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In Palestina cambia il paradigma

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il sanguinoso conflitto iniziato nella Palestina geografica sopravviene dopo 75 anni di ingiustizie altrettanto cruente. Dal punto di vista del Diritto internazionale i palestinesi hanno il diritto e il dovere di resistere all’occupazione israeliana, così come gli israeliani hanno di diritto e il dovere di replicare all’attacco che subiscono. È responsabilità di tutti contribuire alla risoluzione delle ingiustizie di cui entrambe le parti sono vittime; ciò non significa sostenere la crudele vendetta di alcuni di loro.

 

Il sanguinoso conflitto iniziato nella Palestina geografica sopravviene dopo 75 anni di ingiustizie altrettanto cruente. Dal punto di vista del Diritto internazionale i palestinesi hanno il diritto e il dovere di resistere all’occupazione israeliana, così come gli israeliani hanno di diritto e il dovere di replicare all’attacco che subiscono. È responsabilità di tutti contribuire alla risoluzione delle ingiustizie di cui entrambe le parti sono vittime; ciò non significa sostenere la crudele vendetta di alcuni di loro.

 

Il Medio Oriente è un universo instabile ove numerosi gruppi si scontrano per sopravvivere. L’Occidente, uso a semplificare, crede che la popolazione mediorientale sia costituita da ebrei, cristiani e mussulmani. La realtà è invece molto più complessa. Ogni religione comprende una moltitudine di confessioni. Per esempio, in Europa e nel Maghreb sappiamo che i cristiani si dividono in Chiesa cattolica, Chiesa ortodossa e Chiese protestanti; in Medio Oriente invece ci sono decine e decine di Chiese differenti. Altrettanto dicasi delle religioni ebraica e mussulmana.

 

Ogni volta che sullo scacchiere si muove una pedina, gli altri gruppi devono riposizionarsi, sicché gli alleati di oggi saranno forse i nemici di domani e i nemici di oggi, ieri erano nostri alleati. Nel corso dei secoli tutti sono stati, secondo le circostanze, vittime o carnefici. Gli stranieri che vanno in Medio Oriente si riconoscono a priori nelle persone che hanno la loro stessa cultura, che professano la loro confessione; tuttavia ne ignorano la storia e non sono preparati ad accettarla.

 

Se vogliano promuovere la pace non dobbiamo ascoltare solo chi ci è affine. Dobbiamo ammettere che la pace presuppone la risoluzione delle ingiustizie che subisce, non solo chi ci è vicino, ma anche i nostri nemici. Ma non ci viene spontaneo farlo. Infatti in Francia nei mesi scorsi abbiamo potuto ascoltare solo il punto di vista di alcuni ucraini riguardo ai russi, di alcuni armeni riguardo agli azeri, e adesso di alcuni israeliani sui palestinesi.

 

Infine, tra le molteplici fonti cui possiamo fare riferimento dobbiamo discernere quelle che difendono i propri interessi immediati da quelle che difendono la loro patria, nonché da quelle che difendono dei principi. Ma le cose sono rese ancora più complicate dalla presenza di gruppi che non sono religiosi, bensì teocratici. Ossia che non difendono principi, ma ricorrono a un linguaggio religioso per vincere.

 

Fatte queste premesse veniamo ai fatti.

 

Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre 2023 alle sei del mattino, proprio nel giorno del 50° anniversario della «Guerra di ottobre 1973», in Occidente nota con il nome israeliano di «Guerra del Kippur». All’epoca, l’Egitto e la Siria attaccarono a sorpresa Israele per aiutare i palestinesi. Ma Tel Aviv, informata da Amman e sostenuta da Washington, annientò le forze armate degli arabi. Anwar al-Sadat tradì i suoi e la Siria perse il Golan.

 

L’operazione in corso è una combinazione di lanci di razzi, destinati a saturare la Cupola di ferro, e di attacchi terrestri in territorio israeliano. In Palestina i lanci di razzi hanno per la prima volta colpito centri di comando israeliani per favorire le azioni di commandos, ufficialmente finalizzate a catturare ostaggi da scambiare con i 1.256 palestinesi detenuti in prigioni di alta sicurezza. Le incursioni sono avvenute via terra, via mare, nonché dal cielo con gli ULM [deltaplani].

 

La preparazione dell’operazione, la raccolta di informazioni da parte dell’Intelligence, l’addestramento di un migliaio di commandos e il trasferimento del materiale bellico hanno richiesto mesi, se non anni, di lavoro. Ma accecati dalla nostra sicumera non ce ne siamo accorti. L’operazione è stata architettata da Mohammed Deif, comandante operativo di Hamas, sparito dai radar due anni fa e riapparso a fianco del portavoce di Hamas, «Abu Obaida».

 

Israele è riuscito a intercettare i razzi ma non è stato capace di distruggerli tutti: 3.000 dei 7.000 lanciati sono andati a segno. I social network e le televisioni arabe hanno mostrato che Hamas ha preso diversi carrarmati israeliani e occupato almeno la postazione di confine a occidente della Banda di Gaza. Ha inoltre attaccato un rave party al kibbutz Re’im, violentando e massacrando almeno 280 partecipanti. Ha sequestrato ovunque moltissimi ostaggi, tra cui alcuni generali. I commandos di Hamas sono riusciti a penetrare in diverse località israeliane sparando con mitragliette agli abitanti. Si contano almeno 900 morti e 2.600 feriti gravi tra gli israeliani, il doppio tra i palestinesi.

 

È la più importante azione palestinese degli ultimi cinquant’anni.

 

Quanto sta accadendo è esito di 75 anni di oppressione e di violazione del Diritto internazionale. Israele ha violato impunemente decine di risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Israele è uno Stato al di fuori della legge, che senza farsi scrupoli ha corrotto o assassinato quasi tutti i dirigenti politici palestinesi. Ha deliberatamente impedito lo sviluppo economico dei Territori, favorendo la nascita di uno Stato separato di cui ha il parziale controllo.

 

La frustrazione e le sofferenze accumulate in 75 anni si manifestano in comportamenti violenti e crudeli di taluni palestinesi, consci che la Comunità internazionale li ha abbandonati da molto. Ma i tempi cambiano. La maggioranza dei membri delle Nazioni Unite, constatata la sconfitta militare degli Occidentali e la vittoria della Russia in Siria e in Ucraina, non è più disposta ad abbassare la testa davanti agli Stati Uniti.

 

In occasione dell’anniversario dell’autoproclamazione dell’indipendenza d’Israele, nonché del massacro e dell’espulsione dei palestinesi (la Nakba), l’Assemblea generale ha ribadito che il Diritto internazionale non è dalla parte degli israeliani, ma dei palestinesi. Ma questo non è bastato a impedire ad Hamas di compiere crimini di guerra.

 

L’attuale situazione è senza via d’uscita per entrambi i campi. Dopo tre quarti di secolo di crimini, Israele non può più avanzare grandi pretese. La sua popolazione è divisa. Negli ultimi mesi i «sionisti negazionisti», ossia i discepoli dell’ucraino Vladimir Jabotinsky, propugnatori del suprematismo ebraico, hanno preso il potere a Tel Aviv, nonostante l’opposizione di una seppur minima maggioranza della popolazione e gigantesche manifestazioni. I giovani israeliani, che aspirano a vivere in pace e si rifiutano di prestare servizio nelle forze armate per brutalizzare gli arabi, si sono comunque mobilitati per difendere le proprie famiglie che amano e il Paese in cui non credono.

 

Secondo il diritto, i palestinesi hanno costituito uno Stato che ha ottenuto lo statuto di osservatore delle Nazioni Unite. Alla morte di Yasser Arafat, il capo di Al Fatah, Mahmoud Abbas è stato eletto presidente. Tuttavia, dopo la vittoria di Hamas alle elezioni legislative del 2007 e l’impossibilità di fare accettare agli Occidentali un suo governo, i palestinesi hanno iniziato una guerra civile.

 

La Cisgiordania è governata da Al Fatah, il partito laico fondato da Arafat; Abbas e i suoi sono finanziati da Stati Uniti, Unione Europea e Israele.

 

La Striscia di Gaza è invece nelle mani di Hamas, ossia del ramo palestinese della Confraternita dei Fratelli Mussulmani; è governata da individui per i quali l’Islam non è un’istanza spirituale, ma un’arma di conquista. Sono finanziati principalmente da Regno Unito, Qatar, Israele, Turchia e Unione Europea. Da 16 anni entrambe le parti si oppongono a nuove elezioni. I loro dirigenti vivono in un lusso da mafiosi che fa a pugni con le miserevoli condizioni di vita dei palestinesi.

 

Quando nacque, Hamas era finanziato dal Regno Unito. I servizi segreti israeliani lo sostennero per indebolire Al Fatah di Arafat. In seguito Israele lo combatté e ne assassinò il leader religioso, sceicco Ahmed Yassin.

 

Israele usò nuovamente Hamas, questa volta per eliminare i dirigenti della Resistenza palestinese marxista. Così, agli inizi della guerra contro la Siria, combattenti di Hamas addestrati da agenti del Mossad e dagli jihadisti di Al Qaeda attaccarono il campo palestinese di Yarmuk (1). Ma oggi Hamas combatte di nuovo contro l’alleato di ieri, Israele.

 

Mohammed Deif è conosciuto come fondatore delle brigate Izz al-Din al-Qassam. Come tutti i Fratelli Mussulmani è un suprematista islamico. Si ispira a Izz al-Din al-Qassam (1882-1935), oppositore al mandato francese in Libano e al mandato britannico in Palestina. Quindi non è in rapporto con l’ex mufti di Gerusalemme alleato dei nazisti, Amin al-Husseini, sebbene ne condivida l’antisemitismo.

 

Nel 2020 Deif scriveva: «Le Brigate Izz al-Din al Qassam… sono meglio preparate per continuare sulla nostra specifica via cui non c’è alternativa: la via della jihad e della lotta contro i nemici della nazione e dell’umanità mussulmana… Diciamo ai nostri nemici: siete sulla strada dell’estinzione (zawal) e la Palestina resterà nostra, anche Al Qods (Gerusalemme), Al Aqsa (moschea), le sue città e i suoi villaggi, dal mare (Mediterraneo) al fiume (Giordania), da nord a sud. Non avete diritto nemmeno a un palmo del suo territorio».

 

Dief non è un militare, è uno specialista nel sequestro di ostaggi. L’operazione in corso è concepita a questo scopo, non per liberare la Palestina.

 

La salute del presidente Mahmoud Abbas peggiora e Al Fatah è diviso in tre fazioni militari:

 

• quella di Fathi Abou al-Ardate, capo della sicurezza nazionale;

• quella di Mohammad Abdel Hamid Issa (alias Lino), comandante del Kifah al-Moussallah (la lotta armata); ruota nell’orbita di Mohamed Dallan, ex capo dell’Intelligence palestinese (…), e oggi è sostenuta dagli Emirati Arabi Uniti;

• quella di Munir Maqdah, ex capo militare di Al Fatah, avvicinatosi ad Hamas, Qatar, Turchia e Iran.

 

Il mese scorso ci sono stati scontri tra queste fazioni e quelle degli islamisti di Hamas, nonché con quelle di Jund el-Cham e al-Chabab al-Moslem, due gruppi jihadisti che hanno combattuto a fianco della Nato e Israele contro la Repubblica Araba Siriana. Ci sono stati violenti combattimenti nel campo di Aïn el-Heloué (Sidone, Libano meridionale). Dapprima li ho interpretati alla luce di quelli di Nahr el-Bared (Libano settentrionale) del 2007 (2); in seguito mi sono reso conto che erano legati all’agonia di Mahmoud Abbas (3).

 

Per 75 anni Tel Aviv ha fatto tutto ciò che era in suo potere per rifiutare l’uguaglianza fra tutti, sia ebrei sia arabi. Anzi, dall’Appello di Ginevra promuove la «soluzione a due Stati», ossia il piano coloniale dell’ultima chance di lord William Peel, che i britannici non riuscirono a imporre né sul terreno, nel 1937, né alle Nazioni Unite, nel 1948, e che oggi invece riscuote consenso. Ormai solo i marxisti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP) predicano nel deserto proponendo uno Stato unico in cui palestinesi ed ebrei siano su un piano di parità (4).

 

Davanti a ciò che considera un’invasione palestinese — ma che da un punto di vista palestinese non è che un ritorno a casa — il primo ministro Benjamin Netanyahu ha promesso la vittoria. Ma che vittoria sarà? Uccidere tutti i combattenti di Hamas non cancellerà 75 anni d’ingiustizia: i loro figli riprenderanno il testimone, come loro hanno preso quello dei propri genitori.

 

Per conseguire l’obiettivo, Netanyahu deve innanzitutto riunire gli israeliani che ha diviso. Seguendo l’esempio di Golda Meir durante la Guerra dei Sei Giorni, deve far entrare nel governo l’opposizione. Infatti ha incontrato Yair Lapid e il generale Benny Gantz. Il primo però ha posto come condizione che i suprematisti ebrei Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir escano dal governo, ossia che il primo ministro abbandoni il progetto politico suo e dei suoi sponsor attuali (5), gli straussiani dell’amministrazione Biden (6).

 

I dirigenti di Hamas hanno rivolto un appello ai rifugiati palestinesi all’estero, invitando tutti gli arabi e tutti i mussulmani a unirsi alla loro lotta. Appellarsi ai rifugiati palestinesi significa esortare la maggioranza della popolazione giordana e i rifugiati del Libano. Appellarsi agli arabi significa rivolgersi allo Hezbollah libanese e alla Siria, due potenze che negli ultimi mesi hanno riannodato i rapporti con Hamas. Rivolgersi ai mussulmani significa esortare l’Iran e la Turchia.

 

Per il momento solo la Jihad islamica, ossia l’Iran, e i diversi gruppi di resistenza della Cisgiordania hanno raccolto l’invito di Hamas.

 

Diversamente da quanto sostiene il Wall Street Journal, Hamas non è pilotato dall’Iran. Sostenere il contrario significa dimenticare l’accordo tra Hassan El-Banna, fondatore dei Fratelli Mussulmani, e Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica d’Iran, per spartirsi il mondo mussulmano con l’impegno reciproco di astenersi dall’intervenire in modo rilevante nella sfera d’influenza dell’altro. Teheran ribadisce continuamente e rumorosamente il proprio sostegno ai palestinesi, ma la sua azione concreta in Palestina si limita alla Jihad islamica.

 

I leader politici di Hamas abitano in Turchia, protetti dai servizi segreti. In realtà c’è Ankara dietro Hamas e l’operazione «Diluvio di Al Aqsa».

 

Domenica 8 ottobre, inaugurando una chiesa ortodossa siriaca, il presidente Recep Tayyip Erdogan, mellifluo, ha dichiarato: «La conquista della tranquillità, l’instaurazione di una pace duratura e la conquista della stabilità nella regione attraverso la soluzione della questione palestinese, in conformità del diritto internazionale, è la priorità assoluta su cui ci concentriamo quando incontriamo i nostri omologhi (…) Sfortunatamente i palestinesi e gli israeliani, come l’intera regione, pagano il prezzo del ritardo nell’amministrazione della giustizia (…) Versare benzina sul fuoco non avvantaggerà nessuno, a maggior ragione i civili di entrambe le parti. La Turchia è pronta a fare la propria parte usando al meglio le sue capacità per far finire i combattimenti il più rapidamente possibile e smorzare l’accresciuta tensione dovuta ai recenti incidenti».

 

La scelta di Ankara di scatenare questa guerra immediatamente dopo l’annientamento della Repubblica di Artsakh, in Azerbaijan, e mentre invia materiale bellico alla Russia in violazione delle misure coercitive unilaterali statunitensi, fa capire che i diplomatici turchi non temono più Washington, nonostante nel 2016 gli USA abbiano tentato di assassinare il presidente Erdogan. Terminata l’operazione in corso, ne seguirà un’altra contro i kurdi, in Siria e in Iraq.

 

Se lo Hezbollah entrasse in scena, Israele non riuscirebbe da solo a respingere l’attacco. Potrà continuare a esistere solo con il sostegno militare degli Stati Uniti. Ma l’opinione pubblica statunitense non sostiene più Israele e il Pentagono non ha più i mezzi per difenderlo. Quel che sta accadendo è una conseguenza della guerra in Ucraina. Washington non riesce a produrre munizioni sufficienti a soddisfare le esigenze degli alleati ucraini. È stato costretto addirittura a prelevarne dalle scorte in Israele. I suoi arsenali sono vuoti.

 

Nelle prime ore del conflitto lo Hezbollah ha lanciato qualche razzo sulle fattorie di Chebaa, ossia su un territorio conteso da Libano e Israele, dimostrando così di sostenere la Resistenza palestinese, secondo la retorica della «unità dei fronti». Ma non è entrato in guerra perché diffida di Hamas, contro cui ha combattuto in Siria e di cui non condivide l’ideologia ispirata ai Fratelli Mussulmani.

 

Tutti i dirigenti occidentali hanno affermato di condannare le azioni terroristiche di Hamas e di sostenere Israele. Ma se in passato non hanno fatto nulla per rimediare alle ingiustizie in Palestina, queste posizioni di principio dimostrano che a maggior ragione non lo faranno adesso. La Russia e la Cina invece, rifiutando di schierarsi con i palestinesi o gli israeliani, hanno esortato al rispetto del Diritto internazionale e non delle regole occidentali.

 

Ci troviamo in una situazione in cui tutti i protagonisti hanno deliberatamente sabotato in anticipo qualunque soluzione, sicché è ormai pressoché impossibile evitare che tutto finisca in un bagno di sangue.

 

Thierry Meyssan

 

 

NOTE

1) «Agenti del Mossad tre le unità di al-Qaida che hanno attaccato il campo di Yarmouk», Rete Voltaire, 4 gennaio 2013.

2) «Scontri tra palestinesi in Libano», Voltaire, attualità internazionale n° 52, 16 settembre 2023.

3) «La successione di Mahmoud Abbas», Voltaire, attualità internazionale n° 54, 29 settembre 2023

4) «Georges Habache et la Résistance palestinienne», di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 27 gennaio 2008.

5) «Il colpo di Stato degli straussiani in Israele», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 7 marzo 2023.

6) Leo Strauss era al tempo stesso un ebreo fascista tedesco e un sionista revisionista. Incontrò il proprio idolo, Vladimir Jabotinsky, a New York con Benzion Netanyahu, padre di Benjamin, NdR.

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

Fonte: «In Palestina cambia il paradigma», Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 10 ottobre 2023.

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Geopolitica

Attacco israeliano in Qatar. La condanna di Trump

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Israele ha condotto un «attacco di precisione» contro «i vertici di Hamas», hanno annunciato martedì le Forze di difesa israeliane (IDF), poco dopo che numerose esplosioni hanno scosso il quartier generale del gruppo militante palestinese a Doha, in Qatar.   Da parte delle forze dello Stato Ebraico, si tratta di una violazione territoriale inedita, perché – a differenza di casi analoghi in Libano e Iran – condotta in uno Stato «alleato» di Washington e dell’Occidente, cui fornisce capitale e gas. L’attacco pare essere stato diretto ai negoziatori di Hamas, i quali avevano ricevuto dal presidente americano Trump un invito al tavolo della pace poco prima.   L’esercito israeliano ha dichiarato di aver condotto l’operazione in coordinamento con l’agenzia di sicurezza Shin Bet (ISA). Le IDF non hanno indicato il luogo esatto preso di mira dall’attacco.   «L’IDF e l’ISA hanno condotto un attacco mirato contro i vertici dell’organizzazione terroristica Hamas», ha dichiarato l’IDF in una nota. «Prima dell’attacco, sono state adottate misure per mitigare i danni ai civili, tra cui l’uso di munizioni di precisione e di intelligence aggiuntiva».   L’annuncio è arrivato dopo che almeno dieci esplosioni avrebbero scosso il quartier generale di Hamas a Doha. I filmati che circolano online mostrano che l’edificio è stato gravemente danneggiato. Secondo diversi resoconti dei media che citano fonti di Hamas, l’attacco ha preso di mira il team negoziale del gruppo, che stava discutendo l’ultima proposta statunitense sulla cessazione delle ostilità con Israele.   Il Qatar ha condannato il «vile attacco israeliano», descrivendo il luogo interessato dall’attacco come «edifici residenziali che ospitano diversi membri dell’ufficio politico del movimento Hamas».    

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  L’attacco israeliano a Doha è stato un «momento cruciale» per l’intera regione, ha affermato il primo ministro del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, condannando l’attacco come «terrorismo di Stato».   L’attacco a sorpresa non sarà «ignorato» e il Qatar «si riserva il diritto di rispondere a questo attacco palese», ha dichiarato il primo ministro in una conferenza stampa. «Oggi abbiamo raggiunto un punto di svolta affinché l’intera regione dia una risposta a una condotta così barbara».  

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Al-Thani ha attaccato duramente il suo omologo israeliano, Benjamin Netanyahu, accusandolo di compromettere la stabilità regionale in nome di «deliri narcisistici» e interessi personali. Il Qatar continuerà il suo impegno di mediazione per risolvere le persistenti ostilità con Hamas, ha affermato.   Il primo ministro quatarino ha ammesso che lo spazio per la diplomazia è ormai diventato molto ristretto e che l’attacco ha probabilmente fatto deragliare il ciclo di negoziati dedicato all’ultima proposta avanzata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.   «Per quanto riguarda i colloqui in corso, non credo che ci sia nulla di valido dopo aver assistito a un attacco del genere», ha affermato.   L’attacco israeliano è avvenuto due giorni dopo che il presidente degli Stati Uniti aveva lanciato un altro «ultimo avvertimento» ad Hamas, sostenendo che Israele aveva già accettato termini non specificati di un accordo da lui proposto e chiedendo al gruppo di rilasciare gli ostaggi israeliani ancora detenuti a Gaza. Poco dopo, anche il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha dato al gruppo un “ultimo avvertimento”, minacciando Hamas di annientamento e intimando ai militanti di deporre le armi. In seguito alle minacce, Hamas aveva dichiarato di essere pronta a «sedersi immediatamente al tavolo delle trattative» dopo aver ascoltato quelle che ha descritto come «alcune idee da parte americana volte a raggiungere un accordo di cessate il fuoco».   Tuttavia nelle ultime ore è emersa la condanna del presidente statunitense contro l’attacco israeliano. In una dichiarazione pubblicata martedì su Truth Social, Trump ha criticato l’attacco aereo di Israele contro un complesso di Hamas a Doha, sottolineando che la decisione di portare a termine l’operazione all’interno del Qatar è stata presa unilateralmente dal primo ministro Benjamin Netanyahu e non da Washington.   Nel suo post Trump ha affermato che il bombardamento israeliano all’interno di «una nazione sovrana e stretto alleato degli Stati Uniti» non ha «favorito gli obiettivi di Israele o dell’America».   «Considero il Qatar un forte alleato e amico degli Stati Uniti e mi dispiace molto per il luogo dell’attacco», ha scritto, sottolineando che l’attacco è stato «una decisione presa dal primo ministro Netanyahu, non una decisione presa da me».   Trump ha affermato che, non appena informato dell’operazione, ha incaricato l’inviato speciale statunitense Steve Witkoff di avvertire i funzionari del Qatar, ma ha osservato che l’allerta è arrivata «troppo tardi per fermare l’attacco». Il presidente ha affermato che eliminare Hamas era un «obiettivo degno», ma ha espresso la speranza che «questo sfortunato incidente possa servire come un’opportunità per la PACE».   Da allora Trump ha parlato con Netanyahu, che gli ha detto di voler fare la pace, e con i leader del Qatar, che ha ringraziato per il loro sostegno e ha assicurato che «una cosa del genere non accadrà più sul loro territorio».   La Casa Bianca ha definito l’attacco un incidente «sfortunato». Trump ha dichiarato di aver incaricato il Segretario di Stato Marco Rubio di finalizzare un accordo di cooperazione per la difesa con il Qatar, designato come «importante alleato non NATO».  

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  Nell’operazione circa 15 aerei da guerra israeliani hanno sparato almeno dieci munizioni durante l’operazione di martedì, uccidendo diversi membri di Hamas, tra cui il figlio dell’alto funzionario Khalil al-Hayya. Hamas ha affermato che i suoi vertici sono sopravvissuti all’attacco, descritto come un tentativo di assassinare i negoziatori impegnati a raggiungere un possibile accordo. L’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha insistito sul fatto che l’attacco ad Hamas in Qatar è stato un’azione unilaterale e che nessun altro paese è stato coinvolto nell’operazione.   «L’azione odierna contro i principali capi terroristi di Hamas è stata un’operazione israeliana del tutto indipendente. Israele l’ha avviata, Israele l’ha condotta e Israele si assume la piena responsabilità», si legge in una nota.   Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha condannato l’attacco israeliano definendolo una «flagrante violazione della sovranità e dell’integrità territoriale del Qatar». «Tutte le parti devono impegnarsi per raggiungere un cessate il fuoco permanente, non per distruggerlo», ha detto ai giornalisti.  

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Geopolitica

Lavrov: la Russia non ha voglia di vendetta

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La Russia non ha intenzione di vendicarsi dei paesi occidentali che hanno interrotto i rapporti e fatto pressioni su Mosca a causa del conflitto in Ucraina, ha affermato il ministro degli Esteri Sergej Lavrov.

 

Intervenendo lunedì all’Istituto statale di relazioni internazionali di Mosca, Lavrov ha sottolineato che la Russia non intende «vendicarsi o sfogare la propria rabbia» sulle aziende che hanno deciso di sostenere i governi occidentali nel loro tentativo di sostenere Kiev e imporre sanzioni economiche a Mosca, aggiungendo che l’ostilità è generalmente «una cattiva consigliera».

 

«Quando i nostri ex partner occidentali torneranno in sé… non li respingeremo. Ma… terremo conto che, essendo fuggiti su ordine dei loro leader politici, si sono dimostrati inaffidabili», ha affermato il ministro.

 

Secondo Lavrov, qualsiasi futuro accesso al mercato dipenderà anche dalla possibilità che le aziende rappresentino un rischio per i settori vitali per l’economia e la sicurezza della Russia.

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Il ministro ha sottolineato che la Russia è aperta alla cooperazione e non ha alcuna intenzione di isolarsi. «Viviamo su un piccolo pianeta. Costruire i muri di Berlino è stato in stile occidentale… Non vogliamo costruire alcun muro», ha affermato, riferendosi al simbolo della Guerra Fredda che ha diviso la capitale tedesca dal 1961 al 1989.

 

«Vogliamo lavorare onestamente e se i nostri partner sono pronti a fare lo stesso sulla base dell’uguaglianza e del rispetto reciproco, siamo aperti al dialogo con tutti», ha affermato, indicando il vertice in Alaska tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo statunitense, Donald Trump, come esempio di impegno costruttivo.

 

Il portavoce del Cremlino Demetrio Peskov ha dichiarato sabato che le aziende occidentali sarebbero state benvenute se non avessero sostenuto l’esercito ucraino e avessero rispettato gli obblighi nei confronti dello Stato e del personale russo, tra cui il pagamento degli stipendi dovuti.

 

Questo mese Putin ha anche respinto l’isolazionismo, sottolineando che la Russia vorrebbe evitare di chiudersi in un «guscio nazionale», poiché ciò danneggerebbe la competitività. «Non abbiamo mai respinto o espulso nessuno. Chi vuole rientrare è il benvenuto», ha aggiunto.

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Geopolitica

Museo dell’Olocausto ritira post perché leggibile come filo-Gaza

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Un museo dell’Olocausto di Los Angeles ha cancellato un post sui social media contenente uno slogan da tempo associato all’Olocausto, dopo che alcune persone hanno affermato che alludeva alla guerra di Gaza.   Il messaggio, condiviso con i 24.000 follower su Instagram dell’Holocaust Museum di Los Angeles nel fine settimana, mostrava un’immagine di mani e avambracci di diverse tonalità di pelle – tra cui una con un tatuaggio dell’Olocausto – uniti in un cerchio. La didascalia recitava: «Mai più non può significare solo mai più per gli ebrei».  

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Sebbene inizialmente alcuni abbiano elogiato il post come un riconoscimento delle sofferenze dei palestinesi, esso ha subito suscitato reazioni negative da parte dei gruppi ebraici, spingendone alla sua rimozione.   In seguito il museo ha affermato che il post faceva parte di una campagna pianificata in precedenza «intesa a promuovere l’inclusività e la comunità», non «una dichiarazione politica che riflette la situazione attuale in Medio Oriente».   Sebbene il post non menzionasse Gaza, alcuni commentatori filo-israeliani hanno esortato i donatori a tagliare i finanziamenti all’istituzione. La rimozione del post, a sua volta, ha portato voci filo-palestinesi ad accusare il museo di fare marcia indietro su un principio universale anti-genocidio.  
 
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Un post condiviso da Holocaust Museum LA (@holocaustmuseumla)

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Il museo di Los Angeles, fondato nel 1961 dai sopravvissuti all’Olocausto, è attualmente chiuso per ristrutturazione fino a giugno 2026. Si è impegnato a «fare meglio» e a garantire che i post futuri siano «progettati in modo più attento».   Si tratta di un caso di fulminea rieducazione infraebraica non dissimile a quello capitato, alle nostre latitudini, allo storico universitario Ariel Toaff, figlio del notissimo rabbino romano Elio Toaff, il cui libro sul sacrificio rituale ebraico fu ritirato rapidamente dalle librerie per uscire in una versione «potata».

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Immagine di Lamoth via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported  
 
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