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Geopolitica

La Francia nemica nostra?

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La realtà è che gli immigrati c’entrano poco. O pochino.

 

La realtà è che il dramma diplomatico che si sta consumando tra Parigi e Roma – che il neopremier italiano definisce «reazione aggressiva ed ingiustificata» – è solo un episodio isterico di un conflitto che va avanti da tempo.

 

Qualcuno dirà che questa relazione già aveva i suoi lineamenti due secoli e passa fa. Noi ci accontentiamo di annotare ciò che è accaduto negli ultimi anni, e non è poca roba: ci sono cose da far accapponare la pelle, ci sono cose che fanno vomitare. Prepotenza, calcolo, scherno, forse perfino violenza: con i cugini di Oltralpe non ci hanno fatto mancare niente. Del resto, vale la pena di ricordarlo, solo una potenza atomica, al punto che ci vendono pure il 6% del nostro fabbisogno energetico, genialmente denuclearizzato per via referendaria tra lo champagne di svizzeri e francesi – e poi, lo abbiamo visto, la corrente ce la vendono finché vogliono, ad una certa possono staccarcela, così da mandare lo Stivale un po’ in blackout.

 

Il lettore deve capire che la questione è davvero profonda, e di mezzo c’è davvero tutto, dai miliardi della finanza a presunte bombe come ritorsione per le nostre operazioni in Africa.

 

Ora, tutti ricorderanno la famosa conferenza stampa congiunta Sarkozy-Merkel, quella con i sorrisetti per Berlusconi, dopo la quale si capì che il premier eletto dal popolo doveva sloggiare e far posto all’eurotecnocrate Goldman Sachs di allora, Mario Monti.

 

 

Era il 2011, e non si trattava dell’unico cambiamento rilevante di quei mesi.

 

Ricordate? La «Primavera Araba» era scoppiata anche in Libia, nel modo più violento visto (forse fa eccezione la Siria, ma per ragioni simili), e in breve tempo venne ucciso il vertice supremo del Paese, il colonnello Muhammar Gheddafi, trucidato selvaggiamente a favor di telefonino. Sulla presenza di personale francese nel commando libico che a Sirte massacrò il ras di Tripoli, vi sono delle voci. Seguì la disintegrazione dello Stato libico, con la vasta guerra civile che durra fino ai giorni nostri, e che nel caos potrebbe prevedere, alla fine, pure il ritorno di un Gheddafi sul trono del Paese.

 

L’assassinio di Gheddafi non ha solo un ruolo diretto nella crisi migratoria riversatasi subito dopo sull’Europa tutta e non ancora finita. La fine del dittatore tripolitano aveva risvolti euro-americani notevoli. Perché l’Italia, come l’Europa che lo aveva contrattualizzato per fermare i migranti, aveva trovato la quadra con la Libia: riappacificazioni, richieste di scuse storiche, appalti per le nostre ditte, concessioni per gli idrocarburi, le immagini di Berlusconi che stringe la mano a Gheddafi stampata come grafica su tutti i passaporti libici.

 

Londra e Parigi, no. In un momento di debolezza del governo italiano – rammentate, i risolini, poi il temibile spread usato come arma di distrazione di massa – ne approfittarono, e cominciarono le operazioni di sottrazione: la Libia doveva essere de-italianizzata. E i Gheddafi sterminati – anche perché si cominciava a vociferare di 50 milioni libici finiti nella campagna presidenziale 2007 di Sarkozy… Certo, vi era a Roma una quinta colonna, dentro un partito e alle sfere altissimi del potere politico. Albione appoggiò il deep state francese. L’America pure. Hillary Clinton, allora segretario di Stato di Obama, si lasciò scappare davanti alle telecamere una gioia demoniaca per l’assassinio di Gheddafi: «we came, we saw, he died» disse distorcendo in modo sadico le parole di Giulio Cesare. Poi giù risate inquietanti.

 

 

Non è l’unica cosa poco edificante che sull’argomento esce dal mondo di Hillary. C’è una strana mail inviata al Segretario Di Stato Hillary Clinton (2 aprile 2011) dal funzionario Sidney Blumenthal in cui si dice che Gheddafi voleva sostituire il Franco CFA con un’altra moneta panafricana per liberare dalla Francia l’Africa francofona.

 

Il «nostro» Gheddafi e la Francia

Siamo sempre un po’ scioccati dal constatare come pochi unirono i puntini per vedere che si trattava, con evidenza, di una vera vendetta francese contro l’Italia. Non è solo il fatto che la Total, colosso petrolifero enorme, vuole farsi i pozzi libici scacciando l’ENI. No, c’è qualcosa di personale.

 

Nel 1984 Craxi atterra a Roma dopo un viaggio in Algeria e chiede di vedere subito l’ammiraglio del SISMI Fulvio Martini. Chadli Benjedid, il presidente algerino, aveva rivelato a Craxi che per mettere al sicuro il tratto finale del gasdotto che porta il metano in Italia aveva programmato nientemeno che un’invasione della Tunisia. Craxi lo pregò di non far nulla. Martini lo racconta nel libro Nome in codice Ulisse: «Non fu un brutale colpo di stato: fu un’operazione di politica estera, messa in piedi con intelligenza, prudenza ma anche decisione dagli uomini che guidavano l’Italia in quegli anni. Sì, è vero, l’Italia sostituì Bourghiba con Ben Alì».

 

Così Bourghiba, il presidente pazzo di Tunisi nelle mani dei Francesi, fu sostituito dal «nostro» Ben Alì.

Martini, il vertice dei servizi militari italiani, incontra il suo omologo del DGSE francese: «era il generale Réné Imbot, ex capo di stato maggiore dell’ Armée. Andai da lui, gli spiegai la situazione, gli dissi che l’Italia voleva risolvere le cose nella maniera più cauta possibile, ma che comunque non voleva aspettare che la Tunisia saltasse per aria. Lui fece un errore imperdonabile: mi trattò con arroganza, mi disse che noi italiani non dovevamo neppure avvicinarci alla Tunisia, che quello era impero francese. Io ancora oggi penso che per difendere un impero bisognava avere i mezzi, la capacità ma anche la solidarietà di chi non è proprio l’ultimo carrettiere del Mediterraneo… Imbot era stato nella Legione straniera per vent’anni, aveva guidato i paracadutisti che parteciparono alla repressione nella casbah durante la battaglia di Algeri. Era un soldato, non capiva la politica, ebbe qualche problema con il suo primo ministro Jacques Chirac».

 

Ben Alì, come noto, fu scacciato solo decenni dopo, nel 2011, all’insorgere della maledetta «Primavera Araba», che iniziò guarda caso proprio da casa sua, con le proteste tunisine scaturite in seguito al suicidio incendiario di un commerciante.

 

Fatto fuori un pezzo «italiano», ne fecero fuori anche un altro, a pochi chilometri: il colonnello Gheddafi.

 

Bombe di vendetta contro l’Italia?

Torniamo alla Prima Repubblica: nella notte tra il 7 e l’8 novembre del 1987, un attentato terroristico distrusse il radiofaro della Marina militare italiana dell’ isola di San Domino, alle Tremiti. La bomba uccise uno dei due «terroristi», uno svizzero quarantatreenne di nome Jean Louis Nater, mentre quell’altro, Samuel Wampfler, un altro svizzero con tanti passaporti e trascorsi rocamboleschi, fu arrestato. Nel 1990 viene condannato a 10 anni, ma non sconta nulla, e sparisce.

 

Si pensò che il colpevole fosse l’allora babau globale Gheddafi, che non aveva lesinato aiuti al terrorismo su ogni latitudine. Qualche giorno prima, il colonnello aveva rivendicato il possesso delle Tremiti, asserendo che lì vi erano i discendenti dei libici deportati dal governo Giolitti (1911) (la cosa risultò totalmente priva di fondamento quando tutta la popolazione si sottopose ad un test del DNA nel 2008).

 

 Nel 1996 sarà il Corriere della Sera a scrivere che non si trattava di Gheddafi, ma di una sorta di vendetta, di Parigi. Un avvertimento – diretto contro le nostre forze armate.

 

Ma come: il Paese nostro confinante, al quale ci uniscono mille legami profondi (la storia, la lingua neolatina, la religione, anche se solo in teoria), avrebbe messo una bomba, pur simbolica, nel nostro territorio?

 

 

La campagna napoleonica del XXI secolo

Bisogna capire che in questi ultimi decenni più che mai l’Italia è stata per Parigi terra di conquista. E non ci riferiamo alle sparate napoleoniche del candidato presidente Zemmour, che arrivò a dipingere in TV una possibile (nuova) invasione francese del Nord Italia.

 

Parliamo dell’economia. Parliamo delle nostre aziende.

 

Secondo un’indagine realizzata qualche anno fa dal gruppo KPMG Corporate Finance per il Corriere della Sera, tra il 2008 e il 2018 le acquisizioni francesi di realtà italiane sono state ben 214, una ventina ogni 12 mesi, con un esborso di 32 miliardi di euro. Davvero una napoleonica campagna d’Italia.

 

Nel 2008, la Banca Nazionale del Lavoro (BNL), un tempo braccio bancario del Ministero del Tesoro, diveniva proprietà di BNP-Paribas.

 

Crédit Agricole, dopo essere andato in soccorso di Banca Intesa mette le mani su Cariparma, Friuladria e 202 sportelli bancari ex Intesa Sanpaolo. Seguono Cassa di Risparmio di La Spezia, una quota consistente del prestatore Agos (credito al consumo), Cassa di Risparmio di Cesena, Cassa di Risparmio di Rimini e Cassa di Risparmio di San Miniato

 

Il latticino italiano è stato sbancato. Parmalat, Galvani, Invernizzi, Locatelli sono stati comprati nel 2011, 2006, 2003 dal gruppo Lactalis, che ha sede a Laval ed è famoso per il Camembert.

 

Lo zucchero Eridania è stato ceduto al gruppo francese Cristal Union, i vini della Tenuta Greppo, che fa il Brunello di Montalcino, sono passati dalla famiglia Biondi Santi alla finanziaria Epi controllata dalla famiglia Descours.

 

Assicurazioni: quattro quinti di Bipiemme Vita dalla Popolare di Milano è andata ai francesi Covéa; la francese Cardif (sempre BNP-Paribas) si è fatta il 51% di BNL Vita. Nel 2016 Unicredit ha ceduto ad Amundi, il suo polo del risparmio gestito, Pioneer.

 

Il lusso italiano è da anni infiltrato o espugnato dai transalpini. LVMH (la sigla che sta per Lous Vuitton Moet-Hennesy), ha acquisito Loro Piana e Bulgari; Arnault, il patron, ha pochi mesi fa ultimato l’acquisto anche di un simbolo di Venezia, l’Hotel Cipriani. Del resto la laguna l’aveva già invasa con la Punta della Dogana, trasformata in un museo personale dove ospitare vomitevoli artisti di arte contemporanea e i divi di Hollywood amici della moglie Salma Hayek, che fa film kolossal in cui emerge casualmente quanto poco carina fosse la famiglia Gucci e quanto meglio quindi sia il marchio italiano sotto la proprietà del megafondo.

 

Il gruppo Kering del miliardario François Pinault – concorrente diretto degli Arnault – ha fatto incetta di marchi italiani dell’alta moda: Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Sergio Rossi, Fendi, Pucci, Brioni (quest’ultimo uno dei marchi preferiti di Donald Trump).

 

Edison, vecchia gloria dell’industria italiana, è di EDF, che sta per Électricité de France. Edipower (Udine), Comat e Frendy Energy, hanno avuto la stessa sorte. Sempre nel settore energetico, è interessante vedere come Suez ha alzato la propria presenza in Acea (il fornitore di luce e gas di Roma) dal 12,4 al 23% comprando le quote dai Caltagirone; mentre Direct Energie ha acquisito da Enel per 36,5 milioni Marcinelle Energie.

 

L’industria ferroviaria italiana praticamente non esiste più: a rilevare la FIAT ferroviaria, nella svendita del 2000, fu il gruppo francese Alstom.

 

I francesi comprano aziende italiane, poi ci piazzano i loro super-manager, che da noi imperano beati. Prendete Mustier (Unicredit), Donnet (Generali), Bernier (Parmalat), Benayoun (Edison).

 

Pare impossibile da pensare, tuttavia non sempre era andata così. Italcementi 30 anni fa divenne un gruppo internazionale quando inglobò Ciments Français.

 

Non è facile nemmeno dimenticare, a fine anni Novanta, la sfilata di Armani in Place Vendome a Parigi annullata a pochi minuti dall’inizio; era un segno di sorpasso italiano, sul quale i francesi intervennero mandando i gendarmi a bloccare le modelle – davvero.

 

Il problema poi ce lo ha avuto Fincantieri con il produttore di sommergibili francese STX: gli italiani lo hanno rilevato dai coreani, tuttavia i politici francesi, da Macron alla Le Pen, non credono che pacta sunt servanda. L’affare sfumò. Per i golosi ricordiamo che nella faccenda la consulenza era della società del ramo parigino dei Rothschild, antichi datori di lavoro del presidente Macron.

 

Qualcuno può ricordare come nel 2006 con Tremonti Enel tentò di scalare Suez, il secondo gruppo mondiale nel campo della gestione delle acque e dei rifiuti. La risposta fu immediata: per impedirlo, Suez e il colosso pubblico della distribuzione gasiera Gaz de France (GDF) si fusero (ora il gruppo unito si chiama Engie e opera anche in Italia).

 

Negli anni Ottanta, i nomi italiani più noti in Francia, dopo Marcello Mastroianni e Ornella Muti, erano – scrive un vecchissimo articolo del 1990 – Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi, cioè raider dell’economia transalpina. Il secondo, soprattutto, forte di una solida amicizia su Mitterand probabilmente basata su di uno speciale interesse comune – le donne – nella Francia dello statalismo di granito creò perfino un canale privato, La Cinq.

 

Morto Mitterand e il vecchio socialismo francese (oltre a quello italiano) Berlusconi perderà il canale, e si ritroverà, anni dopo, a doversi difendere in casa dagli assalti francesi. La guerra tra Vivendi e Mediaset infuria sui giornali e in tribunali. Il gruppo TV di Cologno Monzese doveva finire nelle mani del magnate Vincent Bolloré, già socio di Telecom Italia con oltre il 23%.

 

Arrivati a Telecom, i francesi ci piazzano un loro uomo di fiducia, un israeliano di nome Genish. Quando ad opporsi allo strapotere francese arriva un hedge fund americano, Elliot, molti italiani cantano vittoria, magari dimenticandosi chi è il suo capo, Paul Singer: grande finanziatore del Partito Repubblicano e del movimento LGBT, Singer è noto per depredare nazioni intere, come nel caso dell’Argentina (dove, lui privato, fece sequestrare come garanzia una nave scuola della marina argentina ormeggiata in un porto del Ghana) del Perù (dove fece sequestrate il jet del presidente Fujimori). Singer, che poi entrerà nel Milan, è anche quello che, come dimostra una sua lettera ai dipendenti, sapeva dell’effetto della pandemia ben prima della maggior parte della popolazione.

 

Sulle telecomunicazioni vale la pena di scrivere due righe: che i francesi detengano un quarto della rete nazionale tramite Telecom, è già un tema che dovrebbe impensierire chiunque consideri la parola «sovranità», quando tutto il mondo sta respingendo i cinesi di Huawei nella costruzione dell’infrastrutture per il 5G per paura che vi installino backdoor.

I vostri dati potrebbero comunque finire : se passate al nuovo, economico ed efficiente gestore di telefonia mobile Iliad, dovete sapere che altro non è che la continuazione italiana del francese Free, creatura dell’imprenditore flamboyant Xavier Niel, arricchitosi con gli annunci «rosa» sul Minitel, il precursore francese di internet, nonché nel business dei peep-show.

 

La saga di Bolloré e Vivendi in TIM, comunque, continua ad appassionare. Un servizio recente di Report ha cercato di fare il punto sulla situazione. Tra le tante rivelazioni con documenti alla mano e scoop con fonti di alto livello, ci ha colpito tuttavia vedere che uno dei dirigenti francesi piazzati da Vivendi non parlava italiano. Chi conosce la facilità con cui, dopo qualche frequentazione attraverso le Alpi, gli italiani imparano il francese e i francesi l’italiano, non può rimanere scioccato, e farsi tutto un film su cosa stiano davvero facendo questi nelle nostre aziende.

 

 

L’arma migratoria usata dalla Francia

Torniamo in Africa – un tema che, dallo scandalo dei diamanti del dittatore cannibale centrafricano Jean-Bedel Bokassa per Giscard D’Estaing al caso del bodyguard «intimo» dei Macron, il maghrebino Benalla, ha un suo peso specifico nelle sorti dei presidenti francesi.

 

La Francia ha costruito nel 1930 un forte in Niger, non lontano dalla città di Agadez, probabilmente per fermare l’avanzata dell’Impero fascista nel Sahel tramite la Libia e il Fezzan. La base, che esiste ancora e anzi, a fianco i francesi ci hanno costruito una base militare dove avrebbero essere ospitati anche i nostri soldati: è noto che, dai tempi di Gentiloni premier, abbiamo per qualche motivo mandato in Africa i nostri soldati ad affiancare i francesi. Non sembrerebbe che lì, tuttavia, i nostri ragazzi ci siano stati.

 

In un articolo illuminante su La Verità dello scorso sabato, Claudio Antonelli scrive che la base, anche 100 anni dopo, serve a contenere l’Italia – o meglio, serve a indebolirla. La riprova è che il complesso militare è costruito proprio sulle vie carovaniere che spingono verso il mediterraneo le masse di immigrati dell’Africa nera, ma mai ha mosso un dito per interrompere, o anche solo limitare il flusso.

 

L’idea di fermare l’immigrazione intervenendo direttamente in Africa è già in giro da tempo: era la proposta che il fondatore del gruppo mercenario Blackwater, Erik Prince, ha fatto negli anni, con Steve Bannon a fargli da eco, per porre fine al disastro migratorio.

 

Ebbene: i galletti, con i loro militari (e forse, i nostri) sono già lì – ma dal fermare i migranti si guardano bene. «Nel 2016, sotto gli occhi dei francesi sono passati, secondo fonti Iom, qualcosa come 291 mila migranti. Nessuno di loro è mai stato fermato o controllato, nonostante le dotazione della base: dai [caccia] Mirage ai droni» scrive La Verità.

 

Un rapporto CESI dà conto del tremendo groviglio di faide tribali attive nella zona: ci sono i Tebu e i Tuareg, sempre in lotta, i Qadhafa (da cui veniva Gheddafi, a protezione del quale combatterono fino alla fine) e gli Awlad Suleiman, che avevano combattuto il ras e che ora avrebbero l’appoggio del generale Haftar, il militare nemico di Gheddafi che dietro di sé ha Egitto, Russia, ovviamente la Francia, forse l’America (è stato per anni residente a Langley, la località della Virginia nota solo per essere la sede la CIA) e forse financo Israele, ma che – come da immagine di eterno perdente che hanno di lui alcuni libici – non riesce a prendersi tutto il Paese.

 

«In questo complicatissimo scenario vanno inseriti gli accordi targati Marco Minniti, l’abile ministro dell’Interno che ha cercato di inserirsi a metà strada tra la cosa e la presenza militare francese» scrive Antonelli. «Va ricordato che la dottrina di Parigi è sempre basata sulla presenza militare. La nostra purtroppo no».

 

«Così Minniti ha giocato di sponda. L’intento era quello di trovare qualcuno in grado di regolare i flussi. A gennaio 20’17 i primi abboccamenti e poi a marzo la firma tra l’Italia ed una sessantina di capi tribù. Denaro, protezione e sostegno in loco». Risultato: i flussi cominciarono a calare – di contro, gli sbarchi sulle coste spagnuolo videro un incremento del 100%.

 

«Purtroppo non è stato possibile scoprire gli effetti della mediazione dell’ex esponente PD. Perché qualcuno è intervenuto per farli saltare: i francesi, ovviamente. Parigi, all’epoca, tramite alcuni giornali, accusò l’Italia di fare accordi sottobanco. Cioè esattamente quello che i francesi fanno da secoli. Da lì l’idea di scardinare pezzo a pezzo ciascuno dei 60 accordi firmati. Il motivo dell’intervento contro la nostra sicurezza nazionale si spiega per un semplice motivo. L’altro lato della medaglia dell’accordo in Fezzan era un aumento della presa italiana nella regione (…) fondamentale per lo scontro tra Tripoli e Bengasi», cioè tra Haftar e il governo tripolino ancora sostenuto da Roma.

 

Si tratta, insomma, di un’operazione, evidente come poco altro, contro il nostro Paese, i suoi interessi legittimi – mentre inviamo soldati in Africa! – colpiti a morte.

 

Siamo all’idea discussa dal libro del professor Kelly M. Greenhill Weapon of Mass Migration (2016): i flussi migratori come arma geopolitica. Lo aveva capito Gheddafi, che la usò fino ad ottenere la fine dell’embargo che desiderava. La utilizza oggi stesso Erdogan, che pochi anni fa, ai tempi della migrazione dalla Siria insanguinata dall’ISIS, chiese e ottenne dall’Europa 5 miliardi di euro per tentare di bloccare qualche immigrato di passaggio in Turchia.

 

Ora bisogna realizzare che l’arma migratoria la sta usando anche Parigi contro l’Italia.

 

Ha senso, quindi, che lo faccia con getti di bile sui giornali ora: con il cambio di governo, non è chiaro ai francesi quanto possano godere della stessa impunità nello svolgimento delle loro campagne finanziarie e geopolitiche.

 

 

La Legione francese piddina

Difficile, del resto, che persista una continuità come quella degli anni del PD.

 

C’è da ricordare la faccenda, eccezionale, dei piddini insigniti della Légion d’Honneur, solenne onorificenza conferita dallo Stato francese. In una lista dei premiati che circola su internet, tra Ufficiale della Légion d’Honneur, Commendatore della Légion d’Honneur, e Légion d’Honneur tout court, troviamo una massa impressionante di piddini, parapiddini e alleati e alleati. Franco Bassanini (2002), Massimo D’Alema (2001), Piero Fassino (2013), Dario Franceschini (2017), Giovanna Melandri (2003), Roberta Pinotti (2017), Giuliano Pisapia (2015), Romano Prodi (2014), Beppe Sala (2016), Walter Veltroni (2000). Nell’elenco compaiono anche Emma Bonino (poteva mancare), e l’ingegner Carlo De Benedetti, che si dice sia stato la tessera numero 1 del PD, anche se ora negano, e poi non sappiamo se contarlo come italiano visto che ora ha giustamente preso la cittadinanza svizzera.

 

C’è da ricordare il caso di Sandro Gozi, anche lui legionato d’onore nel 2014,che fu  sottosegretario agli Affari Europei nel governo Renzi e Gentiloni, poi consulente agli Affari Europei ma nel governo francese (!), infine eurodeputato eletto in una lista sostenuta da Macron. La Meloni arrivò a parlare di tradimento e di revoca di cittadinanza. Ora che è al potere, vedremo cosa farà.

 

C’è da ricordare il caso «clinico» di Enrico Letta, che fu premier filo-Putin (quasi l’unico ad andare all’apertura dei Giochi Olimpici di Sochi) di un governo che, va detto, non dispiaceva a molti conservatori italiani. Poi, lo vedemmo di colpo un po’ depresso quando, con un colpo di palazzo non ancora spiegato, il Renzi gli soffiò il posto di primo ministro. Ci pensarono i francesi: lo fecero Commendatore della Legion d’Onore (2016), ma soprattutto gli diedero un ruolo prestigioso all’Institut d’Etudes politiques de Paris, lui si riebbe, lo fotografarono che faceva balletti coreografati, è tornato in patria irriconoscibile, magrissimo, seriosissimo, intriso di un estremismo di fantasie gosciste (transessuali, ius soli, etc.) che non gli riconoscevamo.

 

Non che stiamo parlando di puri encomi, festicciole diplomatiche con ricco buffet, e medagliette da mettere nel cassetto dei bei ricordi.

 

Non è che possiamo dimenticare l’accordo di Caen. Un patto, firmato da Paolo Gentiloni nel 2015 quando era ministro degli esteri per Renzi, con il quale l’Italia cedeva porzioni di acque territoriali alla Francia. L’accordo non fu mai ratificato dal Parlamento, tuttavia i francesi lo davano già per scontato, al punto che il Ministero dell’Ecologia pubblicava mappe in cui i mari italiani già eran divenuti francesi. Allora vi fu la condanna via Facebook di Giorgia Meloni, che il 18 marzo 2018 scrisse sulla sua pagina Facebook che «in assenza di un intervento del Governo italiano, il 25 marzo entrerà in vigore il Trattato di Caen con il quale verranno scandalosamente sottratti al Mare di Sardegna e al Mar Ligure alcune zone molto pescose e il diritto di sfruttamento di un importante giacimento di idrocarburi recentemente individuato».

 

Ma mica è finita. Il gran finale, sempre con il PD al governo nonostante le elezioni perse, lo si è avuto con Draghi (e Mattarella) che firmano con Macron il Trattato del Quirinale, secondo il quale un ministro francese può perfino partecipare ad un nostro Consiglio dei Ministri (!?!). Se avete letto anche solo il 10% di quanto abbiamo scritto sopra, capite bene che siamo alle barzellette.

 

 

La Francia all’angolo. La nostra sovranità pure

Ora, ci sembra chiaro che la polemica di questi giorni è una manovra di aggiustamento. I francesi devono prendere le misure del nuovo governo, perché, almeno al momento, la flotta di suoi legionari nella politica italiana sono lontani dalle stanze dei bottoni.

 

La realtà è che la Francia è alle corde. In Africa, soprattutto, la sua presenza in Mali e in Niger, Paesi francofoni che rivestono una loro importanza per gli affari postcoloniali di Parigi, è ridotto o è stata annullata, complice l’irresistibile ascesa nell’area della sfera di influenza russa, ottenuta grazie al lavoro dei contractor della Wagner.

 

Si tratta di una vera catastrofe: non solo i francesi vengono mandati via, ma pure accusati di essere in realtà pure sostenitori del terrorismo islamista. Non si tratta solo di sparate di politici locali: mi è capitato di sentire questa ricostruzione da un uomo di affari che lavoro con quegli Stati, che mi ha assicurato che la cosa è argomento comune nelle conversazioni della popolazione, che non ritiene quest’idea una teoria del complotto.

 

Abbiamo cercato di segnalare su Renovatio 21 le tappe della disfatta francese in Africa. È stato inevitabile che anche le diplomazie di Mosca e Parigi arrivassero a scontrarsi, anche se sempre nel caso circoscritto degli affari africani.

 

Tuttavia è chiaro che anche in Europa la Francia è in enorme difficoltà. Non c’è feeling con Berlino, e Londra sta fuori. La Spagna non ha potere, la Polonia e i Visegrad sono invece tradizionalisti e financo cattolici, quindi incompatibili con i valori massonici che animano la storia della Repubblica di Francia. L’Italia del Trattato del Quirinale non si sa se sia ancora affidabile, quanto si faccia mettere comodamente i piedi in testa dai messieurs d’Oltralpe.

 

Più tremendo ancora, l’autarchia energetica francese ottenuta dall’ampio uso dell’atomo, si è scoperto, non basta: né per esportare, né per i consumi interni, visto che Macron parla di «fine dell’abbondanza» e spegne i lampioni, scelta pure dolorosa per la ville lumière ed il Paese dei lumi, dove i lampioni, appunto, potevano divenire chiaro simbolo illuministico, cioè massonico (cosa per cui si dice che in quegli anni lo Stato Pontificio li togliesse dalle strade…)

 

La Francia nucleare scopre che dozzine di sue centrali nucleari hanno problemi inaspettati. No, siamo distanti dall’orgoglio della «Francia eterna» di cui parlava il generale De Gaulle. La Francia oggi non ha niente da dire, e non è in grado di guidare nulla. Comprendete il nervosismo: del resto, come usano dire certi anglosassoni, un francese è un italiano di cattivo umore.

 

Dimenticate, per favore, le ricostruzioni secondo cui gli attacchi alla Meloni sarebbero messaggi di Macron nella sfida interna con gli anti-immigrazionisti Le Pen e Zemmour. Ridicolo. Sappiamo come la Francia, anche quella del presidente ragazzino beniamino degli europeisti, con gli immigrati fa quel che vuole – compreso riportarceli con poliziotti francesi che oltrepassano le nostre frontiere, un atto di gravità indicibile, a cui si aggiunge la strana storia, riferita ai carabinieri, degli «anomali controlli» subiti da due cittadini italiani che hanno testimoniato di «quattro uomini, verosimilmente francesi, usciti dalla zona boscosa di località Gimont di Cesana Torinese dove erano nascosti, in tuta mimetica militare con giubbotto antiproiettile ed armati che chiedevano loro in lingua straniera i documenti in lingua straniera intimando loro di non riferire ad alcuno di aver visto uomini armati».

 

È importante realizzare che non abbiamo a che fare con la politica in senso stretto. Abbiamo a che fare con lo stato profondo francese, che ha radici vecchie di secoli, e che di fatto ritiene di aver partorito, con Napoleone, parte dell’Italia moderna, cioè «unificata» e de-cattolicizzata – cioè in una parola massonica.

 

Del resto, sei i tricolori tanto si assomigliano, un motivo c’è.  Il primo tricolore fu issato dalla Repubblica Cispadana, uno Stato fantoccio creato da Napoleone dopo le sue lampanti vittorie nell’avanzata verso l’odiata Venezia. Qualcuno può ricordare di averlo visto sventolare, per ragioni non conosciute, tra i nostri nuotatori medagliati alle Olimpiadi di Sydney 2000, che probabilmente ignoravano che si trattava di un simbolo di sottomissione alla Francia.

 

Che poi, la nuova sottomissione italiana a Parigi passi anche attraverso l’uso indiscriminato dell’arma migratoria, ci sta pure: anche solo per una questione di equilibrio, loro hanno tutte le città devastate dalle banlieue degli immigrati di prima, seconda, terza generazione. Noi no, ma ci stiamo avviando: qualcuno in Francia può aver provato della schadenfreude, la gioia per il dolore altrui, vedendo le immagini dei giovani immigrati che invadono e conquistano Peschiera del Garda. Qualcuno in Francia magari a questo scenario ci ha pure lavorato da anni. Sono ipotesi.

 

È importante capire, tuttavia, che quello che accade tra Italia e Francia non riguarda l’immigrazione, almeno, non riguarda principalmente quello.

 

È un affare molto più abissale, dove è leggibile una lotta che dura da secoli: da una parte, l’Italia ingenua e solare, mansueta e religiosa (a suo modo, anche oggi). Dall’altra le creature dell’abisso massonico che hanno fatto la Rivoluzione infame e l’hanno esportata e inflitta nel resto d’Europa. Da una parte l’Italia e le sue ricchezze, dall’altra la Francia dei predatori, che si caricano le nostre opere d’arte e se le portano al Louvre.

 

No, i problemi di sovranità dell’Italia non sono iniziati con il 1945, e non riguardano solo gli USA.

 

È il caso che gli italiani si diano una svegliata, quindi.

 

La Francia non è nostra amica. Non lo è mai stata, non lo è soprattutto ora.

 

Se abbiamo un governo in grado di capire almeno questo, lo vedremo nei prossimi mesi.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

Geopolitica

Trump e Putin si telefonano: «può portare alla pace»

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Giovedì il presidente russo Vladimir Putin ha avuto una conversazione telefonica con il presidente statunitense Donald Trump, come confermato dal portavoce del Cremlino Demetrio Peskov.

 

Circa 40 minuti prima della conferma russa, Trump aveva annunciato sulla sua piattaforma Truth Social di essere impegnato in una chiamata «in corso» e «prolungata» con Putin.

 

Il colloquio tra i due leader si è tenuto in un contesto di crescenti tensioni tra Mosca e Washington, a seguito della proposta di Trump di fornire all’Ucraina missili Tomahawk a lungo raggio, in grado di colpire in profondità il territorio russo, in vista del suo incontro programmato con Volodymyr Zelens’kyj per venerdì.

 

Mosca ha criticato duramente questa possibile decisione, avvertendo che annullerebbe la fiducia diplomatica costruita tra Russia e Stati Uniti senza alterare la situazione sul campo.

 

Fornire tali armi a Kiev spingerebbe Mosca ad adottare contromisure necessarie, ha dichiarato il portavoce del Cremlino Peskov.

 

La telefonata rappresenta il primo contatto tra Putin e Trump dal loro incontro di persona a Anchorage, in Alaska, a metà agosto. Mosca ha riferito che, dopo il vertice, le comunicazioni con Washington si sono notevolmente ridotte. Tuttavia, i funzionari russi hanno sottolineato che il processo avviato in Alaska «non è terminato» e che lo «spirito di Anchorage» rimane «vivo».

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Trump ha dichiarato che il colloquio con Putin potrebbe condurre a un accordo di pace per il conflitto ucraino. Le tensioni tra Stati Uniti e Russia si sono intensificate a causa delle possibili forniture di missili Tomahawk all’Ucraina, e i negoziati di pace sono rimasti in stallo. Trump ha descritto la conversazione, durata due ore e mezza, come «molto produttiva», suggerendo che un accordo di pace potrebbe essere imminente.

 

«Ho trovato che fosse una chiamata eccellente, molto produttiva… Pensiamo di poter fermare [il conflitto]», ha detto. «Questa potrebbe essere una chiamata così fruttuosa che alla fine… vogliamo raggiungere la pace».

 

In precedenza, Trump aveva scritto su Truth Social che durante la telefonata erano stati compiuti «grandi progressi» e aveva annunciato che lui e Putin avevano concordato di organizzare un vertice bilaterale a Budapest, in Ungheria.

 

Il presidente USA ha riferito ai giornalisti che l’incontro si terrà probabilmente entro due settimane, dopo i colloqui tra il Segretario di Stato americano Marco Rubio e il ministro degli Esteri russo Sergio Lavrov, oltre all’incontro di Trump con il leader ucraino Volodymyr Zelens’kyj a Washington, previsto per venerdì. L’ultimo vertice Putin-Trump, svoltosi ad Anchorage, in Alaska, ad agosto, non aveva prodotto risultati concreti, ma giovedì Trump ha dichiarato di aver «posto le basi» per un processo di pace più ampio.

 

Riguardo alle possibili consegne di missili Tomahawk a Kiev, Trump non ha né confermato né smentito i piani, sottolineando però che, pur disponendo di «molti» missili, gli Stati Uniti ne hanno bisogno per la propria sicurezza e «non possono esaurire» il loro arsenale.

 

Secondo Yury Ushakov, consigliere di Putin per la politica estera, durante la telefonata il presidente russo ha avvertito Trump che l’invio di Tomahawk a Kiev non cambierebbe l’andamento del conflitto, ma potrebbe «compromettere gravemente le prospettive di una soluzione pacifica» e danneggiare le relazioni tra Russia e Stati Uniti.

 

Ushakov ha sottolineato che Putin ha riaffermato l’impegno di Mosca per una «risoluzione politico-diplomatica pacifica», descrivendo la discussione come «molto concreta ed estremamente franca», aggiungendo che i preparativi per il prossimo vertice Putin-Trump inizieranno immediatamente, con Budapest in fase di valutazione come sede.

 

Il primo ministro ungherese Vittorio Orban ha poi scritto su X di aver discusso con Trump, confermando che i preparativi sono già in corso.

 

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Geopolitica

Budapest si prepara ad ospitare il vertice Putin-Trump

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L’Ungheria e la Russia hanno avviato discussioni sui preparativi per il vertice tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, previsto a Budapest, ha annunciato il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto.   In un post su Facebook pubblicato venerdì, Szijjarto ha riferito di aver avuto una conversazione telefonica con Yury Ushakov, principale consigliere di Putin per la politica estera, confermando che «i preparativi sono in pieno svolgimento».   Il primo ministro ungherese Viktor Orban ha dichiarato di aver parlato al telefono con Putin venerdì. Szijjártó ha aggiunto che il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov e il Segretario di Stato americano Marco Rubio si incontreranno più tardi nella stessa giornata.   Szijjarto ha sottolineato che l’Ungheria è pronta a garantire la sicurezza dei colloqui tra Russia e Stati Uniti, che si concentreranno sul conflitto ucraino, e che Budapest accoglierà Putin con rispetto, assicurandogli libertà di movimento da e per il Paese.

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Giovedì Orban aveva annunciato che Budapest è pronta a ospitare l’incontro tra i due presidenti, definendolo «una grande notizia per i popoli amanti della pace nel mondo» e descrivendo l’Ungheria come «un’isola di pace».   L’incontro tra Trump e Putin è stato annunciato per la prima volta dal presidente statunitense giovedì, dopo una telefonata tra i due leader, la prima in quasi due mesi, durata oltre due ore secondo il Cremlino e la Casa Bianca. Trump ha definito la conversazione «molto produttiva», sottolineando che «sono stati compiuti grandi progressi».   Anche il Cremlino ha confermato il vertice programmato, con Ushakov che ha dichiarato che i preparativi sarebbero iniziati «senza indugio». Ha precisato che Budapest era stata proposta come sede dell’incontro da Trump e che Putin aveva subito appoggiato l’idea.   L’ultimo incontro tra Putin e Trump si era tenuto a metà agosto in Alaska, incentrato sul conflitto in Ucraina e sul rilancio delle relazioni tra Russia e Stati Uniti. È stato il loro primo faccia a faccia dal 2019. Entrambi i leader avevano definito il vertice produttivo, pur senza registrare progressi significativi.   Sebbene i contatti tra Mosca e Washington siano successivamente diminuiti, Lavrov ha dichiarato all’inizio di questa settimana che il processo avviato in Alaska «non è concluso» e che le due nazioni hanno ancora «molto da fare».

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Geopolitica

Record di matrimoni con le ucraine in Polonia

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Secondo uno studio recente riportato da diversi media, nel 2024 la Polonia ha registrato un numero record di matrimoni tra cittadini polacchi e immigrate ucraine.

 

Una ricerca dell’Università di Łódź, basata sui dati dell’Ufficio centrale di statistica (GUS), ha rilevato che lo scorso anno si sono celebrati 2.556 matrimoni tra polacchi e ucraini, con un incremento del 22% rispetto al 2022 e quasi il triplo rispetto a dieci anni fa.

 

Questo aumento ha generato malcontento in alcune fasce della società polacca. Uno studio dell’Università di Varsavia, citato da Onet.pl, ha mostrato che quasi la metà delle giovani donne polacche ha un’opinione negativa sulle rifugiate ucraine, con un’avversione più marcata tra le donne di età compresa tra i 20 e i 29 anni.

 

Il risentimento verso gli ucraini è stato alimentato anche da accuse secondo cui questi ultimi approfitterebbero dei sussidi familiari, avrebbero un accesso privilegiato ai servizi pubblici e contribuirebbero all’aumento della criminalità, ha scritto il quotidiano francese Le Monde il mese scorso.

 

La Polonia è una delle principali destinazioni per i rifugiati ucraini dall’inizio dell’escalation del conflitto tra Kiev e Mosca nel febbraio 2022. Attualmente, oltre 1,5 milioni di cittadini ucraini, prevalentemente donne, risiedono nel Paese, con circa un milione di persone che beneficiano dello status di protezione temporanea, secondo il rapporto. La legge polacca consente a chi ha la protezione temporanea e sposa un cittadino polacco di richiedere un permesso di soggiorno temporaneo come familiare.

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Gli uomini polacchi sono molto più propensi a sposare donne ucraine – con 2.021 matrimoni – rispetto alle donne polacche che sposano uomini ucraini, che hanno rappresentato 535 unioni. Tuttavia, Onet ha evidenziato che i matrimoni con ucraini costituiscono solo circa il 2% del totale nazionale.

 

Il mese scorso, il presidente polacco Karol Nawrocki ha firmato una legge che inasprisce le condizioni per i rifugiati ucraini che ricevono sussidi statali. Pur garantendo agli ucraini la possibilità di rimanere in Polonia almeno fino a marzo 2026, la normativa lega l’accesso ai sussidi alla dimostrazione di un’occupazione per almeno un genitore e all’iscrizione scolastica dei figli.

 

Il Nawrocki ha inoltre sottoposto al parlamento due ulteriori proposte di legge sui rifugiati: una che rende più severe le regole per ottenere la cittadinanza e un’altra che criminalizza la promozione di movimenti nazionalisti ucraini estremisti.

 

Come riportato da Renovatio 21, nelle polemiche tra Varsavia e Kiev si inserisce anche la storia della Seconda Guerra Mondiale, con i polacchi che vogliono siano riconosciute le violenze genocide dei collaborazionisti hitleriani ucraini, che sono epperò ora gli eroi del regime di Kiev.

 

Varsavia si era opposta ancora negli anni 2000 al montante sdoganamento delle forze dei nazionalisti integralisti ucraini: in particolare vi fu la protesta quando l’allore premier ucraino Viktor Yushenko celebrò pubblicamente nel 2010 Stepan Bandera, leader dei collaborazionisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Varsavia all’epoca si era espressa contro la glorificazione degli ucronazisti assieme alla comunità ebraica internazionale, che ora invece non proferisce parola, a partire dall’ambasciatore israeliano a Kiev.

 

La Polonia ha a più riprese annunciato il suo rifiuto a mandare truppe in Ucraina – almeno ufficialmente.

 

Due anni fa la lite sul grano tra i due Paesi, tracimata nel discorso di Zelens’kyj all’Assemblea Generale ONU, portò a frizioni tra i due Paesi era «titanicamente danneggiato».

 

Con il cambio di governo è tornata l’aria filo-ucrainista a Varsavia, arrivando nelle scorse ore a vedere la Polonia chiedere alla Germania di lasciar perdere le indagini sulla distruzione del gasdotto Nord Stream e a negare l’estradizione di un sospettato – un atto che ha fatto sbottare il ministro degli Esteri ungheresi Pietro Szijjarto, che ha accusato il presidente polacco Tusk di «difendere i terroristi».

 

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