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Alto-Karabakh: la vittoria di Londra e Ankara, la disfatta di Soros e degli armeni

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

 

 

Nella guerra dell’Alto-Karabakh gli alleati britannici hanno superato il Pentagono, il pianificatore del conflitto. Nessuna delle grandi potenze s’è preoccupata delle morti che ne sarebbero seguite. Alla fine, Londra e Ankara hanno riannodato la loro storica alleanza, Washington e Mosca non hanno ottenuto nulla, mentre Soros e gli armeni hanno perso molto.

 

 

Il piano iniziale degli Stati Uniti – formulato come ipotesi – prevedeva di spingere la Turchia all’errore e consentirle di massacrare parte della popolazione armena, poi d’intervenire, rovesciare il presidente Erdoğan e ristabilire la pace

Dopo 44 giorni di guerra, l’Armenia è stata costretta a firmare un cessate-il-fuoco con l’Azerbaigian, rinunciando a parte del proprio territorio. Ma il piano iniziale degli Stati Uniti – che Réseau Voltaire aveva formulato come ipotesi – prevedeva di spingere la Turchia all’errore e consentirle di massacrare parte della popolazione armena, poi d’intervenire, rovesciare il presidente Erdoğan e ristabilire la pace (1).

 

Il piano però non ha funzionato. Mascherava infatti uno stratagemma britannico: Londra, approfittando della confusione delle elezioni presidenziali USA, ha manovrato di nascosto, scavalcando Washington. Ha sfruttato la situazione per tentare di privare la Russia della carta dell’Alto-Karabakh e ricominciare il Grande Gioco del XIX secolo (2), quando il Regno Unito era alleato dell’impero ottomano contro l’impero zarista.

 

Mosca se n’è accorta e ha imposto un cessate-il-fuoco per fermare il gioco al massacro.

 

 

1 – Il Grande Gioco

Per tutto il XIX secolo l’impero britannico e quello russo si contesero accanitamente il controllo del Caucaso e di tutta l’Asia centrale. In Inghilterra questo periodo storico viene chiamato Grande Gioco, in Russia Torneo delle Ombre.

Il piano però non ha funzionato. Mascherava infatti uno stratagemma britannico: Londra, approfittando della confusione delle elezioni presidenziali USA, ha manovrato di nascosto, scavalcando Washington

 

La Russia iniziò a vincere la partita quando s’impadronì dell’Alto-Karabakh; con un effetto domino il suo imperio si estese poi al Caucaso.

 

Memore del precedente storico, Londra crede che il recupero dell’Alto-Karabakh le permetterebbe di scalzare l’influenza di Mosca prima nel Caucaso, poi in tutta l’Asia centrale.

 

L’attuale primo ministro britannico, Boris Johnson, si reputa prosecutore della politica imperiale di Winston Churchill, di cui è uno dei biografi. Ha recentemente reso pubblico un costoso piano di ammodernamento delle forze armate (3).

 

Ha sfruttato la situazione per tentare di privare la Russia della carta dell’Alto-Karabakh e ricominciare il Grande Gioco del XIX secolo, quando il Regno Unito era alleato dell’impero ottomano contro l’impero zarista

Per rilanciare il Grande Gioco, il 29 luglio scorso Johnson ha nominato direttore dell’MI6 (l’intelligence per l’estero) il direttore generale del Foreign Office, Richard Moore, già ambasciatore di Sua Maestà ad Ankara, che parla correntemente il turco ed è in amicizia con il presidente Recep Tayyip Erdoğan.

 

Moore è entrato in servizio all’MI6 solo il 1° ottobre, ossia quattro giorni dopo l’attacco azero nell’Alto-Karabakh.

 

 

2 – Il ruolo primario di Richard Moore

Richard Moore è amico personale del principe Carlo, a sua volta sponsor del Centro di Oxford di Studi Islamici (Oxford Centre for Islamic Studies), dove da 25 anni vengono formati gli intellettuali della Confraternita dei Fratelli Mussulmani. L’ex presidente turco, Abdullah Gül, è amministratore del Centro.

 

Il 29 luglio scorso Johnson ha nominato direttore dell’MI6  il direttore generale del Foreign Office, Richard Moore, già ambasciatore di Sua Maestà ad Ankara, che parla correntemente il turco ed è in amicizia con il presidente Recep Tayyip Erdoğan

Come ambasciatore ad Ankara (2014-17), Moore accompagnò Erdoğan nel percorso che lo portò a diventare il protettore della Confraternita.

 

Moore ebbe altresì un ruolo nel ritiro nel 2014 dei britannici dalla guerra contro la Siria. Londra non voleva continuare un conflitto in cui s’era impegnata per mire coloniali, ma che si stava trasformando in operazione imperiale USA (strategia Rumsfeld/Cebrowski).

 

Richard Moore ha da poco concluso una missione in Egitto e in Turchia. Il 9 novembre (giorno dell’imposizione russa del cessate-il-fuoco in Alto-Karabakh) si trovava al Cairo, dove ha incontrato il presidente al-Sissi.

 

L’11 novembre era ad Ankara, dove al Palazzo Bianco non avrebbe incontrato ufficialmente il suo vecchio amico, il presidente Erdoğan, bensì il portavoce.

 

 

Come ambasciatore ad Ankara (2014-17), Moore accompagnò Erdoğan nel percorso che lo portò a diventare il protettore della Confraternita.

3 – Di fronte agli Stati, Soros non conta

Nella guerra azero-turca dell’Alto-Karabakh, Washington pensava di poter usare come esca il presidente dell’Armenia, Armen Sarkissian, e il suo primo ministro, Nikol Pashinyan, uomo di George Soros (4).

 

Soros è uno speculatore statunitense che ha una propria agenda politica, ma lavora di concerto con la CIA (5).

 

Per sua sfortuna, Soros non è in rapporti altrettanto buoni con i britannici: deve infatti la sua fortuna alla vasta operazione speculativa contro la sterlina del 16 settembre 1992 – data ricordata come «mercoledì nero» – che gli è valsa l’appellativo di «uomo che ha gettato sul lastrico la Banca d’Inghilterra».

 

 

Soros è uno speculatore statunitense che ha una propria agenda politica, ma lavora di concerto con la CIA. Per sua sfortuna, Soros non è in rapporti altrettanto buoni con i britannici: deve infatti la sua fortuna alla vasta operazione speculativa contro la sterlina del 16 settembre 1992

4 – Il doppio gioco della Perfida Albione

All’inizio Londra lascia fare a Washington. Gli Stati Uniti perciò incoraggiano la «Nazione a due Stati» (Turchia e Azerbaijan) a mettere fine con la forza alla Repubblica d’Artsakh.

 

L’MI6 aiuta il partner turco a trasferire jihadisti in Azerbaijan (6), per uccidere non già gli armeni, ma i russi. In Karabakh i russi però ancora non ci sono.

 

Soros reagisce inviando mercenari kurdi a sostegno degli armeni (7).

 

Asserendo di assecondare il gioco USA, Londra sostiene Bakou e Ankara. Nei primi giorni di conflitto, le potenze del Gruppo di Minsk (che dalla caduta dell’URSS si occupano del conflitto nell’Alto-Karabakh) – ossia Stati Uniti, Francia e Russia – tentano di ottenere un cessate-il-fuoco e la ripresa dei negoziati (8).

Nei primi giorni gli armeni si difendono come possono. Tuttavia, il capo di Stato, Armen Sarkissian, modifica i piani dello stato-maggiore militare e manda al fronte volontari privi d’esperienza. Sarkissian ha doppia cittadinanza, armena e britannica. Sarà un’ecatombe per l’esercito armeno.

 

Dopo che ciascuna delle potenze ha toccato con mano la malafede azera, il Gruppo di Minsk presenta una proposta di risoluzione al Consiglio di Sicurezza. Si tratta per Washington di ottenere un rovesciamento collettivo di posizione: passare dalla neutralità alla condanna della «Nazione a due Stati».

 

Nei primi giorni gli armeni si difendono come possono. Tuttavia, il capo di Stato, Armen Sarkissian, modifica i piani dello stato-maggiore militare e manda al fronte volontari privi d’esperienza (9). Sarkissian ha doppia cittadinanza, armena e britannica. Sarà un’ecatombe per l’esercito armeno.

 

Il Regno Unito annuncia improvvisamente che opporrà il veto se il testo sarà messo in votazione al Consiglio di Sicurezza. Sconcertati, il 25 ottobre gli Stati Uniti accusano pubblicamente l’Azerbaigian di malafede.

 

Ci vorranno però altre due settimane perché la Russia capisca che Washington, ingolfata nella campagna elettorale per le presidenziali, non gestisce più la situazione.

 

 

5 – La Russia fischia la fine della partita prima che sia troppo tardi

Solo verso il 6 ottobre la Russia acquisisce la certezza che dietro la trappola statunitense si cela una trappola inglese. Mosca ne trae la conclusione che Londra vuole rilanciare il Grande Gioco per sottrarle l’influenza nell’Alto-Karabakh.

 

Ci vorranno però altre due settimane perché la Russia capisca che Washington, ingolfata nella campagna elettorale per le presidenziali, non gestisce più la situazione

Il 7 ottobre il presidente russo Vladimir Putin telefona all’omologo turco e negozia un cessate-il-fuoco molto sfavorevole agli armeni.

 

Erdoğan, che ha capito di non potercela fare di fronte a una stabilizzazione della situazione politica negli Stati Uniti, accetta di acquisire soltanto territori, rinunciando a rilanciare il genocidio armeno.

 

Putin convoca al Cremlino il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliev, e il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan. Salva il salvabile, costringendo il 10 ottobre gl’interlocutori a firmare un cessate-il-fuoco nei termini negoziati con Erdoğan (10). Putin prioritariamente vuole affermare la presenza militare russa in Alto-Karabakh attraverso una forza di pace, e far cessare il bagno di sangue. Il presidente si rivolge infine al popolo russo per annunciargli di aver salvato gli interessi del Paese salvando l’Armenia da una disfatta ancor più tremenda.

 

Gli armeni si rendono conto troppo tardi che, allontanandoli dalla Russia per avvicinarli agli USA, Nikol Pashinyan ha scommesso sul cavallo perdente. Con il senno di poi capiscono che, per quanto corrotti, i politici che prima dirigevano l’Armenia erano patrioti, mentre gli uomini di Soros sono contrari al concetto stesso di nazione, dunque all’indipendenza del Paese.

Gli armeni si rendono conto troppo tardi che, allontanandoli dalla Russia per avvicinarli agli USA, Nikol Pashinyan ha scommesso sul cavallo perdente.

 

Con il senno di poi capiscono che, per quanto corrotti, i politici che prima dirigevano l’Armenia erano patrioti, mentre gli uomini di Soros sono contrari al concetto stesso di nazione, dunque all’indipendenza del Paese.

 

Manifestazioni e dimissioni si succedono. Si dimettono il capo di stato-maggiore, il ministro degli Esteri, il ministro della Difesa, non però il primo ministro.

 

Il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, invece esulta. Si fa beffe del Consiglio d’Europa e del parlamento dell’Unione Europea, proclama vittoria e annuncia la ricostruzione dei territori conquistati (11).

 

I britannici acquisiranno nuovi privilegi per la British Petroleum e solleciteranno il diritto allo sfruttamento delle miniere d’oro dell’Azerbaijan.

 
 
Thierry Meyssan

 

 

NOTE

(1) «L’Artsakh (Karabakh) potrebbe essere la tomba di Erdoğan» e «Karabakh: la NATO sostiene la Turchia cercando al tempo stesso di eliminare il presidente Erdoğan», di Thierry Meyssan, traduzione di Rachele Marmetti, Rete Votaire, 6 e 13 ottobre 2020.

(2) The Great Game. On Secret Service in High Asia, by Peter Hopkirk, John Murray (1990).

(3) “Boris Johnson Statement to the House on the Integrated Review”, by Boris Johnson, Voltaire Network, 19 November 2020.

(4) “Larisa Minasyan: OSF-Armenia has supported and supports the velvet revolution in the country”, Arm Info, March 5 2019.

(5) « George Soros, spéculateur et philanthrope », Réseau Voltaire, 15 janvier 2004.

(6) “Quattromila jihadisti in Alto Karabakh”, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 2 ottobre 2020.

(7) “George Soros invia duemila mercenari curdi in Armenia (Erdoğan)”, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 2 novembre 2020.

(8) “Violato il terzo cessate-il-fuoco in Karabakh”, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 28 ottobre 2020.

(9) Conferenza stampa del capo di stato-maggiore uscente, generale Movses Hakobyan, Erevan, 19 novembre 2020.

(10) « Déclaration des présidents d’Azerbaïdjan, d’Arménie et de Russie », Réseau Voltaire, 9 novembre 2020.

(11) “Ilham Aliyev’s Victory Speech”, Voltaire Network, 20 November 2020.

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

 

 

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Geopolitica

Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine

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Il primo ministro Sretta Thavisin ha rinunciato alla visita, ma ha annunciato la creazione di un comitato ad hoc per gestire la situazione. Nel fine settimana, infatti, si sono verificati ulteriori combattimenti lungo la frontiera tra Myanmar e Thailandia e migliaia di rifugiati continuano a spostarsi da una parte all’altra del confine. Per evitare una nuova umiliazione l’esercito birmano ha intensificato i bombardamenti.

 

Il primo ministro della Thailandia Sretta Thavisin questa mattina ha cancellato la visita che aveva in programma a Mae Sot, città al confine con il Myanmar, e ha invece mandato al suo posto il ministro degli Esteri e vicepremier Parnpree Bahidda Nukara.

 

Nei giorni scorsi era stata annunciata la creazione di «un comitato ad hoc per gestire la situazione derivante dai disordini in Myanmar», ha aggiunto il premier. «Sarà un meccanismo di monitoraggio e valutazione» che avrà come scopo quello di «analizzare la situazione complessiva» e «dare pareri e suggerimenti per gestire in modo efficace la situazione».

 

La Thailandia, dopo i ripetuti fallimenti da parte dell’ASEAN (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) di far rispettare l’accordo di pace in Myanmar, sta cercando di evitare che un esodo di rifugiati in fuga dalla guerra civile si riversi sui propri confini proponendosi come mediatore. «Il ruolo della Thailandia è quello di fare tutto il possibile per aiutare a risolvere il conflitto nel Paese vicino, e un ruolo simile è atteso anche dalla comunità internazionale», ha dichiarato ieri il segretario generale del primo ministro Prommin Lertsuridej.

 

Durante il fine settimana si sono verificati ulteriori scontri a Myawaddy (la città birmana dirimpettaia di Mae Sot), nello Stato Karen, tra le truppe dell’esercito golpista e le forze della resistenza, che hanno strappato il controllo della città ai soldati, grazie anche al cambio di bandiera della Border Guard Force, che, trasformatasi nell’Esercito di liberazione Karen (KLA), è passata a sostenere la resistenza e sta combattendo per la creazione di uno Stato Karen autonomo.

 

Giovedì scorso, l’Esercito di Liberazione Nazionale Karen (KNLA, una milizia etnica da non confondere con il KNA) aveva annunciato di aver intercettato l’ultimo gruppo di militari rimasto, il battaglione di fanteria 275. Alla notizia, l’esercito ha risposto con pesanti bombardamenti, lanciando l’Operazione Aung Zeya (dal nome del fondatore della dinastia Konbaung che regnò in Birmania nel XVIII secolo), nel tentativo di riconquistare Myawaddy ed evitare così un’altra umiliante sconfitta.

 

The Irrawaddy scrive che l’aviazione birmana ha sganciato nei pressi del Secondo ponte dell’amicizia (uno dei collegamenti tra Mae Sot e Myawaddy) circa 150 bombe, di cui almeno sette sono cadute vicino al confine thailandese dove sono di stanza le guardie di frontiera. Si tratta di una tattica a cui l’esercito birmano sta facendo ricorso sempre più frequentemente a causa delle sconfitte registrate sul campo a partire da ottobre, quando le milizie etniche e le Forze di Difesa del Popolo (PDF, che fanno capo al Governo di unità nazionale in esilio, composto dai deputati che appartenevano al precedente esecutivo, spodestato con il colpo di Stato militare) hanno lanciato un’offensiva congiunta. Una tattica realizzabile, però, solo grazie al continuo sostegno da parte della Russia. Fonti locali hanno infatti dichiarato che gli aerei e gli elicotteri «utilizzati per bombardare i villaggi e per consegnare rifornimenti e munizioni» a «circa 10 chilometri dal confine tra Thailandia e Myanmar» erano «tutti russi».

 

Bangkok è stata presa alla sprovvista dalla situazione. Sabato un proiettile vagante ha colpito il retro di una casa sulla parte thailandese del confine, senza ferire nessuno, ma l’episodio ha costretto il Paese a rafforzare le proprie difese di confine, aumentando i controlli su coloro che attraversano i due ponti che collegano Myawaddy e Mae Sot, al momento ancora aperti.

 

La polizia thai ha anche arrestato 15 birmani e due thailandesi che stavano cercando di fuggire in Malaysia in cerca di migliori opportunità di lavoro. Il gruppo ha raccontato di aver valicato il confine a Mae Sot grazie all’aiuto di intermediari. Viaggi di questo tipo rischiano di diventare sempre più frequenti con l’esacerbarsi della violenza in Myanmar, sostengono gli esperti, i quali si aspettano un prosieguo dei combattimenti, almeno finché non comincerà la stagione delle piogge, che ogni anno pone un freno agli scontri.

 

Ma la Thailandia ha anche inviato aiuti in Myanmar (sebbene tramite enti gestiti dai generali) e attivato una risposta umanitaria a Mae Sot. Il Governo di unità nazionale in esilio ha ringraziato Bangkok per aver fornito riparo e assistenza ai rifugiati, prevedendo tuttavia ulteriori sfollamenti. Almeno 3mila persone – perlopiù anziani e bambini – hanno varcato il confine solo nel fine settimana, ha dichiarato due giorni fa il ministro degli Esteri Parnpree Bahidda Nukara, ma circa 2mila sono tornati a Myawaddy lunedì.

 

Il mese scorso Parnpree aveva annunciato che il Paese avrebbe potuto ospitare fino a 10mila rifugiati birmani a Mae Sot e dintorni.

 

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Geopolitica

L’Iran minaccia ancora una volta di spazzare via Israele

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Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha minacciato Israele di annientamento se tentasse di attaccare nuovamente l’Iran.   Raisi è arrivato in Pakistan lunedì per una visita di tre giorni. Martedì ha parlato delle recenti tensioni tra Teheran e Gerusalemme Ovest in un evento nel Punjab.   «Se il regime sionista commette ancora una volta un errore e attacca la terra sacra dell’Iran, la situazione sarà diversa, e non è chiaro se rimarrà qualcosa di questo regime», ha detto Raisi all’agenzia di stampa statale IRNA.   Israele non ha mai riconosciuto ufficialmente un attacco aereo del 1° aprile sul consolato iraniano a Damasco, in Siria, che ha ucciso sette alti ufficiali della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). Teheran ha tuttavia reagito il 13 aprile, lanciando decine di droni e missili contro diversi obiettivi in ​​Israele.   L’Iran si è scrollato di dosso una serie di esplosioni segnalate vicino alla città di Isfahan lo scorso venerdì, che si diceva fossero una risposta da parte di Israele. Lo Stato degli ebrei non ha riconosciuto l’attacco denunciato, pur criticando un ministro del governo che ne ha parlato a sproposito. Teheran ha scelto di ignorarlo piuttosto che attuare la rapida e severa rappresaglia promessa.   La Repubblica Islamica ha promesso in più occasioni di spazzare via, distruggere o annientare il «regime sionista», espressione con cui spesso chiama Israele.

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Martedì, parlando a Lahore, il Raisi ha promesso di continuare a «sostenere onorevolmente la resistenza palestinese», denunciando gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo come «i più grandi violatori dei diritti umani», sottolineando il loro sostegno al «genocidio» israeliano a Gaza.   Nel suo viaggio diplomatico il Raisi ha promesso di incrementare il commercio iraniano con il Pakistan portandolo a 10 miliardi di dollari all’anno. Le relazioni tra i due vicini sono difficili da gennaio, quando Iran e Pakistan hanno scambiato attacchi aerei e droni mirati a “campi terroristici” nei rispettivi territori.   Come riportato da Renovatio 21, negli scorsi giorni Teheran ha dichiarato pubblicamente di sapere dove sono nascoste le atomiche israeliane. Nelle scorse settimane lo Stato Ebraico aveva dichiarato di essere pronto ad attaccare i siti nucleari iraniani.   Negli ultimi mesi l’Iran ha accusato Israele di aver fatto saltare i suoi gasdotti. Hacker legati ad Israele avrebbero rivendicato un ulteriore attacco informatico al sistema di distribuzione delle benzine in Iran.   Sei mesi fa l’Iran ha arrestato e giustiziato tre sospetti agenti del Mossad. All’ONU il ministro degli Esteri iraniano aveva dichiaato che gli USA «non saranno risparmiati» in caso di escalation.   Come riportato da Renovatio 21, anche da Israele a novembre 2023 erano partite minacce secondo le quali l’Iran potrebbe essere «cancellato dalla faccia della terra».

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Fosse comuni negli ospedali di Gaza

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Il capo dei diritti delle Nazioni Unite Volker Turk ha dichiarato martedì di essere «inorridito» dalla distruzione delle strutture mediche di Nasser e Al-Shifa a Gaza da parte delle truppe israeliane e dalle notizie di fosse comuni scopertevi.

 

Le autorità palestinesi hanno riferito di aver trovato decine di corpi in fosse comuni presso l’ospedale Nasser di Khan Younis questa settimana, dopo che era stato abbandonato dall’IDF. Sono stati segnalati corpi anche nel sito di Al-Shifa a seguito di un’operazione delle forze speciali israeliane.

 

Secondo il servizio di emergenza civile di Gaza gestito da Hamas, citato dall’agenzia Reuters, finora sono stati trovati un totale di 310 corpi in una fossa comune presso l’ospedale Nasser, la principale struttura sanitaria nel sud di Gaza. Secondo quanto riferito, altre due fosse comuni sarebbero state identificate ma non ancora scavate.

 

«Sentiamo il bisogno di lanciare l’allarme perché chiaramente sono stati scoperti più corpi», ha detto Turk, rivolgendosi a un briefing delle Nazioni Unite tramite un portavoce.

 

«Alcuni di loro avevano le mani legate, il che ovviamente indica gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale, e queste devono essere sottoposte a ulteriori indagini”, ha affermato il responsabile dei diritti umani delle Nazioni Unite.

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L’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha detto che sta lavorando per corroborare i rapporti dei funzionari palestinesi, sostenendo che alcuni dei corpi erano sepolti sotto cumuli di rifiuti e includevano donne e anziani.

 

Israele afferma di essere stato costretto a combattere all’interno degli ospedali perché i militanti di Hamas usano le strutture come basi, un’affermazione che il personale medico e lo stesso gruppo militante negano. Il governo dello Stato Ebraico ha riferito che le sue forze hanno ucciso circa 200 militanti ad Al-Shifa e hanno evitato di danneggiare i civili.

 

Turk ha anche criticato gli attacchi israeliani su Gaza degli ultimi giorni, che secondo lui hanno ucciso soprattutto donne e bambini.

 

Il dirigente onusiano ha messo ancora una volta in guardia Israele da un’incursione su vasta scala nella città di Rafah, nel sud di Gaza, dove circa 1,4 milioni di sfollati palestinesi hanno cercato rifugio dall’inizio del conflitto Hamas-Israele. L’offensiva potrebbe portare a «ulteriori crimini atroci», ha avvertito il Turk.

 

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sostiene che Israele non può raggiungere il suo obiettivo di «vittoria totale» senza lanciare un’offensiva su Rafah.

 

Come riportato da Renovatio 21, il Turko ha dichiarato il 18 marzo che «la portata delle continue restrizioni poste da Israele all’ingresso di aiuti a Gaza, insieme al modo in cui continua a condurre le ostilità, possono equivalere all’uso della fame come metodo di guerra, che è un crimine di guerra».

 

Il portavoce di Türk, Jeremy Laurence, ha sottolineato che «Israele, in quanto potenza occupante, ha l’obbligo di garantire la fornitura di cibo e assistenza medica alla popolazione in misura adeguata ai suoi bisogni e di facilitare il lavoro delle organizzazioni umanitarie per fornire tale assistenza».

 

Un mese fa l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani aveva affermato che gli insediamenti illegali di Israele in Cisgiordania sono aumentati a livelli record e rischiano di eliminare ogni possibilità pratica di uno Stato palestinese.

 

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