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Morte cerebrale

Malori e predazioni degli organi: continua la strage operata dalla «Morte Cerebrale»

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Procede senza soluzione di continuità la stagione dei malori improvvisi, a tutto vantaggio della fiorente industria dei trapianti di organi vitali, com’è ormai noto ai lettori di Renovatio 21

 

L’ennesimo episodio è accaduto intorno al giorno di Natale: secondo la stampa locale, una quarantenne di Oristano, la quale non aveva apparenti problemi di salute, si sarebbe sentita male mentre si trovava in casa con il compagno, il quale ha tentato di rianimarla senza ottenere successo. Solamente l’arrivo degli operatori del 118 avrebbe consentito di strappare alla morte la giovane donna, la quale però pochi giorni dopo il trasferimento in elicottero all’ospedale di Nuoro, per l’esattezza il 31 dicembre scorso, è stata dichiarata cerebralmente morta ed espiantata degli organi. Le cronache riferiscono che l’attività cerebrale della quarantenne oristanese si sia pian piano ridotta fino ad arrivare a non darle più alcuna possibilità di ripresa. 

 

Ora, oltre alla solita velocità con cui le strutture sanitarie tendono ad attivare le procedure per la dichiarazione di Morte Cerebrale (MC), è possibile constatare come il nuovo criterio di accertamento della morte fondato sui soli parametri neurologici costituisca una grave minaccia per la vita di ciascuno di noi.

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Infatti, anche nel caso in cui il paziente in coma non rientri tra i potenziali donatori, una volta dichiarata la MC la sua sorte è segnata: egli viene trattato alla stregua di un cadavere e privato dei sostegni vitali e delle cure che lo mantengono in vita, come prescritto dalla legge.

 

Pertanto, è quanto mai opportuno e urgente interrogarsi circa la veridicità di un criterio di accertamento della morte che sembra affondare le sue radici nell’ideologia piuttosto che nella scienza, nell’artificiosità della tecnica piuttosto che nella naturalità della morte.

 

La MC è vera morte? Le diagnosi di MC sono veramente affidabili al di là di ogni ragionevole dubbio? 

 

Abbiamo già avuto modo in altre occasioni di mettere in evidenza come la pretesa di identificare in un organo, in particolare nel cervello, il principio vitale dell’essere umano non ha alcun riscontro scientifico e si fonda su una concezione della vita meramente meccanicistica.

 

La tesi secondo cui la vita umana richiede un cervello funzionante è già confutata dal fatto che a livello embrionale il cervello è l’organo che si sviluppa più tardi; è chiaro quindi che la vita è presente indipendentemente dal funzionamento cerebrale. Come può un organo che si forma relativamente tardi svolgere il ruolo di integratore centrale dell’organismo umano?

 

Non solo, se il cervello è la «centralina» che regola tutte le funzioni dell’individuo come mai i pazienti in MC mantengono inalterate le funzioni di base? Nella persona dichiarata morta, infatti, la circolazione sanguigna, il controllo della temperatura, il sistema metabolico e immunitario funzionano perfettamente, così come lo scambio gassoso nei polmoni che permette al paziente di respirare (ossia di metabolizzare l’ossigeno).

 

Addirittura, le donne che aspettano un bambino possono portare a termine la gravidanza; ciò non è la dimostrazione più lampante dell’esistenza di interazioni molto complesse tra gli organi, ossia che ci sia integrazione?

 

Evidentemente, la MC non costituisce la fine dell’unità biologica dell’organismo come un tutto. Del resto, è la stessa medicina dei trapianti a trarre vantaggio dalla mantenuta unità biologica del potenziale donatore, dal momento che per essa è di fondamentale importanza che gli organi da prelevare rimangano interconnessi e vivi.

 

Solamente la sospensione del sostegno vitale fa sopraggiungere la (vera) morte della persona e avvia il processo di decomposizione del corpo.

 

Tuttavia, ammesso e non concesso che il mancato funzionamento del cervello equivalga alla morte dell’individuo, rimarrebbe comunque da stabilire se nella MC tutte le funzioni cerebrali siano effettivamente compromesse e se lo siano in modo irreversibile. Per rispondere a questi interrogativi potrebbe tornare utile capire se le conoscenze finora acquisite dalle neuroscienze circa il funzionamento del cervello siano complete ed esaustive e se le tecniche utilizzate per stabilire l’irreversibilità delle funzioni cerebrali siano a prova di errore. 

 

Per quanto riguarda il primo punto, è evidente che malgrado la ricerca scientifica abbia compiuto grandi passi in avanti nello studio del cervello essa è ben lontana dall’aver acquisito la completa conoscenza di questo meraviglioso organo. Sono gli stessi addetti ai lavori a dichiarare che benché si conosca molto a livello molecolare e cellulare si sia rimasti sostanzialmente ignoranti circa le proprietà dei circuiti che fanno funzionare l’enorme e estremamente complesso meccanismo cerebrale. Si parla infatti di milioni di cellule che formano tra loro miliardi di connessioni contemporaneamente.

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Nel 2017 la rivista Current Biology ha reso noto un esperimento scientifico condotto dalla neuroscienziata Angela Sirigu, la quale è riuscita a recuperare la coscienza di un paziente in stato vegetativo attraverso una serie protratta nel tempo di elettrostimolazioni del nervo vago. La particolarità dell’esperimento effettuato dalla ricercatrice italiana è dovuta al fatto che il paziente non aveva più alcun contatto con il mondo esterno da ben 15 anni e la sua condizione era considerata irreversibile.

 

Anche secondo la neurologa Silvia Marino, la quale è riuscita attraverso la somministrazione di stimoli di vario genere a far passare un certo numero di pazienti dallo stato cosiddetto vegetativo a quello di minima coscienza, il termine irreversibile applicato ai disturbi della coscienza non è più utilizzabile. 

 

Per quanto riguarda le procedure atte a stabilire la MC, esse sembrano, ad una attenta analisi, artificiose e prive di validità scientifica. 

 

Innanzitutto, secondo i teorizzatori della MC la presunta irreversibilità del danno cerebrale sarebbe comprovata quando una particolare serie di funzioni cerebrali rimane per qualche tempo clinicamente non individuabile. Tuttavia, è ormai noto che la funzione neurale può essere soppressa solo temporaneamente quando l’apporto di sangue al cervello diminuisce fino ad un certo livello. Questo fenomeno è noto come penombra ischemica.

 

Il riconoscimento di tale fenomeno (tra l’altro, sostanzialmente sconosciuto al tempo della stesura del rapporto di Harward) grazie alle moderne tecniche di diagnostica per immagini è la dimostrazione che lo stato di assenza di riflessi cefalici non corrisponde necessariamente alla MC. Inoltre, la valutazione clinica della diagnosi di MC richiede la sospensione temporanea del supporto respiratorio meccanico allo scopo di aumentare la concentrazione di anidride carbonica nel sangue e verificare quindi la presenza del riflesso respiratorio nel paziente.

 

Tuttavia, questa procedura diagnostica, nota come test di apnea, riduce la pressione sanguigna e aumenta la pressione intracranica e può causare alla persona in coma danni fatali. Pertanto, il fatto che il suddetto test venga utilizzato prima di dichiarare la MC e in vista di essa costituisce una chiara violazione dei diritti del malato in quanto viola le più fondamentali linee guida per la gestione delle gravi lesioni cerebrali, causando ipercapnia, ipotensione e ipossia. In pratica, il test di apnea spesso rappresenta il colpo di grazia che giustifica poi il prelievo degli organi. 

 

Altro punto critico è la sorprendente aleatorietà dei criteri atti a stabilire la MC, i quali possono variare da paese a paese: in Italia, ad esempio, la valutazione dell’encefalo tramite EEG è obbligatoria ai fini della dichiarazione di MC; diverso è il caso inglese dove tale esame non viene ritenuto necessario. In linea teorica, un paziente può essere dichiarato morto oppure no a seconda del criterio diagnostico che sceglie di seguire un determinato medico.

 

D’altra parte, le attività della corteccia cerebrale non possono essere valutate clinicamente se il paziente versa in stato di incoscienza. Per lo stesso motivo, non può essere valutata l’attività del cervelletto mediante esame clinico o elettrofisiologico. In realtà, nessun criterio diagnostico è in grado di dimostrare l’assenza di tutte le attività cerebrali e cerebellari nel paziente in coma. Com’è possibile dunque affermare con assoluta certezza che l’attività cerebrale di un soggetto in coma sia talmente ridotta da non dargli più alcuna possibilità di ripresa, come vediamo in continui casi anche recenti? 

 

Ad ogni modo, la cessazione di funzione, sia reversibile che irreversibile, non implica necessariamente la distruzione totale dell’encefalo e dunque men che mai la morte della persona. In effetti, l’irreversibilità in quanto tale non è un concetto empirico, non è una condizione osservabile. Considerare l’irreversibilità del funzionamento cerebrale come sinonimo di morte o di distruzione dell’encefalo equivale a identificare i sintomi con la loro causa.

 

Il paziente dichiarato cerebralmente morto conserva responsività agli stimoli e può anche mostrare dei movimenti spontanei come il cosiddetto fenomeno di Lazzaro, durante il quale il presunto cadavere compie dei movimenti anche ben coordinati che lasciano supporre il coinvolgimento del cervelletto e delle aree superiori dell’encefalo.

 

Inoltre, vengono spesso rilevate nel soggetto in MC delle risposte che di norma sono mediate dal tronco encefalico, come l’aumento della frequenza del battito cardiaco e della pressione sanguigna sia all’inizio che nel corso dell’intervento per la rimozione degli organi.

 

La presenza di movimenti spontanei nella persona che viene sottoposta all’espianto è tale che durante l’operazione è sempre necessario paralizzarla. Per di più, la maggior parte degli anestesisti somministra al «morto» la stessa dose di anestesia generale che viene impiegata per un paziente vivo. Eppure, per i fautori del nuovo criterio di morte i segni vitali chiaramente riscontrabili nel paziente in MC non sono altro che riflessi spinali.

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Sembra evidente che la MC sia un’invenzione, un costrutto pseudo scientifico atto a dichiarare morti i pazienti in coma, aprendo la strada alla predazione degli organi o semplicemente all’eliminazione del malato o dell’incosciente.

 

Del resto, sono gli stessi addetti ai lavori ad ammettere che la MC non ha alcuna base naturale o scientifica e che il suo vero fine è stabilire per legge chi deve essere sacrificato a Moloch.

 

Infatti, nel Manuale MSD riservato agli operatori sanitari, alla voce Morte Cerebrale, si legge: «La determinazione che la morte cerebrale/morte per criteri neurologici (ossia, la cessazione totale della funzione cerebrale integrata, in particolare quella del tronco encefalico) costituisce la morte di una persona è stata accettata legalmente e culturalmente nella maggior parte dei Paesi». 

 

«Accettata», come si accetta una convenzione. E non da tutte le nazioni e le famiglie. Sicuramente non da noi.

 

Alfredo De Matteo

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Immagine di Ericneuro via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International;immagine modificata.

Morte cerebrale

La «morte cerebrale» è stata inventata per prelevare più organi

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Renovatio 21 pubblica questo testo della dottoressa Heidi Kleissig apparso su LifeSiteNews.   In un recente editoriale del New York Times, tre medici affiliati a centri trapianti hanno proposto di ampliare la definizione legale di morte per ottenere più organi da trapiantare. È interessante notare che, alla fine del loro articolo, hanno ammesso che lo abbiamo già fatto in passato:   Nel 1968, un comitato di medici ed esperti di etica di Harvard formulò una definizione di morte cerebrale, la stessa definizione di base utilizzata oggi dalla maggior parte degli stati. Nel suo rapporto iniziale, il comitato osservò che «c’è un grande bisogno di tessuti e organi di persone in coma irreparabile per ripristinare la salute di coloro che sono ancora in grado di sopravvivere». Questa valutazione schietta fu eliminata dal rapporto finale a causa dell’obiezione di un revisore. Ma è quella che dovrebbe guidare le politiche odierne in materia di morte e trapianto di organi.

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Morte cerebrale/morte secondo criteri neurologici

Poco dopo che il dottor Christiaan Barnard eseguì il primo trapianto di cuore, 13 uomini della Harvard Medical School proposero l’idea della morte cerebrale in un articolo fondamentale, «Una definizione di coma irreversibile». Il loro articolo non contiene riferimenti scientifici e inizia con queste parole: «il nostro scopo principale è definire il coma irreversibile come un nuovo criterio di morte».   Senza test, studi o prove, questi uomini decisero che alcune persone in coma (che in precedenza erano sempre state considerate vive) potessero essere ridefinite come morte. L’unica motivazione fornita dal comitato per la riclassificazione delle persone in coma come cadaveri era l’utilità. Affermarono che la vita di queste persone era un peso per loro stesse e per gli altri, e che ridefinirle come morte avrebbe già liberato posti letto nelle unità di terapia intensiva e risolto la controversia sul reperimento dei loro organi.   Questa nuova definizione è stata certamente di grande utilità perché ha permesso ai medici di aggirare la regola del donatore morto. La regola del donatore morto è una massima etica che stabilisce che le persone non devono essere né vive al momento dell’espianto degli organi né uccise dal processo di espianto. Semplicemente ridefinendo le persone con gravi lesioni cerebrali come già morte, la lettera della regola del donatore morto viene soddisfatta con un gioco di prestigio. Ma cambiare una definizione non cambia la realtà. Le persone con una diagnosi di morte cerebrale hanno lesioni neurologiche e la loro prognosi può essere di morte, ma non sono già morte.   Dio è l’unico autore e donatore della vita. Egli stesso dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa (At 17,25), perché in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (At 17, 28). Siamo stati creati da Lui come una stretta unione di carne materiale e spirito immateriale, un composto corpo-spirito. La Bibbia contraddice la visione materialista secondo cui siamo solo il nostro cervello. «Formò dunque il Signore Dio l’uomo dal fango della terra, e gli inspirò in faccia lo spirito della vita, e l’uomo divenne persona vivente.» (Gen 2,7). Nel 1312, il Concilio di Vienne riconobbe questo insegnamento biblico e definì l’anima come la forma – il principio immediato della vita e dell’essere – del corpo umano.   La morte avviene quando lo spirito immateriale si separa dal corpo materiale. Ma poiché non disponiamo di strumenti per rilevare il momento esatto in cui lo spirito se ne va, storicamente le persone hanno utilizzato i segni indice della perdita del battito cardiaco, della perdita del respiro e del passare del tempo per essere certi che la morte fosse avvenuta.   Le nostre tradizioni della veglia, della visita e della veglia funebre fornivano sia la certezza che la morte fosse avvenuta sia il tempo per elaborare il lutto. Ma una diagnosi di morte cerebrale ignora la questione se lo spirito donato da Dio se ne sia andato, sostituendola con la scomparsa delle funzioni neurologiche.   Il dottor Edmund D. Pellegrino, direttore fondatore del Pellegrino Center for Bioethics presso la Georgetown University, si è espresso contro la morte cerebrale:   «Gli unici segni indiscutibili della morte sono quelli che conosciamo fin dall’antichità, vale a dire: perdita della sensibilità, del battito cardiaco e della respirazione; pelle screziata e fredda; rigidità muscolare; ed eventuale putrefazione come risultato dell’autolisi generalizzata delle cellule del corpo».   «Ho scelto di dare priorità al benessere del paziente prima che diventi un donatore, perché non si deve arrecare alcun danno, anche se ne deriva un beneficio. Nessuna persona dovrebbe essere sacrificata per il bene di un’altra. Questo è un precetto morale che riconosce il valore intrinseco di ogni essere umano».   Da molti anni i medici mettono in discussione il concetto di morte cerebrale, nonostante il fatto che «mettere in discussione lo status quo riguardo al prelievo di organi da pazienti dichiarati morti secondo criteri neurologici abbia delle conseguenze».   Fin dal suo inizio, la «morte cerebrale» è stata guidata dal desiderio di organi vitali. Il dottor Eelco F. Wijdicks, autore delle linee guida sulla morte cerebrale dell’American Academy of Neurology (AAN) del 1995, 2010 e 2023, ha affermato nel 2006:   «La diagnosi di morte cerebrale è determinata dall’esistenza di un programma di trapianto o dalla presenza di chirurghi specializzati. Non credo che l’esame per la morte cerebrale, nella pratica, avrebbe molto significato se non fosse finalizzato al trapianto». [Questa citazione si trova a p. 50 qui].

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La ricerca ha dimostrato che le persone con diagnosi di morte cerebrale hanno ancora funzioni cerebrali: il 20% (di quelle sottoposte a test) presenta attività EEG e oltre il 50% ha ancora un ipotalamo funzionante , che è una parte del cervello. Inoltre, le ben note capacità delle persone «cerebralmente morte», come la guarigione delle ferite, la lotta contro le infezioni, il parto sano e la risposta intatta allo stress dopo l’incisione per la rimozione degli organi, dimostrano che sono ancora vive.   Le ultime linee guida AAN (2023) sulla morte cerebrale ammettono, nella sezione dedicata ai metodi, che non vi sono prove scientifiche attendibili a sostegno della diagnosi di morte cerebrale. «A causa della mancanza di prove scientifiche di alta qualità sull’argomento», le nuove linee guida sono state definite tramite tre votazioni anonime. È preoccupante che, dopo quasi 60 anni di dichiarazioni di morte cerebrale, non vi siano ancora prove scientifiche di alta qualità a sostegno di questa diagnosi.   Inoltre, il modo in cui i medici diagnosticano la morte cerebrale utilizzando le linee guida AAN non è conforme alla legge ai sensi dell’Uniform Determination of Death Act (UDDA). La legge richiede la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’intero cervello, incluso il tronco encefalico, per una determinazione neurologica della morte.   Tuttavia, l’esame di morte cerebrale AAN verifica solo il coma, la perdita di alcuni riflessi del tronco encefalico e l’assenza di respirazione spontanea. Inoltre, le linee guida AAN affermano esplicitamente che la morte cerebrale può essere dichiarata in presenza di una funzione cerebrale in corso: la funzione dell’ipotalamo. Ciò è in contrasto con la legge, che richiede che tutte le funzioni dell’intero cervello debbano essere cessate irreversibilmente.   La morte cerebrale non è morte perché il concetto di morte cerebrale non riflette la realtà del fenomeno della morte. Pertanto, qualsiasi linea guida per la sua diagnosi non avrà alcun fondamento scientifico.   Le persone dichiarate cerebralmente morte sono neurologicamente disabili e la loro prognosi può essere fatale, ma sono ancora vive. Le persone viventi con una prognosi sfavorevole non dovrebbero essere ridefinite come morte in nome della donazione di organi.   Heidi Klessig   La dottoressa Heidi Klessig è un’anestesista in pensione e specialista nella gestione del dolore. Scrive e parla di etica nella donazione e nel trapianto di organi. È autrice di The Brain Death Fallacy e i suoi lavori sono disponibili su respectforhumanlife.com.

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Morte cerebrale

Persone «cerebralmente morte» vengono utilizzate come topi da laboratorio per trapianti di organi animali geneticamente modificati

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Renovatio 21 traduce e ripubblica questo articolo della dottoressa Heidi Klessig apparso su LifeSiteNews.

 

In una preoccupante violazione dei diritti umani, gli scienziati cinesi hanno recentemente utilizzato un uomo di 39 anni «in morte cerebrale» come ospite per lo xenotrapianto, impiantandogli un polmone di un maiale geneticamente modificato.

 

I ricercatori cinesi hanno riferito sulla rivista Nature Medicine che l’uomo è rimasto emodinamicamente stabile per tutta la durata dell’esperimento: «durante tutto il periodo postoperatorio, i parametri fisiologici ed emodinamici dinamici sono rimasti stabili, indicando la stabilità fisiologica e l’omeostasi del ricevente per un periodo di osservazione di 216 ore».

 

Secondo un servizio giornalistico, l’uomo «morto» ha vissuto per nove giorni producendo anticorpi contro l’organo estraneo prima di morire:

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«Tuttavia, 24 ore dopo il trapianto, il polmone mostrava segni di accumulo di liquidi e danni, probabilmente dovuti inizialmente a un’infiammazione correlata al trapianto. E nonostante al ricevente fossero stati somministrati potenti farmaci immunosoppressori, l’organo trapiantato è stato progressivamente attaccato dagli anticorpi, con conseguenti danni significativi nel tempo».

 

La quantità di doppi sensi orwelliani in questo resoconto è sconcertante. Come si può mantenere in vita un uomo morto? Come si può mantenere un uomo morto sufficientemente stabile da poter essere utilizzato come cavia per l’impianto di un organo animale? Come si può produrre anticorpi in un uomo morto? Come si può morire di nuovo dopo nove giorni?

 

La risposta, ovviamente, è che le persone «cerebralmente morte» non sono morte. Hanno un cuore pulsante, assorbono ossigeno e rilasciano anidride carbonica attraverso i polmoni, metabolizzano i nutrienti, eliminano le scorie, combattono le infezioni e rigettano organi estranei. Si comportano esattamente come ci si aspetterebbe che si comportassero le persone con lesioni cerebrali, e non c’è assolutamente alcuna prova che le loro anime se ne siano andate.

 

Ma queste persone con lesioni neurologiche sono state ridefinite come morte per ottenere legalmente i loro preziosi organi vitali per il trapianto. E proprio perché le persone «cerebralmente morte» sono ancora vive e stabili (ma sono state private dei loro diritti umani), i medici le usano da anni come ospiti di prova per xenotrapianti.

 

Storicamente, lo xenotrapianto, ovvero il trapianto di organi da altre specie nell’uomo, ha sempre fallito a causa di incompatibilità e rigetto. Nel 2022, un paziente americano è stato il primo a ricevere un trapianto di cuore di maiale geneticamente modificato. Il maiale donatore era stato sottoposto all’eliminazione di alcuni geni suini e all’aggiunta di geni umani per rendere il suo cuore meno probabile da riconoscere come estraneo dal ricevente umano. David Bennett sr. è sopravvissuto 45 giorni prima di morire apparentemente a causa di un virus suino che si è insinuato nel suo nuovo cuore.

 

Nell’agosto del 2023, due uomini in «morte cerebrale» sono stati utilizzati come cavie per i test, quando i ricercatori dell’Università dell’Alabama e del Langone Transplant Institute della New York University impiantarono chirurgicamente reni di maiale geneticamente modificati nei loro addominali. «Con il consenso informato dei familiari, il defunto ha ricevuto supporto cardiopolmonare in un ambiente di terapia intensiva per tutta la durata dello studio».

 

Uno di questi uomini indifesi in «morte cerebrale» è stato tenuto in vita come una cavia da laboratorio per oltre un mese, mentre i medici studiavano per quanto tempo avrebbe funzionato il rene xenotrapiantato. Al termine di questi esperimenti, entrambi gli uomini furono sacrificati per l’esame istologico.

 

L’esperto di etica medica Joel Zivot MD non è rimasto impressionato: «in generale, la correttezza o meno di questo tipo di procedura sono le conseguenze di una serie di scelte morali, finora non segnalate e non esaminate, e includono i problemi della morte cerebrale, della sperimentazione umana, del consenso, del razionamento e dei diritti degli animali». Egli sottolinea che il concetto di «morte cerebrale» ha trasformato le persone in risorse, merci da utilizzare per i preziosi organi vitali che possiedono.

 

È difficile immaginare che un esperimento di questa natura riceva il consenso non solo della famiglia, ma anche dei comitati di revisione istituzionale e dei comitati etici di questi rispettivi ospedali. Quando il Consiglio Presidenziale di Bioetica ha scritto il suo libro bianco sulla determinazione della morte nel 2008, giustificò moralmente la dichiarazione di morte secondo criteri neurologici («morte cerebrale»), sostenendo che continuare a ventilare e assistere queste persone violava il rispetto dovuto ai defunti. Chiaramente, quel rispetto ora è andato a farsi benedire.

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E la sperimentazione continua. Nel marzo 2024, scienziati cinesi hanno trapiantato il fegato di un maiale geneticamente modificato in un essere umano in «morte cerebrale». I ricercatori dell’azienda Clonorgan Biotechnology di Chengdu hanno rimosso tre antigeni di maiale dall’animale donatore utilizzando la tecnologia di editing genetico e li hanno sostituiti con tre proteine ​​umane.

 

Il responsabile del team, Dou Kefeng, ha affermato che, poiché le funzioni epatiche sono complesse, i fegati di maiale geneticamente modificati non possono attualmente sostituire completamente i fegati umani. L’esperimento «fornisce una base teorica e dati a supporto dell’applicazione clinica dello xenotrapianto», ha aggiunto. Dopo 10 giorni, l’esperimento è stato interrotto e il paziente è stato sacrificato in modo che il fegato potesse essere studiato.

 

Siamo pronti a dire basta? Oppure i nostri desideri superano la nostra moralità quando consideriamo i potenziali benefici che tale sperimentazione potrebbe portare?

 

La «morte cerebrale» non è la morte, ma un costrutto sociale utilitaristico e una finzione giuridica. Le persone «cerebralmente morte» sono ancora vive e meritano di essere trattate come persone, non usate come cavie da laboratorio.

 

Heidi Klessig

 

La dottoressa Heidi Klessig è un’anestesista in pensione e specialista nella gestione del dolore. Scrive e parla di etica nella donazione e nel trapianto di organi. È autrice di The Brain Death Fallacy e i suoi lavori sono disponibili su respectforhumanlife.com.

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Morte cerebrale

Malori improvvisi e morte cerebrale: combo inarrestabile per la caccia agli organi

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Le cronache sono piene di malori improvvisi, come testimonia il resoconto settimanale che Renovatio 21 pubblica regolarmente da diverso tempo.   Coloro che si ritengono più furbi e intelligenti di coloro che vengono definiti con spregio «complottisti» sostengono che non si tratta di un’anomalia statistica, ma che in realtà tali episodi sono sempre esisti. Sempre costoro accusano i dissenzienti di speculare sulle tragedie e di fare insinuazioni senza avere le prove.   Già, le prove. Come se il sistema criminale che ha in qualche modo costretto milioni di persone a farsi iniettare un siero sperimentale non abbia calcolato tutto, anche il fatto che stabilire un legame diretto tra la vaccinazione di massa e l’innegabile impennata nella popolazione generale di malori improvvisi, turbo-tumori e malattie autoimmuni sia pressoché impossibile.

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Primo, perché per appurare tale nesso causale sono necessarie indagini autoptiche approfondite e specifiche che in genere non vengono fatte; secondo, perché i parenti dei defunti spesso si rifiutano, per svariati motivi, di richiedere l’esame autoptico sul corpo del loro caro; terzo, perché gli effetti dei veleni a mRNA possono manifestarsi anche a medio e lungo termine, soprattutto sotto forma di malattie a decorso molto rapido, rendendo ancora più complicato, se non impossibile, accertarne la correlazione coi sieri.   E poi, anche nel caso in cui il legame tra vaccinazione e patologie mortali venga ufficialmente ammesso, come nel caso della povera Camilla Canepa, nulla cambia a livello di opinione pubblica: il sierato e il plurisierato, infatti, attraverso il meccanismo psicologico di rimozione, tende ad allontanare dalla propria consapevolezza pensieri e situazione che gli provocano ansia e angoscia. Per la massa che si è lasciata «marchiare» sotto ricatto è come se gli anni a cavallo del 2020 non fossero mai esistiti. Ci avete fatto caso?   Ad ogni modo, se è vero che non abbiamo la prova provata che la stragrande maggioranza dei malori improvvisi sia causato dalle «sacre» inoculazioni, abbiamo la certezza matematica che di molti malori o incidenti ne stia approfittando la fiorente industria dei trapianti di organi.   Solo negli ultimi giorni si sono registrati diversi episodi di cronaca in cui giovani e giovanissimi sono stati dichiarati cerebralmente morti e privati dei loro preziosi organi. Nella quasi totalità dei casi la dichiarazione di morte cerebrale sopraggiunge dopo poche ore o giorni dall’evento traumatico, in modo tale da non consentire che le condizioni di salute del malcapitato possano migliorare attraverso la somministrazione di adeguati trattamenti sanitari.   Anzi, per effettuare le invasive procedure di accertamento della morte encefalica  vengono interrotte le cure al paziente, il quale viene sottoposto a test pericolosi e potenzialmente letali che non di rado ne peggiorano il quadro clinico. E’ il caso del famigerato test di apnea di cui abbiamo più volte denunciato l’incredibile  pericolosità dalle pagine di Renovatio 21   Solo per fare alcuni esempi recenti, è possibile che una ragazza di 14 anni, colpita presumibilmente da embolia polmonare, possa essere dichiarata senza speranza solamente poche ore dopo il malore improvviso?    È possibile che un bambino di 6 anni possa essere dichiarato morto dopo solo un giorno dall’essere stato investito da una macchina mentre attraversava la strada?    È plausibile che ad un bambino di 2 anni caduto nella piscina dei nonni e rianimato dai sanitari del 118 possa essere accertato un danno cerebrale irreversibile appena due giorni dopo?   Anche volendo ignorare il fatto che la morte cerebrale sia un criterio inventato dalla comunità scientifica internazionale al solo scopo di consentire la predazione degli organi e l’eliminazione del comatoso, non sarebbe comunque un gesto di opportuna prudenza attendere l’evoluzione dello stato di salute del paziente prima di emettere verdetti definitivi? Soprattutto quando si tratta di giovani vite con grandi e spesso sorprendenti capacità di recupero?   Sono domande  che ci poniamo.   Il problema è che nel momento in cui l’efficientissima rete dei trapianti (in un sistema sanitario che fa acqua da tutte le parti l’unica cosa che funziona a dovere è proprio, chissà perché, la macchina delle predazioni) rileva la compatibilità del potenziale «donatore» con uno o più pazienti in lista di attesa, la priorità non diventa più quella di salvare la vita del malcapitato o assicuragli le migliori cure, ma di procurare organi freschi per il trapianto, soprattutto se si tratta di quelli di bambini o adolescenti.   La nostra non è un’illazione ma una constatazione che si desume dai fatti: qual’è il motivo che può giustificare la fretta con cui i sanitari attivano le procedure di accertamento di morte cerebrale, se non quello di procedere con una certa urgenza all’espianto degli organi?

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Non possiamo sapere con certezza se queste giovani vite avrebbero potuto riprendersi parzialmente o addirittura completamente, come del resto è avvenuto in molti casi documentati in cui era stata dichiarata la morte encefalica.   Sappiamo però che non corrisponde al vero  la frase  «il paziente non ce l’ha fatta», ripetuta automaticamente dalle cronachedei giornali. Si tratta infatti di soggetti che sono stati rianimati e le cui condizioni cliniche erano state stabilizzate.   La morte cerebrale non sopraggiunge naturalmente, visto che non esiste, ma viene attivamente ricercata, attraverso protocolli variabili da Paese a Paese che non di rado producono essi stessi il peggioramento del quadro clinico del paziente.    In altri termini, si va a cercare solo ciò che si vuole attivamente trovare. E si vuole trovare la morte.   Alfredo De Matteo  

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