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Il Celtic e le ragioni dei cattolici per detestare gli Windsor

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Renovatio 21 riprende dal sito di Aldo Maria Valli Duc in Altum questo articolo del dottor Paolo Gulisano. Al Celtic il dottor Gulisano aveva dedicato nel 2017 un intero libro, Il prodigio di Lisbona. Da una periferia scozzese alla Coppa dei Campioni passando per Fatima, di cui consigliamo la lettura. Sul caso dei tifosi del Celtic, non intenzionati a inchinarsi all’oscena incoronazione di Carlo di Windsor, come del resto anche i colleghi del Liverpool, Renovatio 21 ha pubblicato altri articoli, così come all’orrore della famiglia regnante in terra d’Albione e della sua storia di sangue, con la quale il presente re e i suoi figliuoli sono perfettamente in continuità.

 

 

Negli scorsi giorni, in vista della cerimonia di incoronazione del nuovo re d’Inghilterra Charles Mountbatten-Windsor, è diventato virale in rete un video della semifinale della Coppa di Scozia di calcio tra i Rangers e i Celtic di Glasgow, in cui i tifosi biancoverdi intonano a tutta curva un coro che invita il sovrano a cacciarsi la sua incoronazione in un posto dove non batte il sole.

 

Il video ha avuto decine di migliaia di visualizzazioni, e ha fatto parlare di sé. Qualcuno l’ha considerata una goliardata, altri un’espressione della subcultura da stadio, altri si sono sentiti offesi per un gesto ritenuto volgare da parte di una tifoseria nota per essere tra le più corrette, pacifiche e simpatiche del mondo.

 

Ma perché i tifosi della squadra di Glasgow nata in seno alla comunità cattolica della città scozzese, fondata da un religioso irlandese, fratello Walfrid, ce l’hanno tanto con la Corona britannica?

 

E perché poi mischiare la politica con lo sport?

 

In realtà, il gesto dei tifosi biancoverdi ha ragioni profonde che stanno nella storia delle Isole britanniche, politica compresa.

 

Il Celtic viene fondato, come si diceva, da un religioso che era un insegnante, ma che nella sua scuola di Glasgow di bambini ne vedeva davvero pochi, perché fin da piccoli venivano avviati ai lavori più duri nelle fabbriche e nelle miniere. Per la maggior parte i cattolici di Glasgow erano immigrati irlandesi. I cattolici autoctoni scozzesi avevano da tempo subito una persecuzione che li aveva uccisi, o costretti a passare al protestantesimo, o deportati nelle colonie americane.

 

C’era stato un vero e proprio tracollo demografico, ma la crescente rivoluzione  industriale aveva bisogno di braccia, di forza lavoro a bassissimo costo per fare le fortune dell’Impero britannico, e così migliaia di poveri irlandesi erano giunti nelle principali città britanniche, spinti anche dal genocidio perpetrato a metà dell’Ottocento: una spaventosa carestia, dietro la quale c’erano precise responsabilità del governo inglese, aveva provocato la morte di un milione di persone, in un Paese di otto milioni di abitanti. E un altro milione era stato costretto a emigrare.

 

Questo disastro umanitario era avvenuto senza che il governo di Sua Maestà aiutasse i suoi sudditi irlandesi; e la sua maestà del momento, la regina Vittoria, non si scompose di fronte alle notizie che provenivano dall’Isola di San Patrizio. In fondo, era opinione comune che quegli irriducibili papisti avevano avuto quel che si meritavano.

 

E così a Glasgow gli irlandesi vivevano in quartieri poverissimi, flagellati dalla miseria, vessati e umiliati a ragione della loro fede cattolica. Fu in questo contesto che il buon fra Walfrid ebbe l’idea, nel novembre del 1887, di fondare una squadra di calcio, che giocasse partite il cui incasso sarebbe servito a organizzare mense per i poveri, e a fare in modo che bambini di sette-otto anni non fossero costretti a lavorare dodici ore al giorno senza poter andare a scuola.

 

Il nome che fu scelto fu Celtic perché esprimeva la comune radice celtica degli scozzesi autoctoni e degli immigrati irlandesi. I colori erano il bianco e il verde, il simbolo un quadrifoglio, ovvero il trifoglio di san Patrizio che rappresenta la Trinità, ma con una foglia ulteriore. Una foglia di speranza.

 

Quella squadra, nata come espressione di tre parrocchie, una sorta di «squadra dell’oratorio», ottant’anni dopo arrivò sul tetto d’Europa, conquistando la Coppa dei Campioni, e dando un pieno riscatto alla povera comunità presso la quale era nata. Il Celtic era entrato nella leggenda.

 

Ma a questo punto qualcuno si chiederà: perché tanto livore verso la Famiglia reale? Perché non accontentarsi (si fa per dire) di gioire dei tanti successi sportivi? Risposta: perché questa comunità ha perdonato, ma non dimentica.

 

La cosiddetta Famiglia reale inglese attuale discende da usurpatori che non avevano diritto a regnare né sulla Scozia, né sull’Irlanda, e neppure sull’Inghilterra. Alla morte della luciferina regina Elisabetta I, che non era semplicemente protestante ma una neopagana presso la cui corte c’erano negromanti e occultisti come John Dee, pirati come Francis Drake e sadici assassini come Francis Walsingham, il trono passò a un esponente della casata scozzese degli Stuart.

 

Giacomo VI di Scozia, e I di Inghilterra, figlio della regina martire Maria Stuarda, salì al trono, ma accettando di diventare protestante. Quando tuttavia suo nipote, Giacomo VII, decise di tornare alla Fede dei Padri, i potentati britannici iniziarono una guerra mortale per eliminare la casata degli Stuart. L’Inghilterra non avrebbe dovuto mai più avere sovrani cattolici.

 

Così il trono fu offerto prima a un principe olandese, Guglielmo d’Orange, e in seguito alla casa tedesca degli Hannover, da cui deriva l’attuale occupante di Buckingham Palace. Il quale ha anche usurpato il nome al vero Carlo III: l’ultimo Stuart a rivendicare il trono britannico fu il principe Charles Edward Stuart, nato in esilio a Roma, nelle cui vene scorreva il sangue della dinastia scozzese e per parte di madre quello dei sovrani polacchi Sobieski. Il suo bisnonno era stato il liberatore di Vienna dai turchi. Se Charles Stuart fosse diventato re, sarebbe stato lui Carlo III. Ma fu sconfitto, e la Scozia cattolica subì per ritorsione una spaventosa pulizia etnica.

 

Essere tifoso del Celtic vuol dire dunque avere nel cuore, nell’identità, il ricordo di secoli di persecuzioni, di ingiustizie, di violenze. Questo spiega la totale mancanza di simpatia per l’establishment britannico. Una simpatia che invece si riscontra in alcuni esponenti conservatori, e in modo piuttosto inverosimile, anche cattoconservatori.

 

Mesi fa, alla morte di Elisabetta, fu Roberto de Mattei a tessere lodi sperticate per la monarchia britannica, alla luce anche delle pompose manifestazioni pubbliche che avevano accompagnato la morte della sovrana. E il potere degli ermellini e delle spade ha conquistato anche un altro tory all’italiana, Marco Invernizzi, che ha scritto: «provate a dimenticare il re Enrico VIII, che per cambiare moglie creò una chiesa nazionale, dimenticate per un momento i tanti martiri cattolici durante la persecuzione della regina Elisabetta I. Mettete da parte l’anglicanesimo, il protestantesimo e gli scandali recenti della famiglia reale…».

 

Io ci ho provato, ma non ci riesco. Non riesco a dimenticare, a mettere da parte, come non ci riescono i tifosi del Celtic, e a ragione. Non sono aspetti secondari.

 

 

E perché mettere da parte tutto questo? Per guardare allo splendore paraliturgico della cerimonia? Ma tutta quella pompa non era altro che una parodia del sacro, una vuota rappresentazione.

 

Dietro le trine e i merletti, niente. Molti spettatori hanno osservato che la liturgia anglicana in fondo non è così diversa da quella che si celebra nelle nostre chiese. Quella che si celebra ora, si dovrebbe precisare, dopo la protestantizzazione degli ultimi sessant’anni.

 

Tra le cose che non si devono dimenticare c’è anche il fatto che la magnifica Abbazia di Westminster che ha fatto da sfondo alla Coronation era un tempo una abbazia cattolica, rubata dalla Corona britannica.

 

Mentre le chiese cattoliche venivano distrutte o in alternativa scippate dalla nuova Chiesa di Stato, i cattolici scendevano nelle catacombe, nella clandestinità. Solo nel 1829, tre secoli dopo, vennero abrogate le Leggi penali contro i cattolici, e solo nel 1850 la Chiesa cattolica in Inghilterra poté riorganizzarsi su base diocesana e parrocchiale, e vennero edificate nuove chiese, povere, senza apparenza di bellezza.

 

Fu in una di queste parrocchie che nacque il Celtic, come pure la squadra cattolica di Edimburgo, l’Hibernian, formazioni sostenute dall’amore dei loro tifosi, che in maniera magari poco raffinata hanno espresso anche adesso, efficacemente, secoli di sofferenze in qualche canto e in qualche striscione.

 

Da parte nostra, tutta la nostra simpatia per la causa che il Celtic rappresenta.

 

E in modo forse più sfumato, il nostro auspicio: God smash the King.

 

 

Paolo Gulisano

 

 

 

 

Immagine Debbie Mc via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

 

 

 

 

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Un libro-intervista in cui Leone XIV parla della Messa tradizionale

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18 settembre 2025, un libro-intervista con Elise Ann Allen, giornalista del sito web americano Crux, è stato pubblicato in Perù, dove il papa ha vissuto per quasi vent’anni. Il libro, intitolato León XIV: Ciudadano del mundo, misionero del siglo XXI (Leone XIV: Cittadino del mondo, missionario del XXI secolo), è stato scritto in inglese e tradotto in spagnolo per la pubblicazione da Penguin Perú.

 

Si prevede che seguiranno le edizioni in inglese e portoghese. Il libro si compone di due parti distinte: una biografia del Papa, che è la sezione più lunga, e un’intervista approfondita. La versione francese è stata pubblicata il 19 novembre.

 

In questa intervista, Leone XIV parla della Messa in latino e pone sullo stesso piano la Messa tridentina e la nuova Messa in latino: «C’è un’altra questione, anch’essa controversa, sulla quale ho già ricevuto diverse richieste e lettere: come fare riferimento sistematicamente al ritorno alla Messa in latino?» [TLM Traditional Latin Mass, secondo la formula anglo-americana, ma il Papa omette la T di tradizionale…].

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«Beh, potete celebrare la Messa in latino adesso. Se è il rito del Vaticano II, la Messa di Paolo VI, non c’è problema. Ovviamente, tra la Messa tridentina e la Messa del Vaticano II, la Messa di Paolo VI, non so dove ci porterà. È ovviamente molto complicato».

 

Il papa aggiunge che la questione della Messa è «polarizzante» o «divisiva»: «So che parte di questo problema, purtroppo, è legato – ancora una volta, un processo di polarizzazione – al fatto che alcuni hanno usato la liturgia come pretesto per promuovere altre questioni. È diventata uno strumento politico».

 

«Penso che a volte, diciamo, l'”abuso” della liturgia di quella che chiamiamo Messa del Vaticano II non abbia aiutato le persone che cercavano un’esperienza di preghiera più profonda, un contatto con il mistero della fede, che sembravano trovare nella celebrazione della Messa tridentina. Ancora una volta, ci siamo così polarizzati da sollevare questa questione invece di poter dire: “Bene, se celebriamo correttamente la liturgia del Vaticano II, trovate davvero una tale differenza tra questa esperienza e quella?”»

 

Questa polarizzazione deve essere superata, secondo Leone XIV, attraverso un approccio sinodale: «non ho ancora avuto l’opportunità di incontrare un gruppo di difensori del rito tridentino. L’opportunità si presenterà presto e sono certo che ci saranno occasioni per discuterne. Ma è un problema che credo dovremmo forse affrontare anche attraverso la sinodalità. È diventato un tema così polarizzato che spesso le persone sono riluttanti ad ascoltarsi a vicenda».

 

«Ho sentito vescovi parlarmene e dire: “Siete invitati a questo e a quello, e non volete nemmeno sentirlo”. Si rifiutano persino di parlarne. Questo è un problema in sé. Significa che ora siamo nel campo dell’ideologia; non stiamo più vivendo la comunione della Chiesa. Questo è uno dei temi all’ordine del giorno».

 

La Messa tridentina non è stata abolita

In risposta a queste sorprendenti osservazioni di Leone XIV, il giornalista Aldo Maria Valli ha scritto sul suo blog il 20 settembre: «il modo in cui ne parla e le prospettive che apre non possono tranquillizzare chi è fedele alla messa tradizionale e desidera frequentarla. Lascia perplessi che dica che la questione “non so dove andrà a finire” e che il tutto “è ovviamente molto complicato”».

 

«Essendo lui il papa, tocca proprio a lui dire dove si andrà. Non c’è niente di complicato. […] Leone riconosce che la messa riformata dal Vaticano II ha dato luogo ad “abusi” e che tutto ciò “non è stato d’aiuto a chi cercava un’esperienza di preghiera più profonda, di contatto con il mistero della fede” Quindi riconosce che ci sono stati abusi e, implicitamente, che la messa riformata fornisce un’esperienza meno profonda e con minor contatto con il mistero della fede».

 

«Subito dopo però lascia intendere che se la messa riformata viene celebrata “in modo appropriato”, tutto sommato va bene così e non ci dovrebbe più essere “polarizzazione”. Affermazione sconcertante, perché qui non si tratta di accontentarsi di una celebrazione “appropriata” del novus ordo (e poi: che cosa significa “appropriata”), ma di riconoscere che il vetus ordo non è masi stato revocato e va quindi celebrato».

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Una (dis)soluzione sinodale per la Messa tridentina?

Riguardo alla sinodalità, che sembra essere una panacea, l’esperto del Vaticano osserva: «il papa riferisce di non aver avuto ancora il modo di incontrare persone che sostengono il rito tridentino ma, dice, ‘presto si presenterà un’opportunità di sedersi e parlare’. Molto bene. Ma quando dice ‘”orse con la sinodalità” mette i brividi a chi è fedele alla messa tradizionale. Con la sinodalità non si risolverà un bel niente e ci si avviterà in un dibattito infinito. Lui è il papa, tocca a lui decidere e non c’è sinodalità che tenga».

 

«Sedersi e discutere “in un contesto sinodale” non è il metodo della santa Chiesa cattolica. È il metodo assembleare che la Chiesa ha fatto proprio prendendolo dal mondo e che la riduce a una caricatura della democrazia politica. Un metodo che, quando va bene, fa nascere una serie infinita di equivoci e quando va male tradisce apertamente la fede».

 

E poi, affrontando il problema fondamentale: «insinuare che la questione sia del tutto aperta e che vada affrontata con una discussione sinodale significa anche ignorare che la messa tridentina – codificata da san Pio V dopo il Concilio di Trento, ma ben più antica nella sua essenza – non è mai stata abrogata. Papa Benedetto XVI lo ha affermato in Summorum Pontificum e nessuno può smentirlo».

 

«Ai fedeli è stato detto chiaramente: ciò che è stato sacro e grande per le generazioni passate rimane sacro e grande anche per noi, e non può essere improvvisamente proibito o ritenuto dannoso. Questa è una verità di fatto, non una questione di gusto personale o di sperimentazione sulla quale occorre discutere. Questione ‘molto complicata’? No. Diventa complicata solo se non la si vuole risolvere. L’appello alla sinodalità è una scorciatoia ambigua che non fa onore al papa».

 

«La liturgia non può essere soggetta al voto della maggioranza dei vescovi e di un gruppo di laici. Non è una moda che ha bisogno di consenso culturale. La Chiesa trasmette oggettivamente ciò che ha ricevuto, non ciò che elabora attraverso un comitato di gestione. Il culto di cui la Chiesa è chiamata a essere custode non è soggetto a negoziazione, revisione o compromesso. Se si ragiona così si cade nello storicismo e nel relativismo».

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Nessun dibattito, ma giustizia per la Messa latina tradizionale

Aldo Maria Valli esprime il suo sgomento: «quando il papa dice di non sapere dove la questione “andrà a finire” proviamo inquietudine e tristezza. Inquietudine, perché vediamo che la nostra casa spirituale ci potrà essere negata in qualsiasi momento. Tristezza, perché vediamo un Pietro che abdica al suo ruolo e ai suoi doveri. La Chiesa insegna che la liturgia è un veicolo di dottrina e che il modo in cui preghiamo plasma ciò in cui crediamo. Qui invece sembra che tutto sia ridotto a questione di gusti, una mera faccenda estetica».

 

«I cattolici che amano la tradizione non chiedono un dibattito. Chiedono giustizia. Giustizia per la liturgia che non è mai stata abrogata, giustizia per le comunità che sono fiorite grazie a essa, giustizia per i santi e i martiri che l’hanno celebrata per secoli, giustizia per i fedeli che si vedono messi da parte e guardati come se fossero un pericolo. Di chiacchiere ne abbiamo già fin troppe».

 

«Il papa deve solo dire: “Questa messa è la vostra eredità. Vi appartiene. Nessuno può portarvela via”. Ma non lo dice. La Chiesa ha bisogno di tutto tranne che di nuove dosi di ambiguità. Se ciò che era sacro ieri rimane sacro oggi e sarà sacro domani, occorre solo riconoscere questa verità. Lo si vuole fare?»

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Scoperti nuovi testi «pornografici» del cardinale Fernandez

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Il sito web cattolico argentino El Wanderer ha riportato ulteriori oscenità erotiche del cardinale Victor Manuel «Tucho» Fernández, prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF) — precedentemente Congregazione per la Dottrina della Fede — descrivendo il materiale appena scoperto come «non solo pornografico ma anche detestabile». Lo riporta LifeSite.   I testi erotici «disgustosi» sono in linea con i libri di «teologia» su bacio e orgasmo precedentemente noti del vertice della DDF, che utilizzavano linguaggio ritenuto pornografo.   In uno dei libri appena scoperti, ¿Por qué no termino de sanarme?, pubblicato nel 2002 dalle edizioni San Paolo in Colombia, Fernández scrive:

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«Un corpo può essere sorprendente se vestito in modo appropriato: abiti che risvegliano la sensualità accentuando curve interessanti, in base alla forma del corpo. La sensualità di spalle e braccia abbronzate è enfatizzata da una t-shirt. L’eleganza è messa in risalto, nascondendo eventuali chili di troppo con un gilet nero e maniche bianche. Un collo scoperto diventa più seducente con una collana delicata; e così via. Se, in un momento di insoddisfazione, quando si ha bisogno di trovare qualcosa da attendere con ansia o da godere, un corpo può apparire impressionante, meraviglioso, indispensabile, allora un corpo può apparire come qualcosa di mozzafiato, meraviglioso, indispensabile».   Epperò il futuro cardinale si lamenta: «Ma poi, con la routine e scoprendo altri corpi diversi, ci si rende conto che quella massa di carne non era niente di straordinario, che ha imperfezioni, mancanze e dolori come tutti i corpi, che si deteriora e perde il suo fascino con il passare del tempo».   In un secondo libro, intitolato Teología espiritual encarnada. Profundidad espiritual en acción (2005), pubblicato anche questo dalle già Edizioni Paoline ma in Argentina, il Fernandezzo scrive:   «Consiste nell’eseguire la scansione dell’intero corpo, prestando la massima attenzione a un organo alla volta. È molto importante notare che non si tratta di “pensare” a quell’organo, immaginarlo o visualizzarlo. Si tratta più precisamente di “sentirlo”, percepirlo con i sensi. Si tratta di sperimentare con calma le sensazioni di ciascun organo, senza giudicare se siano positive o negative, ma piuttosto cercando di permettere all’organo di rilassarsi e allentare la tensione. È meglio procedere più o meno in questo ordine: mascella, zigomi, gola, naso, occhi, fronte (e tutti i piccoli muscoli facciali che si possono percepire), cuoio capelluto, collo e nuca, spalle. Si prosegue con il braccio destro, il polso e la mano destra; il braccio sinistro, il polso e la mano sinistra. Quindi si passa alla scansione della schiena. Si prosegue con: torace, addome, vita, fianchi, bacino, glutei, genitali, gamba destra, gamba sinistra, piede destro, piede sinistro. La chiave è soffermarsi lentamente su un punto alla volta, senza lasciare che l’immaginazione si disperda su un altro organo o su un’altra idea, finché non sentiamo che tutto il corpo ha la stessa tonalità. Non c’è fretta».   In un terzo testo discusso da El Wanderer, Para liberarte de la ansiedad y de la impaciencia (pubblicato sempre dalle Paoline argentine nel 2009), il porporato ha utilizzato ancora una volta l’immagine dell’orgasmo per descrivere momenti in cui la vita è «vissuta al massimo»:   «Quando possiamo fermarci e un oggetto o una persona cattura la nostra piena attenzione per un istante, quell’istante è vissuto appieno. Quando tutto il nostro essere è unificato in un’unica direzione, allora realizziamo un vero incontro, una fusione, un’unione perfetta, anche se solo per pochi minuti. Questo non significa necessariamente immobilità fisica, perché questa esperienza può verificarsi anche durante l’eccitazione di un’attività intensa. Questo accade, ad esempio, durante un orgasmo tra due persone che si amano».

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«Una persona – un sacerdote, un vescovo e un cardinale, per giunta – capace di pensare, scrivere e pubblicare paragrafi così apertamente pornografici ha un serio problema», commenta El Wanderer. «Ed è proprio questo problema, tra le altre ragioni, che spiega perché sia ​​stato l’autore di Fiducia Supplicans», che consente la benedizione «non liturgica» delle «coppie» irregolari e omosessuali.   «Quel documento maledetto ha suscitato non solo un’enorme confusione all’interno della Chiesa, ma anche uno scandalo e un dolore incommensurabili tra i fedeli», ha dichiarato l’ autore di El Wanderer.   «Il problema del cardinale Fernández spiega anche il disprezzo con cui ha trattato gratuitamente la Beata Vergine Maria, negando i suoi due titoli usati da santi e papi», continua l’analisi. «Perché questo orrore per la verginità e la purezza, virtù eminentemente incarnate nella Madre di Dio?»   Come riportato da Renovatio 21, quando emersero i testi scabrosi del cardinale l’arcivescovo Carlo Maria Viganò aveva detto che le Guardie Svizzere avrebbero dovuto arrestare Tucho.   «I blasfemi rigurgiti di cloaca del ributtante libello di Tucho mostrano un tale livello di perversione e di alienità alla Fede da imporre la cacciata manu militari dell’Argentino e dei suoi complici» ha scritto monsignor Viganò su Twitter.   «Le Guardie Svizzere hanno giurato di difendere la Sede di Pietro, non colui che la sta demolendo sistematicamente. Siano dunque fedeli al giuramento e arrestino questi eretici pervertiti!» esclamava l’arcivescovo.

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Donald Trump pubblica un messaggio ufficiale in onore di Maria per l’Immacolata Concezione

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Si tratta di un messaggio che può essere definito storico: il presidente Donald Trump è il primo presidente degli Stati Uniti a pubblicare un messaggio presidenziale ufficiale in occasione della festa dell’Immacolata Concezione, celebrata l’8 dicembre.

 

Negli Stati Uniti, fin dalle origini del Paese, esiste la devozione all’Immacolata Concezione; è la santa patrona del Paese, come in Spagna, e l’anno prossimo si celebrerà il 250° anniversario dell’indipendenza.

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Un riconoscimento storico della tradizione cattolica

Nel suo messaggio, Trump riconosce che «per quasi 250 anni, Maria ha svolto un ruolo distintivo nella nostra grande storia americana». La dichiarazione presidenziale sottolinea la profonda devozione dei cattolici americani e dei santi americani verso Maria, la madre di Gesù.

 

Trump sottolinea che la festa dell’Immacolata Concezione è considerata un «giorno festivo di precetto» nella Chiesa cattolica, il che significa che i fedeli cattolici devono partecipare alla messa.

 

Il ruolo di Maria nella storia americana

Il messaggio presidenziale ripercorre la storia della devozione mariana negli Stati Uniti, a partire dal vescovo John Carroll, primo vescovo cattolico del Paese e cugino di Charles Carroll, firmatario della Dichiarazione di Indipendenza, che nel 1792 consacrò la giovane nazione alla madre di Cristo.

 

Trump menziona anche come i cattolici attribuissero la vittoria del generale Andrew Jackson sugli inglesi nella battaglia di New Orleans all’intercessione di Maria. «Ogni anno, i cattolici celebrano una messa di ringraziamento a New Orleans l’8 gennaio in memoria dell’aiuto di Maria nel salvare la città», si legge nella dichiarazione.

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Personaggi di spicco ed eredità mariana

Il messaggio mette in risalto importanti figure americane come Elizabeth Ann Seton, Frances Xavier Cabrini e Fulton Sheen, che hanno dedicato la loro vita a glorificare Dio servendo gli altri e hanno mantenuto una profonda devozione a Maria.

 

Il presidente menziona la Basilica del Santuario Nazionale dell’Immacolata Concezione, situata nel cuore della capitale, che onora Maria come la chiesa più grande del Nord America. Sottolinea inoltre che quasi 50 università americane portano il nome di Maria e che l’inno «Ave Maria» è caro a innumerevoli cittadini.

 

Una preghiera per la pace nel mondo

Nel suo messaggio, Trump ha fatto riferimento alla Prima Guerra Mondiale, quando Papa Benedetto XV commissionò e consacrò una statua di Maria, Regina della Pace, che teneva in braccio Gesù Bambino con un ramoscello d’ulivo, per incoraggiare i fedeli cristiani a seguire il suo esempio di pace pregando per la fine della guerra. «Pochi mesi dopo, la Prima Guerra Mondiale finì», ha concluso il presidente.

 

«Oggi ci rivolgiamo ancora una volta a Maria per trovare ispirazione e conforto, mentre preghiamo per la fine della guerra e per una nuova era duratura di pace, prosperità e armonia in Europa e nel mondo», si legge nella dichiarazione.

 

L’«Ave Maria» inclusa nel messaggio ufficiale

Con una mossa senza precedenti, Trump ha incluso la preghiera completa dell’«Ave Maria» nel suo messaggio presidenziale. Il messaggio si conclude riconoscendo «con totale gratitudine» il ruolo di Maria «nel promuovere la pace, la speranza e l’amore in America e oltre i nostri confini», mentre gli Stati Uniti si avvicinano al 250° anniversario della loro indipendenza.

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Messaggio presidenziale in occasione della festa dell’Immacolata Concezione

Oggi rendo omaggio a tutti gli americani che celebrano l’8 dicembre come giorno sacro in onore della fede, dell’umiltà e dell’amore di Maria, madre di Gesù e una delle figure più importanti della Bibbia.

 

Nella festa dell’Immacolata Concezione, i cattolici celebrano quella che credono essere la liberazione di Maria dal peccato originale come Madre di Dio. Entrò nella storia per la prima volta da bambina quando, secondo la Scrittura, l’angelo Gabriele la salutò nel villaggio di Nazareth con la notizia di un miracolo: «Ti saluto, piena di grazia! Il Signore è con te», annunciandole che «concepirà nel suo grembo e partorirà un figlio, e lo chiamerà Gesù».

 

In uno degli atti più profondi e trascendenti della storia, Maria accettò eroicamente la volontà di Dio con fiducia e umiltà: «Ecco la serva del Signore: avvenga di me secondo la tua parola». La decisione di Maria cambiò per sempre il corso dell’umanità. Nove mesi dopo, Dio si fece uomo quando Maria diede alla luce un figlio, Gesù, che avrebbe offerto la sua vita sulla croce per la redenzione dei peccati e la salvezza del mondo.

 

Per quasi 250 anni, Maria ha svolto un ruolo di primo piano nella nostra grande storia americana. Nel 1792, meno di un decennio dopo la fine della Guerra d’Indipendenza, il vescovo John Carroll, il primo vescovo cattolico degli Stati Uniti e cugino del firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza Charles Carroll, consacrò la nostra giovane nazione alla Madre di Cristo. Meno di un quarto di secolo dopo, i cattolici attribuirono a Maria la straordinaria vittoria del generale Andrew Jackson sugli inglesi nella decisiva battaglia di New Orleans. Ogni anno, l’8 gennaio, i cattolici celebrano una Messa di Ringraziamento a New Orleans in ricordo del ruolo di Maria nella salvezza della città.

 

Nel corso dei secoli, leggende americane come Elizabeth Ann Seton, Frances Xavier Cabrini e Fulton Sheen, che hanno dedicato la loro vita a glorificare Dio nel servizio agli altri, hanno professato una profonda devozione a Maria.

 

La Basilica del Santuario Nazionale dell’Immacolata Concezione, situata nel cuore della capitale, onora Maria come la chiesa più grande del Nord America. L’inno senza tempo «Ave Maria» è ancora caro a innumerevoli cittadini. Ha ispirato la fondazione di innumerevoli chiese, ospedali e scuole. Quasi 50 college e università americane portano il nome di Maria.

 

E tra pochi giorni, il 12 dicembre, i cattolici negli Stati Uniti e in Messico celebreranno l’incrollabile devozione a Maria che ebbe origine nel cuore del Messico, dove ora sorge la magnifica Basilica di Nostra Signora di Guadalupe, nel 1531. Mentre ci avviciniamo al 250° anniversario della gloriosa indipendenza americana, riconosciamo e rendiamo grazie, con profonda gratitudine, per il ruolo di Maria nel promuovere la pace, la speranza e l’amore negli Stati Uniti e oltre i nostri confini.

 

Oltre un secolo fa, nel pieno della Prima Guerra Mondiale, Papa Benedetto XV, capo della Chiesa Cattolica Romana, commissionò e consacrò una maestosa immagine di Maria, Regina della Pace, con il Bambino Gesù tra le braccia e un ramoscello d’ulivo, per incoraggiare i fedeli cristiani a seguire il suo esempio di pace e a pregare per la fine di quella terribile carneficina. Pochi mesi dopo, la Prima Guerra Mondiale terminò.

 

Oggi ci rivolgiamo ancora una volta a Maria per trovare ispirazione e conforto, pregando per la fine della guerra e per una nuova e duratura era di pace, prosperità e armonia in Europa e nel mondo intero.

 

In suo onore, e in questo giorno così speciale per i nostri cittadini cattolici, ricordiamo le sacre parole che hanno portato aiuto, conforto e sostegno a generazioni di credenti americani nei momenti difficili:

 

Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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