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Geopolitica

Tensioni e schermaglie, ma Pakistan e Afghanistan non vanno verso guerra aperta

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

Secondo Husain Haqqani, ex ambasciatore pakistano a Washington, le due parti vogliono mantenere relazioni stabili. Nonostante gli interessi nei due Paesi, è difficile che la Cina si inserisca nella diatriba. L’India fornisce all’Afghanistan aiuti allo sviluppo, ma non la si può considerare partner dei talebani.

 

 

«Tensioni e schermaglie aumenteranno. Alla fine però i talebani hanno bisogno del sostegno del Pakistan e l’establishment pakistano considera i talebani preferibili a qualsiasi altro governo afghano».

 

Husain Haqqani, ex ambasciatore pakistano negli USA, non crede che Islamabad e Kabul vadano verso una guerra aperta. Diversi analisti e osservatori pensano invece che il conflitto sia inevitabile, dato che il Pakistan non potrebbe sconfiggere la guerriglia talebana entro i propri confini senza combattere i «fratelli maggiori» in Afghanistan.

 

Lo scorso mese la tensione tra i due Paesi è salita dopo che scambi di colpi di artiglieria al valico frontaliero di Chaman hanno causato morti e feriti. Rispetto alle opzioni a disposizione per contrastare il Tehrik-i-Taliban Pakistan, lo scorso 2 gennaio il governo pakistano ha dichiarato che «non permetterà ad alcun Paese di dare riparo e aiuto ai terroristi e che a tal riguardo il Pakistan si riserva ogni diritto di proteggere il proprio popolo». Il riferimento al vicino afghano è evidente.

 

I talebani afghani sono nati con il sostegno del Pakistan, ma come spiega Haqqani le divergenze tra le due parti sono antiche, esistevano anche negli anni Novanta del secolo scorso, al momento dell’ascesa del gruppo islamista in Afghanistan. «Nessun regime afghano – talebano o altro – ha mai riconosciuto la frontiera tra i due Paesi come confine internazionale. Poi i talebani [afghani] non hanno mai abbandonato le loro convinzioni ideologiche, compreso il sostegno a gruppi come i talebani pakistani», dice Haqqani ad AsiaNews.

 

Uno scontro armato tra Pakistan e Afghanistan aprirebbe scenari geopolitici imprevedibili in una regione già segnata da una forte instabilità, con forti ripercussioni sulla competizione geopolitica tra India e Cina.

 

Pechino ha consolidati rapporti politici ed economici con il Pakistan, e ha appena firmato un accordo di estrazione petrolifera con le autorità di Kabul: il primo investimento estero di peso in Afghanistan dal ritorno dei talebani al potere nell’agosto 2021. Sulla carta i cinesi sono i meglio posizionati per giocare un ruolo «pacificatore» tra i due lati della Linea Durand, il confine (contestato) tra Pakistan e Afghanistan.

 

«La Cina dipende da tempo dalle garanzie che lo Stato pakistano può assicurare in Afghanistan», fa notare Haqqani, secondo cui Pechino osserva con attenzione come il Pakistan stesso stia affrontando le sfide in Afghanistan e come i talebani afghani non siano in grado di affrontare l’IS-KP (il ramo locale dello Stato islamico) all’interno del Paese.

 

L’ex diplomatico, ora direttore per l’Asia del sud e quella centrale dell’Hudson Institute, aggiunge che «sebbene la Cina preferisca un Afghanistan in cui il Pakistan – e non gli Stati Uniti o l’India – abbia il controllo, potrebbe non vedere il vantaggio di inserirsi in quella che è principalmente una questione pakistano-afghana».

 

Nella lotta tra Islamabad e Kabul, l’India gioca la sua partita. Haqqani sottolinea che i talebani afghani hanno chiesto a Delhi di continuare a fornire assistenza allo sviluppo – a Kabul e a Islamabad sanno che gli indiani possono farlo, mentre il governo pakistano non è in grado.

 

«Chiedere all’India assistenza allo sviluppo – conclude – non significa però considerarla come un partner o un amico. Sebbene i talebani possano avere divergenze con lo Stato pakistano, essi dipendono dal Pakistan, che rimane per ora il loro partner di elezione».

 

 

 

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Geopolitica

Thailandia e Cambogia firmano alla Casa Bianca un accordo di cessate il fuoco

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Cambogia e Thailandia hanno siglato un accordo di cessate il fuoco ampliato per porre fine a un violento conflitto di confine scoppiato a inizio anno. La cerimonia di firma, tenutasi domenica, è stata presieduta dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che aveva mediato la tregua iniziale.

 

Le tensioni storiche tra i due Paesi del Sud-est asiatico, originate da dispute territoriali di epoca coloniale, sono esplose a luglio con cinque giorni di scontri armati, che hanno spinto centinaia di migliaia di persone a fuggire dalla zona di confine. Un incontro ospitato dalla Malesia aveva portato a una prima tregua, segnando l’inizio della de-escalation.

 

Trump ha dichiarato di aver sfruttato i negoziati commerciali con entrambi i paesi per favorire una riduzione delle tensioni.

 

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Durante il 47° vertice dell’ASEAN in Malesia, il primo ministro cambogiano Hun Manet e il primo ministro thailandese Anutin Charnvirakul hanno firmato l’accordo, che amplia la tregua di luglio.

 

Il documento stabilisce un piano per ridurre le tensioni e assicurare una pace stabile al confine, prevedendo il rilascio di 18 soldati cambogiani prigionieri da parte della Thailandia, il ritiro delle armi pesanti, l’avvio di operazioni di sminamento e il contrasto alle attività illegali transfrontaliere.

 

Dopo la firma, il primo ministro thailandese ha annunciato l’immediato ritiro delle armi dal confine e il rilascio dei prigionieri di guerra cambogiani, insieme a un’intesa commerciale congiunta. Il primo ministro cambogiano ha lodato l’accordo, impegnandosi a rispettarlo e ringraziando Trump per il suo ruolo, proponendolo come candidato al Premio Nobel per la Pace del prossimo anno.

 

Trump ha definito l’accordo «monumentale» e «storico», sottolineando il suo contributo e descrivendo la mediazione di pace come «quasi un hobby». Dopo la cerimonia, ha firmato un accordo commerciale con la Cambogia e un importante patto minerario con la Thailandia.

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Geopolitica

La Cina snobba il ministro degli Esteri tedesco

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Il ministro degli Esteri tedesco Johann Wadephul ha dovuto cancellare un viaggio previsto in Cina dopo che Pechino si sarebbe rifiutata di organizzare incontri di alto livello con lui, secondo quanto riportato venerdì da diversi organi di stampa.   Il Wadephul sarebbe dovuto partire per Pechino domenica per discutere delle restrizioni cinesi sull’esportazione di terre rare e semiconduttori, oltre che del conflitto in Ucraina.   «Il viaggio non può essere effettuato al momento e sarà posticipato a data da destinarsi», ha dichiarato un portavoce del Ministero degli Esteri tedesco, citato da Politico. Il Wadephullo avrebbe dovuto incontrare il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, ma l’agenda prevedeva troppo pochi incontri di rilievo.   Secondo il tabloide germanico Bild, i due diplomatici terranno presto una conversazione telefonica.

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Questo intoppo diplomatico si inserisce in un contesto di crescenti tensioni commerciali tra Cina e Unione Europea. Nell’ultimo anno, Bruxelles e Pechino si sono scontrate sulla presunta sovrapproduzione industriale cinese, mentre la Cina accusa l’UE di protezionismo.   All’inizio di questo mese, Pechino ha rafforzato le restrizioni sull’esportazione di minerali strategici con applicazioni militari, una mossa che potrebbe aggravare le difficoltà del settore automobilistico europeo.   La Germania è stata particolarmente colpita dal deterioramento del clima commerciale.   Come riportato da Renovatio 21, la Volkswagen sospenderà la produzione in alcuni stabilimenti chiave la prossima settimana a causa della carenza di semiconduttori, dovuta al sequestro da parte dei Paesi Bassi del produttore cinese di chip Nexperia, motivato da rischi per la sicurezza tecnologica dell’UE. In risposta, Pechino ha bloccato le esportazioni di chip Nexperia dalla Cina, causando una riduzione delle scorte che potrebbe portare a ulteriori chiusure temporanee di stabilimenti Volkswagen e colpire altre case automobilistiche, secondo il quotidiano.   Venerdì, il ministro dell’economia Katherina Reiche ha annunciato che Berlino presenterà una protesta diplomatica contro Pechino per il blocco delle spedizioni di semiconduttori, sottolineando la forte dipendenza della Germania dai componenti cinesi.  

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Vance in Israele critica la «stupida trovata politica»: il voto di sovranità sulla Cisgiordania è stato un «insulto» da parte della Knesset

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La proposta di applicare la sovranità israeliana sulla Cisgiordania occupata, considerata da molti come un’equivalente all’annessione totale del territorio palestinese, ha suscitato una forte condanna internazionale, incluso un netto dissenso da parte degli Stati Uniti.

 

Il disegno di legge ha superato di stretta misura la sua lettura preliminare martedì, con 25 voti a favore e 24 contrari nella Knesset, composta da 120 membri. La proposta passerà ora alla Commissione Affari Esteri e Difesa per ulteriori discussioni.

 

Una dichiarazione parlamentare afferma che l’obiettivo del provvedimento è «estendere la sovranità dello Stato di Israele ai territori di Giudea e Samaria (Cisgiordania)».

 

Il momento del voto è stato significativo e provocatorio, poiché è coinciso con la visita in Israele del vicepresidente J.D. Vance, impegnato in discussioni sul cessate il fuoco a Gaza e sul centro di coordinamento gestito dalle truppe statunitensi e dai loro alleati, incaricato di supervisionare la transizione di Gaza dal controllo di Hamas. Vance ha percepito la tempistica del voto come un gesto intenzionale, accogliendolo con disappunto.

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Anche il Segretario di Stato Marco Rubio, in visita in Israele questa settimana, ha espresso critiche prima di lasciare il Paese mercoledì, dichiarando che il disegno di legge sull’annessione «non è qualcosa che appoggeremmo».

 

«Riteniamo che possa rappresentare una minaccia per l’accordo di pace», ha detto Rubio, in linea con la promozione della pace in Medio Oriente sostenuta ripetutamente da Trump. «Potrebbe rivelarsi controproducente». Vance ha ribadito che «la Cisgiordania non sarà annessa da Israele» e che l’amministrazione Trump «non ne è stata affatto soddisfatta», sottolineando la posizione ufficiale.

 

Vance, considerato il favorito per la prossima candidatura presidenziale repubblicana dopo Trump, probabilmente ricorderà questo episodio come un momento frustrante e forse irrispettoso, specialmente in un contesto in cui la destra americana appare sempre più divisa sulla politica verso Israele.

 

Si dice che il primo ministro Netanyahu non sia favorevole a spingere per un programma di sovranità, guidato principalmente da politici oltranzisti legati ai coloni. In una recente dichiarazione, il Likud ha definito il voto «un’ulteriore provocazione dell’opposizione volta a compromettere i nostri rapporti con gli Stati Uniti».

 

«La vera sovranità non si ottiene con una legge appariscente, ma con un lavoro concreto sul campo», ha sostenuto il partito.

 

Tuttavia, è stata la reazione di Vance a risultare la più veemente, definendo il voto una «stupida trovata politica» e un «insulto», aggiungendo che, pur essendo una mossa «solo simbolica», è stata «strana», specialmente perché avvenuta durante la sua presenza in Israele.

 

Come riportato da Renovatio 21, Trump ha minacciato di togliere tutti i fondi ad Israele in caso di annessione da parte dello Stato Giudaico della West Bank, che gli israeliani chiamano «Giudea e Samaria».

 

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