria durante il periodo di transizione.

 

Il 10 dicembre il generale Kurilla visita le truppe statunitensi e quelle delle Forze Democratiche Siriane (mercenari kurdi) in diverse basi della Siria. Predispone un piano affinché Daesh non esca dalla zona assegnatagli dal Pentagono e non interferisca nel cambiamento di regime a Damasco. Immediatamente intensi bombardamenti impediscono a Daesh di muoversi.

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L’HTC nomina Mohammed al-Bashir, ex «governatore» jihadista di Idlib, primo ministro del nuovo regime. È un membro dei Fratelli Mussulmani, sponsorizzato dall’MI6 britannico. La Francia, che con il suo inviato speciale Jean-Yves Le Drian aveva negoziato la nomina di Riad Hijab (ex segretario del consiglio dei ministri nel 2012), si rende conto di essere stata bidonata.

 

La sera stessa viene scartata la possibile nomina di Le Drian a primo ministro francese. L’Eliseo fa invece invitare al telegiornale di France2 il procuratore per l’antiterrorismo di Parigi, che mette fine alle acclamazioni del nuovo potere a Damasco deplorando che l’HTC sia implicato nell’assassinio nel 2020 del professore francese Samuel Paty e nel massacro di Nizza del 2016, in cui morirono 86 persone. La stampa francese cambia di spalla al fucile e inizia a mettere in discussione il nuovo governo di Damasco, che la stampa internazionale continua a dipingere come rispettabile.

 

L’11 dicembre le principali fazioni palestinesi presenti in Siria (Fronte per la liberazione della Palestina, Fronte democratico per la liberazione della Palestina, Movimento della Jihad islamica, Fronte palestinese di lotta popolare, Comando generale) si riuniscono a Yarmuk (Damasco) alla presenza di delegati dell’HTC (Dipartimento delle Operazioni militari). Fatah e Hamas non vi partecipano. Si chiede loro di rappacificarsi con l’alleato israeliano. Si decide anche che nessuna fazione godrà di uno statuto privilegiato e che tutte saranno trattate allo stesso modo. Tutti i gruppi s’impegnano a deporre le armi.

 

Il generale Kurilla visita in tre giorni prima il Libano poi Israele. A Beirut incontra il generale Joseph Aoun, comandante delle forze armate libanesi, ma soprattutto il proprio collega, il generale statunitense Jasper Jeffer III. A Tel Aviv incontra i capi di stato-maggiore israeliani e il ministro della Difesa, Israel Katz. In questa occasione dichiara: «Le mie visite in Israele, Giordania, Siria, Iraq e Libano degli ultimi sei giorni hanno voluto sottolineare l’importanza di guardare le sfide e le opportunità attuali attraverso gli occhi dei nostri partner, dei nostri comandanti sul campo e dei membri di servizio. Dobbiamo fare in modo che i partenariati continuino a essere solidi per affrontare le minacce attuali e future che pesano sulla regione».

 

Il 12 dicembre Ibrahim Kalin, direttore dell’Organizzazione nazionale dell’Intelligence turca (Millî İstihbarat Teşkilatı, MIT) è il primo alto funzionario straniero a rendere visita al nuovo potere di Damasco. Lo stesso giorno i mercenari kurdi, che amministrano il nordest della Siria per conto dell’esercito di occupazione statunitense, issano la nuova bandiera verde, bianca e nera con tre stelle, la stessa del mandato francese sulla Siria. Il 15 dicembre una delegazione del Qatar segue l’esempio di Kalin.

 

Per convalidare le accuse di torture rivolte al regime spodestato, Clarissa Ward, decisamente in forma, mette in scena per CNN i cadaveri rinvenuti nell’obitorio di un ospedale di Damasco, così come la stessa CNN mandò in scena i cadaveri di un obitorio di Timisoara, durante il rovesciamento di Ceausescu, nel 1989 (11).

 

Nel frattempo, secondo le Nazioni Unite, oltre un milione di siriani sta cercando di fuggire dal proprio Paese. Non credono che gli jihadisti dell’HTC si siano improvvisamente civilizzati.

 

Thierry Meyssan

NOTE

1) « Paramètres et principes de l’assistance des Nations Unies en Syrie », di Jeffrey D. Feltman, Réseau Voltaire, 15 ottobre 2017.

2) «Secondo Hassan Nasrallah gli Stati Uniti vogliono provocare la fame in Libano», Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 17 giugno 2020.

3) «I 18.000 uiguri di Al Qaeda in Siria», Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 20 agosto 2018. «Uyghur fighters in Syria vow to come for China next», Sophia Yan, The Telegraph, 13 dicembre 2024.

4) «Serment national turc», Réseau Voltaire, 28 gennaio 1920.

6) «Résolution portant exemption des sanctions contre les jihadistes», Réseau Voltaire, 6 dicembre 2024.

7) «In Syria’s Idlib, Washington’s Chance to Reimagine Counter-terrorism», New Crisis Group, Noah Bonsey & Dareen Khalifa, febbraio 2021.

8) «Muhammad al-Jawlani», Rewards for Justice, sito consultato il 14 dicembre 2024.

9) «Muhammad al-Jawlani», Rewards for Justice, sito consultato il 14 dicembre 2024.

10) «خاص»
محمد عماد, 11 ديسمبر

11) «Battered corpses show the horrors of life and death under Syria’s Assad», CNN, 12 dicembre 2024.

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

Fonte: «Così Washington e Ankara hanno cambiato il regime di Damasco», Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 17 dicembre 2023.

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Geopolitica

La Colombia accusa gli Stati Uniti di aver iniziato una «guerra»

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Il presidente colombiano Gustavo Petro ha accusato gli Stati Uniti di cercare di provocare una guerra nei Caraibi usando come pretesto una campagna antidroga, sottolineando che cittadini colombiani sono stati uccisi nei recenti attacchi al largo delle coste del Venezuela.   In un post sui social media di mercoledì, Petro ha sostenuto che la campagna non ha come obiettivo il narcotraffico, ma piuttosto il controllo delle risorse della regione. La Casa Bianca ha definito l’accusa «infondata», secondo Reuters.   Gli Stati Uniti hanno effettuato attacchi aerei contro presunte imbarcazioni coinvolte nel traffico di droga vicino al Venezuela, descrivendoli come un tentativo di contrastare il traffico di stupefacenti nei Caraibi. Washington accusa da tempo il presidente venezuelano Nicolas Maduro di legami con i cartelli della droga. Maduro ha smentito le accuse, sostenendo che gli attacchi siano parte di un piano per destituirlo.   Nelle ultime settimane, gli Stati Uniti hanno distrutto almeno quattro imbarcazioni che, a loro dire, trasportavano stupefacenti al largo delle coste del Venezuela, causando la morte di oltre 20 persone. Come riportato da Renovatio 21, Trump ha definito gli attacchi alle barche della droga come un «atto di gentilezza».

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«Le prove dimostrano che l’ultima imbarcazione bombardata era colombiana, con cittadini colombiani a bordo», ha scritto Petro.   Il presidente colombiano ha ribadito che la campagna statunitense non riguarda la lotta alla droga, ma il controllo delle risorse naturali. «Non c’è una guerra contro il contrabbando; c’è una guerra per il petrolio», ha dichiarato, definendo gli attacchi «un’aggressione contro tutta l’America Latina e i Caraibi».   Per anni, la Colombia è stata considerata il principale alleato di Washington in Sud America. Attraverso il Plan Colombia, un’iniziativa di aiuti multimiliardaria avviata dagli Stati Uniti nel 2000, i governi colombiani successivi hanno concesso alle forze armate statunitensi l’accesso alle basi locali e hanno appoggiato gli sforzi guidati dagli Stati Uniti per isolare il Venezuela. Questa politica è cambiata con l’elezione di Petro nel 2022, che ha lavorato per ristabilire le relazioni diplomatiche con Caracas e ha promosso una politica estera più indipendente e una maggiore cooperazione regionale.   Come riportato da Renovatio 21, la scorsa estate il Petro aveva dichiarato che la Colombia deve interrompere i legami con la NATO perché i leader del blocco atlantico sostengono il genocidio dei palestinesi. Bogotà la settimana scorsa ha espulso tutti i diplomatici israeliani, dopo aver rotto i rapporti con lo Stato Ebraico un anno fa e chiesto alla Corte Penale Internazionale di emettere un mandato di arresto per Netanyahu.

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Geopolitica

Svelato il profilo dell’accordo tra Israele e Hamas

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Il piano di cessate il fuoco per Gaza proposto dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump prevede il ritiro delle forze israeliane da vaste aree dell’enclave palestinese e la liberazione degli ostaggi rimanenti da parte di Hamas entro pochi giorni. Lo riportano varie testate giornalistiche internazionali.

 

Una fonte egiziana coinvolta nei negoziati ha dichiarato a Sky News Arabia che i mediatori hanno raggiunto un accordo per un «cessate il fuoco completo» e un «ritiro graduale dell’esercito israeliano dal 70% di Gaza».

 

Nel frattempo, la testata israeliana Ynet ha riportato che le forze israeliane dovrebbero ritirarsi entro 24 ore lungo una linea prestabilita, lasciando a Israele il controllo di circa il 53% dell’enclave. Questo includerebbe il ritiro delle IDF da Gaza City e da diverse altre aree centrali, secondo l’articolo.

 

L’agenzia Reuters scrive che Hamas rilascerebbe tutti gli ostaggi vivi entro 72 ore dall’approvazione del governo israeliano. In cambio, Israele libererebbe 250 palestinesi condannati all’ergastolo e 1.700 abitanti di Gaza detenuti dal 2023, incluse tutte le donne e i minori. Hamas detiene ancora circa 48 ostaggi, di cui Israele ritiene che circa 20 siano ancora in vita.

 

Dopo aver annunciato un progresso significativo nei negoziati, Trump ha dichiarato a Fox News che gli ostaggi saranno probabilmente rilasciati lunedì, promettendo che Gaza «sarà ricostruita».

 

«Gaza… diventerà un posto molto più sicuro… altri Paesi della zona aiuteranno la ricostruzione perché hanno enormi quantità di ricchezza e vogliono che ciò accada», ha affermato Trump, senza specificare quali nazioni siano coinvolte.

 

Nonostante l’apparente passo avanti, rimangono diverse questioni irrisolte, come la governance di Gaza nel dopoguerra e il destino di Hamas, che Israele ha giurato di eliminare completamente. Il piano di pace originale di Trump prevedeva un ruolo amministrativo limitato per l’Autorità Nazionale Palestinese, che governa parti della Cisgiordania, ma solo dopo significative riforme.

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Il Cremlino: i colloqui Russia-USA sull’Ucraina sono in «seria pausa». Nessun incontro Trump-Putin in agenda

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Il dialogo tra Russia e Stati Uniti per risolvere il conflitto in Ucraina si trova in una «seria pausa», ha dichiarato ai giornalisti il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov.   Le sue parole seguono l’affermazione del viceministro degli Esteri Sergey Rjabkov, secondo cui lo slancio generato dal vertice in Alaska tra i presidenti Vladimir Putin e Donald Trump si è esaurito.   Giovedì Peskov ha ribadito la posizione di Rjabkov, sottolineando l’assenza di progressi verso una soluzione pacifica del conflitto con Kiev.   Le delegazioni russa e ucraina si sono incontrate più volte all’inizio dell’anno. Nell’ultimo incontro a Istanbul a luglio, le parti hanno deciso di creare tre gruppi di lavoro per sviluppare un piano di risoluzione che affronti questioni politiche, militari e umanitarie.

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Tuttavia, Peskov ha dichiarato che «non si sta muovendo nulla», suggerendo che Kiev non sia propensa a perseguire un processo di pace, aggrappandosi a false speranze di poter ribaltare la situazione sul campo di battaglia, una convinzione che ha definito irrealistica.   Peskov ha osservato che la posizione di Kiev è sostenuta dai suoi alleati europei. In precedenza, aveva notato che l’Occidente continua a spingere l’Ucraina a rifiutare il dialogo, alimentando una «isteria militarista» che ostacola gli sforzi di pace.   Rjabkov ha affermato all’inizio della settimana che i «sostenitori di una “guerra all’ultimo ucraino”, soprattutto tra gli europei», sono responsabili dell’esaurimento del «potente impulso» per trovare una soluzione al conflitto, generato durante il vertice di Anchorage ad agosto.   Poco dopo l’incontro tra Trump e Putin, diversi leader dell’UE hanno visitato Washington insieme al presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj, cercando di persuadere il presidente americano ad allinearsi alla posizione europea sul conflitto.   Mosca ha ribadito la sua disponibilità a un accordo di pace, sottolineando però che qualsiasi intesa dovrà rispettare gli interessi di sicurezza nazionale della Russia e le attuali realtà territoriali sul campo.   Attualmente non è previsto un ulteriore incontro tra Putin e Trump, ha dichiarato ai giornalisti Peskov.   I due leader si sono incontrati l’ultima volta a metà agosto in Alaska, dove le discussioni si sono concentrate sugli sforzi di Washington per mediare la fine del conflitto in Ucraina. Tuttavia, Peskov ha sottolineato che un nuovo vertice «semplicemente non è all’ordine del giorno in questo momento».   Il portavoce del Cremlino ha affermato che il processo diplomatico è in stallo, accusando Kiev di aver abbandonato gli sforzi di pace per perseguire obiettivi militari.

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«Credono che qualcosa potrebbe cambiare in prima linea e che la situazione potrebbe volgere a loro favore», ha dichiarato Peskov, citato dai media russi. «Ma la realtà indica il contrario».   Il blocco diplomatico segue un cambiamento nella retorica di Trump, che il mese scorso ha dichiarato che, con sufficienti finanziamenti europei, l’Ucraina potrebbe riconquistare tutti i territori rivendicati, una posizione che Mosca ha definito irrealistica.   Zelens’kyj ha rinnovato le richieste per i missili Tomahawk a lungo raggio di fabbricazione statunitense. Putin ha avvertito che la consegna di armi con capacità nucleare rappresenterebbe una «grave escalation».

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