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Economia

Da cittadini a consumatori. Da consumatori a schiavi

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C’è un signore quasi 80enne a cui voglio bene che mi chiama spesso per risolvergli alcuni problemini informatici. Non che sia un esperto, ma ambedue sappiamo che il fatto che appartengo alla generazione successiva alla sua aiuta.

 

Praticamente tutte le volte ho risolto; inutile nascondere che un’ampia porzione di chiamate riguardavano il pezzo di hardware più delicato e irrazionale: la stampante. Un oggetto a suo modo carico di significati: abolito oramai nelle case di chi ha meno di quaranta anni ma irrinunziabile per i più anziani, è l’unica parte del computer che fa qualcosa di fisico, produce documenti di carta, materia, roba.

 

La sua storia economica stupisce ancora: la stampante è un piccolo robot in grado di eseguire movimenti micrologici in velocità pazzesca, tuttavia costa poco, talvolta pochissimo – molti ricordano quando invece il prezzo era esorbitante, al punto che si portavano i file in copisteria. Poi, con la realizzazione che il danaro vero stava nella rivendita delle cartucce, la printer vide il suo prezzo precipitare.

 

La vecchia stampante a getto d’inchiostro dava problemi al mio amico. Alla seconda cartuccia cambiata, gli ho detto che probabilmente il problema era nella stampante, e visto che non veniva rilevato dalla macchina, forse era il caso di cambiarla – ripararla? No. Con quello che costano

 

Incaricato della missione, gli trovo nel giro di 24 ore una stampante laser stupenda. Piccolina, semplice fino al minimalismo. un design che viene voglia di piazzarla in mostra sulla mensola della sala da pranzo come un vaso cinese, emana perfino un lucore perlaceo azzeccatissimo, come i primi Mac, forse meglio ancora.

 

Eccomi quindi pronto ad eseguire l’installazione. Attacca il computer, attacca la corrente, collega la USB (a dire la verità, la presa è un po’ nascosta…). Fai una stampa di prova.  Ze-ze-ze-ze-ehmmmm. Fanne un’altra. Zin-zin-uuunnn. Il suono della stampa cibernetica dà gioia. Fai una prova della funzione fotocopia. Clic. Uhm-Uhmm-ze-ze-ze-zeeeem. Tutto perfetto. Buonanotte.

 

Il giorno dopo tuttavia, mi richiama. Si vergogna un po’ a dirlo, visto lo sforzo che ho fatto, e la paura di sembrare invadente. La stampante non va.

 

Trovato il tempo di visitarlo, mi rendo conto che non è un problema di software (disinstallare la precedente, mettere la presente come stampante principale: pensavo fosse semplicemente quello). Seguo le istruzioni, mi infilo nell’applicazione della casa madre. Non trovo soluzione.

 

Un segno inquietante lampeggia sulla stampante, come fosse in Stato di errore. L’errore, però, non si trova – in realtà non c’è.

 

La stampante in realtà funziona: trovato il modo di fare stampe di prova in automatico, mi esce una paginata che dice che la stampante è bloccata, deve essere configurata. Configurata? Lo è. L’ho fatto ieri. Leggo meglio: bisogna collegarla al WiFi, altrimenti non va.

 

A questo punto mi convinco che si tratti di un piccolo, innocente errore del produttore – una rinomatissima multinazionale. Si tratterà solo di disattivare qualcosa, dire alla stampa che non mi interessa il WiFi, che a casa del signore 80enne non c’è ed è pure giusto così. Voglio solo che la stampante continui a stampare come ha fatto nei primi giorni, quando abbiamo prodotto almeno una dozzina di stampe, tra prove e documenti medici vari. Non è che ci vuole molto: ci sarà uno switch da qualche parte, un comando che posso dare dal software per dire che salto l’installazione della rete nel dispositivo, il WiFi nella macchinetta non ce lo voglio, in verità neanche lo ho.

 

Le istruzioni, sia quelle di carta ancora incellofanate nella scatola sia quelle online del sito del produttore, non aiutano nemmeno alla lontana. Cerco un tutorial su YouTube. Qui mi viene rivelato l’orrore: altri hanno avuto il mio stesso problema. E il motivo è semplice: la nostra stampante funziona solo con il WiFi. Cioè: se non esegui quel passaggio – connettere in rete per sempre la periferica – non puoi utilizzarla in altro modo, neanche se ti ha appena dimostrato che con il cavo va.

 

Un tizio su YouTube dice che è proprio così, e quello che è peggio è che il software per fare la registrazione – perché oltre che la macchinetta in rete vogliono, ovvio, che tu ti faccia un account sulla loro piattaforma – non funziona bene, né sul PC né sul telefono. Sotto vi sono decine di commenti, tutti concordano. Anche a me è capitato. È incredibile. È spazzatura. Avidi. Non comprerò mai più qualcosa con quel marchio. Un diluvio.

 

A quel punto, confesso, sono talmente scioccato da essere incredulo. Non mi resta che provare l’elemento più raro e difficile dei problemi informatici: l’assistenza umana. Chiamo un numero, una voce di androide mi dice che potrebbero rispondermi da fuori della UE, e se non mi va bene devo dirlo a chi mi risponderà («Buongiorno, non voglio parlare con Lei, è un extracomunitario» – chiaro che si tratta dell’ennesima legge europea allucinante che bisogna rispettare, come il GDPR, fatto da qualcuno che non si rendeva conto di quanto stava complicando la vita alle persone normali, o forse implementato proprio per questo). Poi un «menu» vocale, dove nessuna delle tre opzioni è la mia, che è anche piuttosto semplice: problema alla stampante, fatemi parlare con qualcuno.

 

Alla fine, tuttavia, mi rispondono, e perfino dall’Italia. Il tono del signore passa dal gentile, allo stupito, infine all’imbarazzato. Mi conferma che sì, la stampante va solo se mettiamo il WiFi.

 

«Ma come, ha stampato fino a poco fa usando solo il cavo USB… in casa il WiFi non c’è» gli dico sperando che la logica si abbatta su di lui e sulla sua multinazionale in modo che mi diano ragione.

 

«No. È pensata solo per andare in WiFi. La stampante consente di fare solo un numero di stampe via cavo al momento dell’installazione. Poi basta».

 

Sono basito. Resto qualche secondo in silenzio, fino al momento in cui realizzo che potrei star creando disagio.

 

Il tizio è cortese, mi dice che potrebbe forse mandarmi una stampante a cavo usata, forse pagando qualcosa. Saluto. Riattacco. La stampante, bella ed elegante, finisce re-inscatolata immantinente. Raus. Reso.

 

Il lettore che è arrivato fin qui, si chiederà come mai abbia raccontato una storia così minimale, comune. Per una volta non si parla di guerra atomica, demoni irati, geopolitiche abissali, programmi di sterminio. Parliamo di stampanti che non vanno, sì: perché questa storia ha in sé un significato spaventoso.

 

La realtà del problema era di non difficile comprensione: la stampante poteva tranquillamente essere usata con il cavo, come aveva dimostrato di poter fare, ma la funzione veniva bloccata dal software del produttore, che così ti obbligava a collegare in rete la tua stampante – in modo che la multinazionale avesse informazioni costanti sullo stato del prodotto che hai comprato.

 

Perché? Perché la prima cosa che trovavi aprendo la scatola era una brochure, il cui contenuto era ripetuto in un adesivo che copriva il muso della stampante, su un servizio di consegna automatica delle cartucce: stai per finire il toner, e automaticamente ti arriva a casa, perché il produttore controlla, grazie al fatto che hai connesso il WiFi, quanto ti manca e fa scattare una spedizione al momento del bisogno. Mica una brutta idea: di fatto, prima della disavventura, avevo pensato addirittura che potevo abbonare il signore mio amico.

 

Al momento della configurazione poi potrebbe venire chiesta l’email, viene creato un profilo nel database della grande azienda, forse viene chiesta, ineludibilmente, la carta di credito. Del resto, l’offerta è quella di iniziare con il programma di sostituzione automatica delle cartucce con una cifra irrisoria, che però va corrisposta – di modo che poi hanno, oltre che il tuo recapito fisico ed elettronico, anche il numero con cui farti fare strisciate cicliche.

 

La stampante, comprata come un oggetto, una commodity, è divenuta solo un’esca per captare dati e abbonamenti, una propaggina fatta di atomi della subscription economy.

 

Il fatto è che non è che hai alternativa: o fai come dicono loro, o la stampante che hai appena comprato non va, non vale più nulla per te, è inservibile. Non credo che tanti, davanti ad un bivio del genere, possano aver fatto la mia scelta – rimpacchetto tutto e arrivederci. Tutti vengono tranquillamente obbligati a seguire la direttiva che porta esattamente dove vuole il grande ente.

 

Alzi la mano chi non si è trovato, almeno una volta, davanti a una richiesta proveniente dal sistema operativo, dai social, da qualche altro software dove di fatto non vi era altra scelta che schiacciare «Continua», «Accetta» o una cosa così. Nel gergo del web li chiamano dark pattern. L’utente è portato a compiere azioni perché non vi è altra opzione possibile, non un «Declina» o un «Cancella», talvolta nemmeno il tasto X per chiudere, la finestra. Devi fare quello che ti dicono: punto.

 

Forse a qualcuno comincia a suonare qualche campanello, e comincia a capire dove voglio arrivare.

 

Se mi obblighi a fare qualcosa che non voglio, perché non mi dai scelta, di fatto mi stai privando della libertà, oltre che di diritti codificati nella Carta costituzionale e nei vari codici che regolano il commercio e le relazioni umane.

 

Una volta eravamo cittadini, cioè latori di diritti, espressi in regole che fondano lo Stato stesso. Il cittadino dotato di diritti gode di determinati poteri: pensate all’habeas corpus. Il cittadino, quindi, riconosceva l’importanza collettiva delle istituzioni, di cui aveva rispetto (pensate al fatto che tutti, un tempo, si vestivano bene per andare a votare).

 

Il cittadino, dimentico degli orrori del mondo senza regole – quello delle guerre, dei collassi nazionali, delle crisi sacrificali della società – ben presto ha cominciato a percepire come garantiti quei diritti, al punto da permettersi perfino di ignorarne l’esistenza.

 

Con l’avvento della prosperità del dopoguerra è divenuto sempre più evidente che il cittadino, in cui era accresciuto un nuovo potere – il potere di acquisto – si stava trasformando in qualcos’altro: un consumatore. Anche lo Stato in qualche modo lo riconosce: elementi necessari alla vita come l’acqua, il gas e l’elettricità non sono erogati al cittadino, ma all’utenza, cioè al consumatore.

 

Il consumatore in realtà ha con i grandi marchi dell’industria che lo rifornisce un rapporto migliore di quello che ha con lo Stato. Morto ogni sentimento nazionale e considerato perfino pericoloso il nazionalismo, lo Stato è percepito come qualcosa che non ti puoi scegliere, e che quindi che può cozzare contro la tua felicità personale, perché, secondo la logica liberal-utilitarista, è buono e giusto solo ciò che si può scegliere (comprese le cose ultime: genere sessuale, bambini, morte, etc.)

 

Quindi, i grandi brand godono del favore del cittadino-consumatore più ancora dello Stato-nazione o quel che ne rimane. Alcuni sociologi hanno ipotizzato che i grandi marchi hanno preso il posto delle realtà sociali che, assieme ai loro simboli, sono retrocesse nella vita delle persone: la religione, la politica o anche l’esercito.

 

Di fatto, la felicità del popolo dei consumatori è evidente soprattutto in estate durante i mega-concerti di rock e dintorni: fenomeni di ritrovi di massa per chi consuma lo stesso prodotto, che in questo caso è un cantante famoso. Il fenomeno dei biker, è qualcosa di diverso? No: tendenzialmente è l’espressione orgogliosa di consumatori organizzati – gli eventi dei Ducatisti fanno arrivare talmente tante persone che le moto, come cavallette, possono intasare l’uscita dell’autostrada.

 

Chi non ha un amico patito di Apple, con qualche cimelio in casa, e magari l’adesivo con la mela esibito tamarristicamente sul culo dell’auto? Chi non conosce un esempio di sostenitore zelota della Nintendo? Ci sono perfino, e non sono pochi, i fan della Coca-cola: non solo la bevono, collezionano le lattine, hanno in casa i poster.

 

I consumatori hanno prosperato, più felici – in teoria – che mai, per decenni. Sceglievano l’istituzione cui obbedire, la grande realtà che era possibile perfino amare. Perché il brand, cioè la grande industria che ti fornisce l’oggetto di consumo, a sua volta rispettava i suoi consumatori, financo li riamava, sotto forma di prodotti soddisfacenti. Lo insegnavano nei corsi di marketing: il vertice della piramide è quando la sola visione del marchio stimola sensazioni positive nel consumatore, proprio come in un rapporto amoroso.

 

Ora è divenuto chiaro che anche l’era del consumatore è finita. I grandi soggetti economici non cercando più un rapporto con l’utente: ne cercano il controllo. La tecnologia cibernetica lo rende possibile. I dati che lui stesso fornisce, oltre che il suo recapito, rende possibile di comandarlo e tracciarlo – non devo più trovare il cliente, non devo fare in modo che venga da me, so già dove si trova, di cosa ha bisogno, conosco le modalità in cui posso insistere per prendermi il suo danaro.

 

Come per quanto la relazione tra Stato e cittadino: non è più un rapporto, è una sottomissione. Non c’è più la collaborazione, c’è il controllo. Non c’è lo scambio, c’è la sorveglianza.

 

Da una visione personale del marketing – che faceva uso di psicologia sociale, sociologia e altre scienze umane – siamo passati alla meccanica impersonale del digitale, dove è possibile controllare, cioè sottomettere, il consumatore. E non c’è alternativa alcuna: ora si fa solo così, e le aziende che non spingono il consumatore negli imbuti della digitalizzazione cesseranno di esistere a breve – così ci ripetono.

 

Caro cliente, ci interessi solo se ci darai in continuazione i dati tuoi e della stampante che hai comprato, altrimenti la rendiamo inservibile. Ma mica è solo il caso della stampante.

 

Abbiamo detto dei dark pattern dei vari software, che aprono finestre di dialogo in cui puoi schiacciare solo quello che vogliono loro senza altra scelta. Uno di questi casi ha prodotto, nel mio piccolo, un effetto così grottesco che stava per entrare a latere di una causa in tribunale.

 

Ma pensate a come l’informatica, o meglio, l’Internet of Things – la connessione di ogni oggetto in rete, come da sogno espresso nei libri di Casaleggio – stia per cambiare radicalmente tutto: avrete sentito parlare delle auto che saranno in grado, nel caso saltiate una rate del leasing, di bloccarsi e magari di autosequestrarsi. Lo stesso, in verità, potrà dirsi possibile per ogni elettrodomestico, dal telefonino al bollitore del the, dalla TV alla lavatrice-smart: tutti dispositivi pronti per il credito sociale europeo, quello per cui perderai punto per mancata vaccinazione, per aver scritto qualcosa contro la politica del governo o aver espresso dubbi sulla beltà dell’immigrazione di massa e dell’Ucraina.

 

Ecco che anche il consumatore è finito: senza più i diritti del cittadino, e senza più nemmeno le gioie e le libertà del consumo, egli è divenuto un essere umano sprotetto e privo di scelta – cioè uno schiavo.

 

Abbiamo capito che tale trasformazione ulteriore della persona umana va bene alla massa: la pandemia è stata una grande ricerca di mercato per capire fino a dove potevano spingersi nell’implementare la nuova schiavitù, e si è capito che potevano arrivare perfino a livello subcellulare: la vaccinazione universale mRNA altro non è se non un grande dark pattern di estremo successo, quella cosa per cui dovevi farlo anche se non ti obbligavano, solo ti toglievano il lavoro e la vita sociale, il sostentamento e il senso di appartenenza alla società.

 

Milioni, forse miliardi, sono finiti nell’imbuto della siringa globale: sono entrati cittadini-consumatori, sono usciti schiavi.

 

Quindi, non ci sorprendiamo se anche le grandi aziende ora ci trattano come schiavi. È il paradigma mondiale che è cambiato: non siete più persone libere che hanno diritti inalienabili, siete utenti di una piattaforma cui possono essere concessi, in base a meccaniche premiali basate sul vostro comportamento, degli «accessi», che il potere più alto (che magari nemmeno è più umano: magari è un algoritmo) vi può assegnare e revocare come vuole.

 

L’arrivo del danaro programmabile CBDC, che qui prenderà la forma dell’euro digitale, lo sancirà una volta per tutte: potrete vivere fino a quando lo decideranno sopra. Poi, semplicemente, vi spegneranno.

 

Siamo soggetti, quindi – nel senso di sudditi, o anche meno di quello, perché il potere può esercitare su di noi capricci sempre più intollerabili.

 

Siamo solo degli schiavi, e oramai ve lo dice perfino la vostra stampante.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

P.S. Se volete sapere com’è finita la storia del signore: resa la printer-schiavitù, gli ho trovato, non senza difficoltà, una stampante che va solo a cavo. È enorme, scura, tozza, bruttissima. Ci ho messo un’ora ad installare il driver, che era fornito via disco (ricordate cosa è?) oppure si scaricava dal sito in un pratico file da 400 mega, praticamente Moby Dick. Però funziona tutto. La scomodità, si è capito, è la prima moneta che si deve pagare se si vuole mantenere la libertà.

 

P.P. S. Full disclosure: lo scrivente è ducatista, nintendista, possessore di vari prodotti Apple, bevitore, con moderazione e anche no, di Coca-cola. Ammetto tutto. Ma niente raduni, collezionismi eccessivi, adesivi deturpanti nel didietro della macchina, peraltro già gravemente segnato dalla grandine.

 

 

 

Economia

Le Filippine approvano una nuova criptovaluta per agevolare le rimesse dall’estero

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

La Banca Centrale delle Filippine ha dato l’approvazione per il lancio di PHPC, una stablecoin agganciata al peso filippino in modo da ridurne la volatilità. La piattaforma Coins.ph punta a raggiungere tra i 20 e i 30mila utenti nel primo mese. Sono circa 10 milioni i lavoratori all’estero che con la nuova moneta digitale sperano di abbattere i costi di transazione.

 

Le Filippine hanno approvato l’emissione di un nuovo tipo di criptovaluta, una stablecoin (letteralmente: «moneta stabile») chiamata PHPC che sarà ancorata al peso filippino. Una risorsa che potrebbe abbattere i costi di transazione nell’invio delle rimesse da parte dei filippini che vivono all’estero.

 

A differenza delle criptovalute «tradizionali», infatti, il valore delle stablecoin è legato a quello di un asset di riserva stabile. In questo modo la volatilità è ridotta, o meglio, è più prevedibile e misurabile. (…)

 

Dopo aver ricevuto il via libera dalla Bangko Sentral ng Pilipinas – la Banca centrale – la principale piattaforma di blockchain del sud-est asiatico, Coins.ph, ha annunciato di essere pronta a emettere la criptovaluta PHPC entro l’inizio di giugno per provare a raggiungere, nel primo mese, dai 20 ai 30mila utenti.

 

Uno degli utilizzi principali per cui è stata pensata la nuova moneta digitale è l’invio di rimesse da parte dei filippini che vivono all’estero, pari a circa 10 milioni in tutto il mondo. Rispetto agli altri canali, come le banche o i cosiddetti «pera padala», enti finanziari locali, l’invio di rimesse tramite criptovalute è più economico e disponibile 24 ore su 24.

 

La diaspora filippina ha finora utilizzato le stablecoin agganciate al dollaro statunitense, dovendo quindi pagare una serie di tariffe per la conversione in pesos. Con la PHPC questi costi di transazione verrebbero eliminati: «il parente che riceve il denaro non dovrà più convertire i dollari in pesos», ha commentato Wei Zhou, amministratore delegato di Coins.ph, spiegando che da circa un anno il progetto era in discussione con la Banca centrale delle Filippine.

 

Zhou ha aggiunto che la nuova stablecoin delle Filippine verrà resa disponibile anche in altri exchange di criptovalute (le piattaforme online per il trading), in modo che diventi accessibili anche su altri mercati e permetta l’invio di rimesse da tutto il mondo.

 

«Si può immaginare che se la PHPC è quotata sui nostri exchange di criptovalute partner, ad esempio in Australia, o a Singapore, o negli Stati Uniti, allora i nostri familiari e possono acquistare la PHPC e inviarla direttamente ai portafogli di Coins.ph», ha commentato Zhou.

 

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Immagine di jopetsy via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

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Alimentazione

La sinistra tedesca vuole un tetto massimo per il prezzo del kebab

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Die Linke, il partito della sinistra tedesca ha proposto allo Stato di sovvenzionare i kebab con quasi 4 miliardi di euro all’anno. Negli ultimi anni l’inflazione e l’aumento dei costi energetici hanno quasi raddoppiato il prezzo dello popolare panino turco. Sono i grandi temi della sinistra moderna.   In un documento politico visionato dal tabloid tedesco Bild e riportato domenica, Die Linke ha proposto di limitare il prezzo di un doner kebab a 4,90 euro o 2,50 euro per studenti, giovani e persone a basso reddito. Con un costo medio di un kebabbo pari a 7,90 euro, il resto del conto sarà a carico del governo, si legge nel documento.   «Un limite di prezzo per il kebab aiuta i consumatori e i proprietari dei negozi di kebab. Se lo Stato aggiungesse tre euro per ogni kebab, il prezzo massimo del kebab costerebbe quasi quattro miliardi», scrive il partito sul giornale, spiegando che ogni anno in Germania si consumano circa 1,3 miliardi di kebabbi.   «Quando i giovani chiedono: Olaf, riduci il kebab, non è uno scherzo su Internet, ma un serio grido d’aiuto», ha detto alla Bild la dirigente del partito di sinistra Kathi Gebel, riferendosi al cancelliere tedesco Olaf Scholz. «Lo Stato deve intervenire affinché il cibo non diventi un bene di lusso».   Introdotto in Germania dagli immigrati turchi negli anni ’70, il doner kebab è diventato in pratica la forma di fast food preferito dalla nazione già teutonica, tracimando anche nel resto d’Europa, come in Italia, dove più che turchi i kebabbari sono nordafricani o talvolta pakistani.

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Tuttavia, mentre Die Linke descrive il panino con l’agnello carico di salsa come un alimento base quotidiano per alcune famiglie, la maggior parte dei medici e dei nutrizionisti ne consiglierebbe il consumo solo come spuntino occasionale.   Uno studio scozzese del 2009 ha rilevato che il doner kebab medio conteneva il 98% dell’assunzione giornaliera raccomandata di sale di un adulto e il 150% dell’assunzione raccomandata di grassi saturi, scrive RT.   Per anni in Germania il prezzo di un doner kebab si è aggirato intorno ai 4 euro. Tuttavia, l’aumento dei costi energetici e l’inflazione che hanno seguito la decisione di Scholz di mettere l’embargo sui combustibili fossili russi hanno costretto i venditori ad aumentare i prezzi.   «Siamo stati costretti ad aumentare i prezzi a causa dell’esplosione dei prezzi degli affitti, dell’energia e dei prodotti alimentari», ha detto al giornale britannico Guardian un gestore di uno stand di kebabbi a Berlino. «La gente ci parla continuamente di “Donerflazione”, come se li stessimo prendendo in giro, ma è completamente fuori dal nostro controllo».   Molti tedeschi accusano lo Scholz di averli privati ​​della kebbaberia a buon mercato, una catastrofe che li spinge verso prospettive di pacifismo sul fronte russo. «Pago otto euro per un doner», ha urlato un manifestante a Scholz nel 2022, prima di implorare il cancelliere di «parlare con Putin, vorrei pagare quattro euro per un doner, per favore».   «È sorprendente che ovunque vada, soprattutto tra i giovani, mi venga chiesto se non dovrebbe esserci un limite di prezzo per il doner», ha osservato lo Scholzo in un recente video su Instagram. Tuttavia, il cancelliere ha escluso una simile mossa, elogiando invece il «buon lavoro della Banca Centrale Europea» nel presumibilmente tenere l’inflazione sotto controllo.   Kebabbari, kebabbani e kebabbati non sono gli unici tedeschi a soffrire sotto Scholz. Il mese scorso, il più grande produttore di acciaio tedesco, Thyssenkrupp, ha annunciato «una sostanziale riduzione della produzione» nel suo stabilimento di Duisburg, licenziando 13.000 dipendenti. L’azienda ha attribuito il calo di produttività agli «alti costi energetici e alle rigide norme sulla riduzione delle emissioni».   Meno di una settimana dopo l’annuncio dei tagli da parte della Thyssenkrupp, il Fondo monetario internazionale ha rivisto le prospettive di crescita economica della Germania dallo 0,5% allo 0,2% quest’anno. Secondo i dati, nel 2024 la Germania dovrebbe registrare la crescita più debole tra tutti gli stati appartenenti al gruppo G7 dei paesi industrializzati.   Riguardo al kebab, da decenni circola tra i giovani tedeschi la leggenda metropolitana secondo la quale in un singolo panino kebap sarebbe stata rivenuta una quantità di sperma da uomini differenti, a indicazione, secondo il significato certamente xenofobo della storia, del disprezzo degli immigrati per i cittadini tedeschi.

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Economia

La Turchia sospende ogni commercio con Israele

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Il governo turco ha sospeso tutti gli scambi con Israele in risposta alla guerra di Gaza, ha dichiarato il Ministero del Commercio di Ankara in una dichiarazione pubblicata giovedì sui social media.

 

La Turchia è stato uno dei critici più feroci di Israele da quando è scoppiato il conflitto con Hamas in ottobre. La sospensione di tutte le operazioni di esportazione e importazione è stata introdotta in risposta all’«aggressione dello Stato ebraico contro la Palestina in violazione del diritto internazionale e dei diritti umani», si legge nella dichiarazione.

 

Ankara attuerà rigorosamente le nuove misure finché Israele non consentirà un flusso ininterrotto e sufficiente di aiuti umanitari a Gaza, aggiunge il documento.

 

Israele è stato accusato dalle Nazioni Unite e dai gruppi per i diritti umani di ostacolare la consegna degli aiuti nell’enclave. I funzionari turchi si coordineranno con l’Autorità Palestinese per garantire che i palestinesi non siano colpiti dalla sospensione del commercio, ha affermato il ministero.

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La sospensione totale fa seguito alle restrizioni imposte il mese scorso da Ankara sulle esportazioni verso Israele di 54 categorie di prodotti tra cui materiali da costruzione, macchinari e vari prodotti chimici. La Turchia aveva precedentemente smesso di inviare a Israele qualsiasi merce che potesse essere utilizzata per scopi militari.

 

Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il governo turco ha imposto restrizioni alle esportazioni verso Israele per 54 categorie di prodotti.

 

In risposta alle ultime restrizioni, il ministero degli Esteri israeliano ha accusato la leadership turca di «ignorare gli accordi commerciali internazionali». Giovedì il ministro degli Esteri Israel Katz ha scritto su X che «bloccando i porti per le importazioni e le esportazioni israeliane», il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si stava comportando come un «dittatore». Israele cercherà di «creare alternative» per il commercio con la Turchia, concentrandosi sulla «produzione locale e sulle importazioni da altri Paesi», ha aggiunto il Katz.

 

 

Come riportato da Renovatio 21 il leader turco ha effettuato in questi mesi molteplici attacchi con «reductio ad Hitlerum» dei vertici israeliani, paragonando più volte il primo ministro Beniamino Netanyahu ad Adolfo Hitler e ha condannato l’operazione militare a Gaza, arrivando a dichiarare che Israele è uno «Stato terrorista» che sta commettendo un «genocidio» a Gaza, apostrofando il Netanyahu come «il macellaio di Gaza».

 

Il presidente lo scorso novembre aveva accusato lo Stato Ebraico di «crimini di guerra» per poi attaccare l’intero mondo Occidentale (di cui Erdogan sarebbe di fatto parte, essendo la Turchia aderente alla NATO e aspirante alla UEa Gaza «ha fallito ancora una volta la prova dell’umanità».

 

Un ulteriore nodo arrivato al pettine di Erdogan è quello relativo alle bombe atomiche dello Stato Ebraico. Parlando ai giornalisti durante il suo volo di ritorno dalla Germania, il vertice dello Stato turco ha osservato che Israele è tra i pochi Paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari del 1968.

 

Il mese scorso Erdogan ha accusato lo Stato Ebraico di aver superato il leader nazista uccidendo 14.000 bambini a Gaza.

 

Israele, nel frattempo, ha affermato che il presidente turco è tra i peggiori antisemiti della storia, a causa della sua posizione sul conflitto e del suo sostegno a Hamas.

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Immagine di Haim Zach / Government Press Office of Israel via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported 

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