Cina
La Sri Lanka dà a Pechino un progetto portuale destinato prima a India e Giappone
China Harbour Engineering costruirà il terminal container orientale nel porto della capitale. Agli indiani rimane quello nel settore occidentale. Il presidente srilankese dice di dover bilanciare i rapporti con i cinesi e Delhi. Sullo sfondo i timori per la «trappola del debito» di Pechino.
Il governo del presidente Gotabaya Rajapaksa ha assegnato a una compagnia cinese un progetto per lo sviluppo portuale della capitale destinato prima a India e Giappone.
China Harbour Engineering costruirà il terminal container nella parte orientale dello scalo di Colombo. Nel maggio 2019 l’amministrazione Sirisena aveva stipulato un accordo con India e Giappone per realizzare la struttura. A febbraio Rajapaksa ha escluso indiani e nipponici dall’iniziativa, sostenendo che il suo esecutivo l’avrebbe portata avanti in autonomia: il 23 novembre la nuova svolta, con il riconoscimento della partecipazione cinese.
A febbraio Rajapaksa ha escluso indiani e nipponici dall’iniziativa, sostenendo che il suo esecutivo l’avrebbe portata avanti in autonomia: il 23 novembre la nuova svolta, con il riconoscimento della partecipazione cinese
Rajapaksa ha giustificato la mossa con la necessità di bilanciare i rapporti con Pechino e Delhi. A fine settembre il conglomerato indiano Adani Group si è assicurato un contratto da 700 milioni di dollari per lo sviluppo del terminal container occidentale di Colombo.
Lo Sri Lanka ha scarse riserve di valuta estera e gravi problemi di debito. Pechino continua a finanziarla con una linea di credito da un miliardo di dollari.
Secondo osservatori locali ed esteri, Rajapaksa fa concessioni a Pechino sulle infrastrutture nazionali per ottenere nuovi prestiti. Egli ha rinunciato a rivedere il contratto d’affitto del porto di Hambantota, in gestione a Pechino dal 2017 per 99 anni come parte di un’intesa per ripagare i debiti contratti con il gigante cinese.
Rajapaksa ha rinunciato a rivedere il contratto d’affitto del porto di Hambantota, in gestione a Pechino dal 2017 per 99 anni come parte di un’intesa per ripagare i debiti contratti con il gigante cinese
Data la posizione geografica dell’isola, collocata lungo le rotte marittime tra Europa, Medio oriente e Asia orientale, la Cina considera lo Sri Lanka un elemento chiave della sua Belt and Road Initiative: il piano infrastrutturale globale lanciato nel 2013 da Xi Jinping per accrescere la centralità commerciale (e quindi geopolitica) di Pechino.
Per i partner della Belt and Road si parla da tempo di «trappola del debito»: il rischio di dover cedere propri asset alla Cina, soprattutto infrastrutture come porti, in caso di mancata restituzione di prestiti e relativi interessi.
Secondo AidData, 40 dei 50 maggiori prestiti stanziati da creditori statali cinesi hanno ricevuto garanzie «collaterali» dai governi clienti.
Immagine di Mahinda Rajapaks via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic (CC BY-NC 2.0)
Cina
Prima vendita di armi a Taiwan sotto Trump
Il dipartimento della Difesa statunitense ha reso noto di aver autorizzato la prima cessione di armamenti a Taiwan dall’insediamento del presidente Donald Trump a gennaio. Pechino, che rivendica l’isola autonoma come porzione del proprio territorio, ha tacciato l’iniziativa come un attentato alla sua sovranità.
Il contratto in esame prevede che Taipei investa 330 milioni di dollari per acquisire ricambi destinati agli aeromobili di produzione americana in dotazione, come indicato giovedì in un comunicato del Dipartimento della Difesa degli USA.
Tale approvvigionamento dovrebbe consentire a Formosa di «preservare l’operatività della propria squadriglia di F-16, C-130» e altri velivoli, come precisato nel documento.
La portavoce dell’ufficio presidenziale taiwanese, Karen Kuo, ha salutato la decisione con favore, definendola «un pilastro essenziale per la pace e la stabilità nell’area indo-pacifica» e sottolineando il rafforzamento del sodalizio di sicurezza tra Taiwan e Stati Uniti.
Secondo il ministero della Difesa di Taipei, l’erogazione dei componenti aeronautici americani «diverrà operativa» entro trenta giorni.
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Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Lin Jian, ha espresso in un briefing il «profondo rammarico e l’opposizione» di Pechino alle forniture belliche USA a Taiwano, che – a suo dire – contrastano con gli interessi di sicurezza nazionali cinesi e «inviano un messaggio fuorviante alle frange separatiste pro-indipendenza taiwanesi».
La vicenda di Taiwan costituisce «la linea rossa imprescindibile nei rapporti sino-americani», ha ammonito Lin.
Formalmente, Washington aderisce alla politica della «Cina unica», sostenendo che Taiwan – che esercita de facto l’autogoverno dal 1949 senza mai proclamare esplicitamente la separazione da Pechino – rappresenti un’inalienabile componente della nazione.
Ciononostante, gli USA intrattengono scambi con le autorità di Taipei e si sono impegnati a tutelarla militarmente in caso di scontro con la madrepatria.
La Cina ha reiterato che aspira a una «riunificazione pacifica» con Taiwan, ma non ha escluso il ricorso alle armi se l’isola dichiarasse formalmente l’indipendenza.
A settembre, il Washington Post aveva rivelato che Trump aveva bloccato un’intesa sulle armi da 400 milioni di dollari con Taipei in vista del suo colloquio con l’omologo Xi Jinpingo.
Come riportato da Renovatio 21, all’inizio del mese, in un’intervista al programma CBS 60 Minutes, Trump aveva riferito che i dialoghi con Xi, tenutisi a fine ottobre in Corea del Sud, si sono concentrati sul commercio, mentre la questione taiwanese «non è stata toccata».
In settimana la neopremier nipponica Sanae Takaichi aveva suscitato le ire di Pechino parlando di un impegno delle Forze di Autodifesa di Tokyo in caso di invasione di Taiwano.
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
Cina
Apple elimina le app di incontri gay dal mercato cinese
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Cina
Test dimostrano che i veicoli elettrici possono essere manipolati a distanza da un produttore cinese
I test di sicurezza sui trasporti pubblici in Norvegia hanno rivelato che i produttori cinesi possono accedere e controllare a distanza gli autobus elettrici.
Una compagnia di autobus norvegese ha condotto dei test segreti confrontando autobus realizzati da produttori europei e cinesi per scoprire se i veicoli rappresentassero una minaccia per la sicurezza informatica.
Non sono stati segnalati problemi con l’autobus europeo, ma si è scoperto che il veicolo cinese, prodotto da un’azienda chiamata Yutong, poteva essere manipolato a distanza dal produttore.
Questa manipolazione includeva la possibilità di accedere al software, alla diagnostica e al sistema di batterie dell’autobus. Il produttore cinese aveva la possibilità di fermare o immobilizzare il veicolo.
Arild Tjomsland, un accademico che ha collaborato ai test, ha sottolineato i rischi: «l’autobus cinese può essere fermato, spento o ricevere aggiornamenti che possono distruggere la tecnologia di cui l’autobus ha bisogno per funzionare normalmente».
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Tjomsland ha poi aggiunto che, sebbene gli hacker o i fornitori non siano in grado di guidare gli autobus, la capacità di fermarli potrebbe essere utilizzata per interrompere le operazioni o per esercitare un’influenza sul governo norvegese durante una crisi.
Le preoccupazioni sui veicoli cinesi sono diffuse. I think tank hanno lanciato l’allarme: i veicoli elettrici potrebbero essere facilmente «armati» da Pechino.
Le aziende cinesi hanno testato su strada i loro veicoli negli Stati Uniti, raccogliendo dati, tra cui roadmap, che gli esperti ritengono potrebbero rivelarsi di utilità strategica.
I risultati dei test sono stati ora trasmessi ai funzionari del ministero dei Trasporti e delle Comunicazioni in Norvegia.
La militarizzazione dei prodotti cinesi importati in gran copia non riguarda solo le auto.
Come riportato da Renovatio 21, mesi fa è emerso che sono stati trovati dispositivi «non autorizzati» trovati nascosti nei pannelli solari cinesi che potrebbero «distruggere la rete elettrica».
Una trasmissione giornalistica italiana aveva dimostrato che nottetempo le telecamere cinesi usate persino nei ministeri italiani inviavano dati a server della Repubblica Popolare.
Il lettore di Renovatio 21, ricorderà tutta la querelle attorno al decreto del governo Conte bis, in piena pandemia, chiamato «Cura Italia» (da noi ribattezzato più onestamente «Cina Italia»), che in bozza conteneva concessioni a produttori di IT di 5G cinesi come Huawei che, secondo alcuni, mettevano a rischio la sicurezza del nostro Paese e del blocco cui è affiliato.
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