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Geopolitica

L’Impero americano post-11 Settembre sorveglia, saccheggia, uccide

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Questo articolo è estratto dal libro Sotto i nostri occhi.

 

 

 

Continuiamo la pubblicazione del libro di Thierry Meyssan, Sous nos yeux. In questo episodio l’autore espone le trasformazioni dell’impero americano, esito dell’11 Settembre: all’interno, la creazione di un sistema di sorveglianza della popolazione civile, all’estero, l’avvio della guerra senza fine nel Grande Medio Oriente. Meyssan riesamina anche l’influenza postuma del filosofo Leo Strauss, che ha aiutato le classi dirigenti USA e israeliana a tacitare gli scrupoli che l’attuazione di un simile programma avrebbe potuto suscitare.

 

 

La strategia di Washington

Torniamo alla nostra storia. Nel 2001 Washington finì per sviluppare la convinzione di un’imminente penuria di fonti energetiche.

 

Il gruppo di lavoro presieduto da Dick Cheney, che gestiva lo sviluppo della politica energetica nazionale (NEPD), aveva ascoltato tutti i responsabili pubblici e privati delle forniture di idrocarburi. Dopo aver incontrato l’allora segretario generale di questa organizzazione – che il Washington Post descriveva come «società segreta» (1) –, rimasi colpito dalla sua determinazione e dai piani progettuali per affrontare tale scarsità. Così, non conoscendo i dettagli della questione, adottai tale visione alquanto maltusiana.

 

In ogni caso, la conclusione di Washington si risolse nella necessità di acquisire al più presto le riserve conosciute di idrocarburi per garantire il mantenimento e il funzionamento della propria economia.

 

Questa politica sarà abbandonata quando l’élite degli Stati Uniti si renderà conto della possibilità di sfruttare forme di petrolio diverse rispetto al greggio saudita, ovvero il petrolio del Texas o del Mare del Nord.

 

Sulla base degli obiettivi inglesi e israeliani, intende rimodellare la regione, ossia sconvolgere i confini ereditati degli imperi europei, rimuovere i grandi Stati in grado di resistere e creare staterelli etnicamente omogenei.

Assumendo il controllo della Pemex (2), gli Stati Uniti s’impadroniranno delle riserve del Golfo del Messico e proclameranno la propria indipendenza energetica nascondendo l’operazione con la promozione del petrolio e del gas di scisto. Oggi, contrariamente alle previsioni di Dick Cheney, la disponibilità di petrolio non è mai stata tanto elevata e a buon mercato.

 

Per controllare il «Grande Medio Oriente», il Pentagono esige flessibilità e la possibilità di differenziare il suo obiettivo strategico dai desiderata delle compagnie petrolifere.

 

Sulla base degli obiettivi inglesi e israeliani, intende rimodellare la regione, ossia sconvolgere i confini ereditati degli imperi europei, rimuovere i grandi Stati in grado di resistere e creare staterelli etnicamente omogenei.

 

Oltre a essere evidentemente un progetto di dominio, il piano tratta l’intera regione senza riguardo alcuno per le condizioni locali. Se talvolta le popolazioni sono distinte geograficamente, altre volte sono assolutamente interconnesse, rendendone illusoria la separazione se non tramite grandi massacri.

 

 

In realtà, il gruppo che ha organizzato gli attentati dell’11 settembre − di cui faceva parte anche Dick Cheney − ne era consapevole e vi aveva riflettuto ben prima di quella data. Questa la ragione di una vasta riforma delle forze armate, conforme al modello dell’ammiraglio Arthur Cebrowski, che aveva già trasformato le pratiche militari USA, adattandole ai nuovi strumenti informatici (3).

 

L’ammiraglio aveva anche elaborato una strategia per distruggere gli Stati, in quanto organizzazioni politiche, così da permettere alle grandi società informatiche di rimpiazzarle nel governo del mondo globalizzato (4). All’indomani dell’11 Settembre, la rivista dell’esercito, Parameters (5), ha illustrato il progetto di rimodellamento del Grande Medio Oriente, precisando trattarsi di un piano particolarmente sanguinoso e feroce. La rivista precisava anche che sarebbero stati necessari crimini contro l’umanità, che però avrebbero potuto essere subappaltati. Il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld metterà a disposizione di Cebrowski un ufficio al Pentagono.

 

L’ammiraglio aveva anche elaborato una strategia per distruggere gli Stati, in quanto organizzazioni politiche, così da permettere alle grandi società informatiche di rimpiazzarle nel governo del mondo globalizzato

L’11 Settembre quindi non sarà soltanto un mezzo per far adottare d’urgenza una legge emergenziale contro il terrorismo, l’Usa Patriot Act − redatto con almeno due anni di anticipo − sarà anche l’occasione per avviare una vasta riforma istituzionale: creazione del Segretariato per la Difesa della Patria (Department of Homeland Security, spesso impropriamente tradotto Dipartimento per la Sicurezza Interna), nonché di Forze Speciali clandestine in seno alle forze armate.

 

Il Dipartimento per la Sicurezza della Patria controlla non soltanto agenzie come la Guardia Costiera o i servizi per l’immigrazione, ma anche un vasto sistema di sorveglianza della popolazione statunitense, dove lavorano a tempo pieno 112 mila spie interne (6).

 

Le Forze Speciali clandestine sono un esercito di 60 mila uomini super-addestrati, che operano senza uniforme, a dispregio delle Convenzioni di Ginevra (7). Sono in grado di uccidere chiunque e ovunque voglia il Pentagono. E il Pentagono certo non rinuncia a sfruttare nella massima segretezza simile investimento.

 

 

Le guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq

Le operazioni iniziano con la guerra ai talebani – secondo la dottrina Cheney –, dopo l’interruzione delle trattative per la costruzione di un oleodotto attraverso l’Afghanistan, a metà luglio 2001.

 

L’ambasciatore Niaz Naik, che ha rappresentato il Pakistan nei negoziati di Berlino con i talebani, torna a Islamabad convinto che l’attacco degli Stati Uniti sia inevitabile (8). Il suo paese comincia dunque a prepararsi alle conseguenze. La flotta inglese viene schierata nel Mar Arabico, la NATO invia 40 mila uomini in Egitto e il capo tagiko Ahmad Shah Massoud viene assassinato due giorni prima degli attacchi a New York e Washington.

 

I rappresentanti di Stati Uniti e Regno Unito alle Nazioni Unite – John Negroponte e Sir Jeremy Greenstock – assicurano che il presidente George W. Bush e il primo ministro Tony Blair stanno applicando il diritto alla legittima difesa attaccando l’Afghanistan. Ma tutte le cancellerie sanno bene che a Washington e Londra si è sempre voluta questa guerra, indipendentemente dagli attentati. Nella migliore delle ipotesi, la percezione è che si stia strumentalizzando un crimine del quale solo la prima potenza è stata vittima. Comunque, io stesso riesco a suscitare molti dubbi – a livello mondiale – rispetto a ciò che è realmente accaduto l’11 settembre. In Francia, il presidente Jacques Chirac fa esaminare il mio lavoro dalla DGSE: dopo un’indagine approfondita, emerge che tutti gli elementi su cui mi sono basato sono veri, ma che non può in alcun modo confermare le mie conclusioni.

 

Le Monde, che ha già avviato una campagna per screditarmi, si fa beffe delle mie previsioni secondo cui gli Stati Uniti sarebbero pronti ad attaccare l’Iraq (9). Eppure, accade l’inevitabile: Washington accusa Baghdad di ospitare membri di Al Qaeda e di essere in possesso di armi di distruzione di massa per attaccare la «terra dei liberi». Sarà quindi guerra, come nel 1991.

Ognuno decide quindi di fare i conti con la propria coscienza. Continuando a chiudere gli occhi di fronte al colpo di Stato dell’11 settembre, ci si astiene dal contestare la strategia degli Stati Uniti e ci si trova quindi obbligati ad approvare i crimini conseguenti, ossia – in questo caso – l’invasione dell’Iraq.

 

Solo un alto funzionario internazionale, Hans Blix, decide di difendere la verità (10). Il diplomatico svedese è l’ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) e presiede la Commissione di controllo, di verifica e d’ispezione delle Nazioni Unite, con il compito di monitorare l’Iraq. Opponendosi a Washington, sostiene che l’Iraq non possiede le armi di cui viene accusato. Una pressione senza precedenti lo opprime: non solo l’impero statunitense, ma tutti gli alleati fanno leva su di lui perché ponga fine ai suoi giochetti e lasci che la prima potenza mondiale distrugga l’Iraq. Non cederà neanche quando il suo successore all’AIEA, l’egiziano Muhammad al-Baradei, si fingerà conciliante.

 

Il 5 febbraio 2003, il segretario di Stato ed ex capo di Stato maggiore congiunto Colin Powell tiene un discorso al Consiglio di sicurezza, seguendo il testo preparato dalla squadra di Cheney. Accusa l’Iraq di ogni nefandezza, tra cui la protezione dei responsabili degli attacchi dell’11 settembre e la preparazione di armi di distruzione di massa per attaccare gli Stati occidentali. Tra l’altro, rivela il nuovo volto di Al Qaeda, Abu Musab al-Zarqawi.

 

Ma, a sua volta, Jacques Chirac rifiuta di partecipare al progetto criminale, anche se non intende denunciare le menzogne di Washington. Invia il suo ministro degli Esteri, Dominique de Villepin, al Consiglio di sicurezza: il ministro lascia a Parigi i rapporti della DGSE e incentra il proprio intervento sulla differenza tra guerra imposta e guerra scelta. È chiaro che l’attacco all’Iraq non ha alcun legame con gli attentati dell’11 settembre, ma si tratta di una scelta imperiale, una guerra di conquista. Villepin evidenzia quindi i risultati già ottenuti da Blix in Iraq e sgonfia le accuse degli Stati Uniti dimostrando che l’uso della forza, in quella fase, non è giustificato, concludendo che non vi è alcun elemento che dimostri che la guerra avrebbe portato risultati migliori rispetto al proseguimento delle ispezioni. Il Consiglio di sicurezza applaude, con la convinzione che l’intervento possa rappresentare una via d’uscita a Washington per evitare la guerra. È la prima volta che alcuni diplomatici applaudono un collega in quella sala.

 

Ma Washington e Londra non imporranno solo la guerra: dimenticando Hans Blix, gli Stati Uniti si impegneranno in ogni sorta di operazione per «farla pagare» a Chirac. Il presidente francese abbasserà presto la guardia e farà più del necessario per aiutare i suoi padroni statunitensi.

 

Questa crisi ci costringe a far tesoro di una grande lezione. Hans Blix, come il suo compatriota Raoul Wallenberg durante la seconda guerra mondiale, rifiuta l’idea per cui gli statunitensi – o i tedeschi – siano superiori agli altri. Tenta di salvare vite umane la cui unica colpa è quella di essere iracheni (o ebrei ungheresi). Jacques Chirac vorrebbe sposare la stessa linea, ma i suoi precedenti errori e i segreti privati lo espongono a ricatti che non gli lasciano altra scelta che dimettersi o sottomettersi.

 

Washington prevede di mettere al potere a Baghdad gli iracheni in esilio che ha scelto tra i membri di un’organizzazione inglese, il Consiglio nazionale iracheno guidato da Ahmad Chalabi, un truffatore internazionale già condannato per la bancarotta della Petra Bank in Giordania.

 

L’azienda aerospaziale Lockheed Martin crea un Comitato per la liberazione dell’Iraq (11), del quale l’ex segretario di Stato e mentore di Bush junior, George Shultz, assume la presidenza. Il Comitato e il Consiglio di Chalabi «vendono» la guerra all’opinione pubblica statunitense garantendo che gli Stati Uniti si limiteranno ad aiutare l’opposizione irachena e solo per poco tempo.

 

Come l’attacco all’Afghanistan, quello all’Iraq è stato preparato prima degli attentati a New York e Washington. All’inizio del 2001, il vicepresidente Dick Cheney ha negoziato personalmente l’installazione di basi militari statunitensi in Kirghizistan, Kazakistan e Uzbekistan nel quadro dello sviluppo degli accordi del CENTRASBAT (il battaglione dell’Asia Centrale) della Comunità economica dell’Asia centrale.

 

I pianificatori hanno previsto che, per questa guerra, alle truppe serviranno 60 mila tonnellate di materiale al giorno, e così il Centro per la gestione dei trasporti militari (Military Traffic Management Command, MTMC) è stato incaricato di procedere con un certo anticipo per predisporvi la logistica.

L’addestramento delle truppe inizia solamente dopo gli attacchi. Si tratta delle più grandi manovre militari della storia, denominate «Millennium Challenge 2002». Queste esercitazioni mescolano operazioni reali e simulazioni presso la sala di Stato maggiore prodotte con i mezzi tecnologici utilizzati a Hollywood per il film Il Gladiatore.

 

Dal 24 luglio al 15 agosto 2002 vengono mobilitati oltre 13 mila uomini. Le isole di San Nicolas e San Clemente – al largo della California – e il deserto del Nevada sono evacuati per fungere da teatro per le operazioni, un’abbondanza di risorse che richiede un budget di 235 milioni di dollari. Per la cronaca, i soldati che simulano le truppe irachene vengono capeggiati dal generale Paul Van Riper che, attuando una strategia non convenzionale, vince facilmente sulle truppe degli Stati Uniti, costringendo lo Stato maggiore a interrompere l’esercitazione prima della fine (12).

 

Ignorando i rapporti di Blix e le obiezioni francesi, Washington lancia l’«Operation Iraqi Liberation» il 19 marzo 2003. Considerato il senso sottinteso (petrolio) dall’acronimo inglese dell’operazione (OIL), viene rinominata «Operation Iraqi Freedom». Una pioggia di fuoco di una potenza mai vista si abbatte su Baghdad causando «shock e stupore» (Shock and Awe), con gli abitanti della capitale che restano traumatizzati mentre Stati Uniti e gli alleati occupano il paese.

 

Il governo viene inizialmente guidato da un ufficio del Pentagono, l’ORHA (Office of Reconstruction and Humanitarian Assistance), e dopo un mese da un funzionario civile nominato dal segretario della Difesa, Paul Bremer III – assistente personale di Henry Kissinger –, che ben presto assumerà la veste di amministratore dell’Autorità provvisoria della Coalizione.

 

Contrariamente a quanto suggerisce il nome, questa autorità non è stata creata dalla Coalizione – che non si è mai riunita – e la sua esatta composizione rimane sconosciuta (13).

 

Per la prima volta appare un ente dipendente dal Pentagono ma che non compare in alcun organigramma degli USA: è ovviamente frutto delle decisioni del gruppo che ha preso il comando l’11 settembre 2001.

 

Nei documenti pubblicati da Washington, l’autorità è designata come organo della Coalizione (se il documento è destinato a stranieri), e come ente governativo degli Stati Uniti (se destinato al Congresso).

 

Con la sola eccezione di un funzionario britannico, tutti i dipendenti dell’autorità sono stipendiati dalle amministrazioni degli Stati Uniti, ma senza essere soggetti alle leggi americane. Così agiscono come meglio credono in relazione al codice degli appalti pubblici. Per esempio, l’autorità sequestra il tesoro iracheno – 5 miliardi di dollari – ma nei suoi conti ne appare solamente uno: che ne è stato dei restanti 4 miliardi? L’interrogativo viene sollevato alla conferenza di Madrid per la ricostruzione, ma non riceverà mai alcuna risposta.

 

L’assistente di Paul Bremer non è altri che Sir Jeremy Greenstock, il rappresentante del Regno Unito al Consiglio di sicurezza che ha giustificato gli attacchi in Afghanistan e Iraq. Durante l’occupazione, gli Stati Uniti prendono in considerazione le opzioni per rimodellare l’Iraq, nel caso specifico la partizione in tre stati. Bremer invia quindi l’ambasciatore Peter Galbraith – che si era occupato della divisione della Jugoslavia in sette stati – come consulente del Governo regionale curdo.

 

Bremer lavora direttamente con il vicesegretario della Difesa Paul Wolfowitz, che ha delineato la strategia degli Stati Uniti dopo la dissoluzione dell’URSS, un trotskista ebreo seguace del pensiero del filosofo tedesco Leo Strauss, del quale molti adepti vengono sistemati da lui stesso al Pentagono per formare un gruppo strutturato, molto coerente e solidale.

 

…Secondo loro, traendo esperienza dalla debolezza della Repubblica di Weimar di fronte ai nazisti, gli ebrei non possono affidarsi alle democrazie per proteggersi da un eventuale nuovo genocidio. Al contrario, dovrebbero schierarsi dalla parte dei regimi autoritari e del potere. Così viene legittimata preventivamente l’idea di una dittatura mondiale

Secondo loro, traendo esperienza dalla debolezza della Repubblica di Weimar di fronte ai nazisti, gli ebrei non possono affidarsi alle democrazie per proteggersi da un eventuale nuovo genocidio. Al contrario, dovrebbero schierarsi dalla parte dei regimi autoritari e del potere. Così viene legittimata preventivamente l’idea di una dittatura mondiale (14).

 

Wolfowitz traccia il quadro operativo dell’Autorità provvisoria della Coalizione, ossia la de-baathificazione del paese – vale a dire la destituzione di tutti i funzionari membri del partito laico Baath – e il relativo saccheggio economico. Su sue istruzioni, Bremer assegna tutti gli appalti pubblici a società amiche, in genere senza bando, escludendo in linea di principio francesi e tedeschi, colpevoli di essersi opposti a questa guerra imperiale (15).

Tutti i membri del Progetto per un nuovo secolo americano – il think tank che ha organizzato l’11 settembre – entrano a far parte – direttamente o indirettamente – o collaborano con l’Autorità provvisoria della Coalizione.

 

Fin dall’inizio, intorno all’autorità c’è grande riluttanza. Prima di tutto quella del rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite, il brasiliano Sérgio Vieira de Mello, che viene assassinato il 19 agosto 2003, presumibilmente dal jihadista Abu Musab al-Zarqawi, già denunciato da Powell alle Nazioni Unite.

 

I parenti del diplomatico sottolineano invece il conflitto che lo aveva messo in contrasto con Paul Wolfowitz e accusano direttamente una fazione degli Stati Uniti. Poi è il turno del generale James Mattis, comandante della Prima divisione dei Marines, preoccupato per le conseguenze disastrose della de-baathificazione. Rientrerà poi nei ranghi.

 

Trascinati dal successo negli Stati Uniti, in Afghanistan e in Iraq, gli uomini dell’11 settembre dirigono il paese verso nuovi obiettivi.

 

 

La Teopolitica

Dal 12 al 14 ottobre 2003 si svolge uno strano incontro all’hotel King David di Gerusalemme.

 

L’invito riporta il seguente messaggio: «Israele è un’alternativa etica al totalitarismo orientale e al relativismo morale occidentale. Israele è il “Ground Zero” della battaglia centrale per la sopravvivenza della civiltà. Israele può essere salvato, insieme al resto dell’Occidente. È tempo di unirsi a Gerusalemme».

 

Diverse centinaia di personaggi dichiaratamente di estrema destra – israeliani e statunitensi – vengono ricevuti a spese della mafia russa. Avigdor Lieberman, Benjamin Netanyahu ed Ehud Olmert si congratulano con Elliott Abrams, Richard Perle e Daniel Pipes.

 

Condividono tutti la stessa convinzione: la teopolitica. Secondo loro, la «fine del mondo» è vicina. Presto il mondo sarà governato da un’istituzione ebraica con sede a Gerusalemme (16).

 

L’incontro turba i progressisti israeliani, soprattutto perché alcuni oratori alludono a Baghdad, occupata sei mesi prima, come all’antica «Babilonia».

 

È evidente che, per loro, la teopolitica cui si rifà il Congresso è una riproposizione del talmudismo. Questa scuola di pensiero – di cui Leo Strauss era un esperto – interpreta l’ebraismo come un’antica preghiera del popolo ebraico per vendicare i crimini degli egiziani contro i loro antenati, la deportazione a Babilonia per mano degli Assiri e persino la distruzione degli ebrei europei da parte dei nazisti. Ritiene che la «dottrina Wolfowitz» stia preparando l’Armageddon – la battaglia finale – che imporrà il caos prima nel Grande Medio Oriente e poi in Europa. Una distruzione generale che rappresenterà la punizione divina per chi ha fatto soffrire il popolo ebraico.

 

L’ex primo ministro Ehud Barak si rende conto dell’errore che ha fatto rifiutando la pace che aveva personalmente negoziato con i presidenti Bill Clinton e Hafiz al-Assad, una pace che avrebbe preservato gli interessi di tutti i popoli della regione e che i teopolitici non vogliono. Inizia a radunare gli agenti che tenteranno invano di evitare la ri-elezione di Benjamin Netanyahu, nel novembre 2014, per Commanders for Israel’s Security (gli ufficiali responsabili della sicurezza d’Israele).

 

Porterà avanti la battaglia fino al discorso del giugno 2016 alla Conferenza di Herzliya, durante la quale denuncerà la pessima politica di Netanyahu e la sua volontà d’istituzionalizzare l’apartheid. Esorterà i connazionali a salvare il paese opponendosi a questi fanatici.

 

 

Thierry Meyssan

 

 

NOTE

1) Dana Milbank & Eric Pianin, «Energy Task Force Works in Secret», The Washington Post, 16 aprile 2001.

2) Alfredo Jalife-Rahme,, Muerte de Pemex y suicidio de México (2014), Orfila (Messico).

3)  James R. Blaker, Transforming Military Force: The Legacy of Arthur Cebrowski and Network Centric Warfare, Praeger (2007).

4) Thomas P.M. Barnett, The Pentagon’s New Map,  Putnam (2004). Contrariamente a quanto suggerisce questo libro, Barnett era l’assistente di Cebrowski al Pentagono.

5) Col. Ralph Peters,«Stability American’s Enemy»,  Parameters #31-4 (inverno2001).

6) William M. Arkin & Dana Priest, Top Secret America: The Rise of the New American Security State,  Back Bay Books (2012).

7) William M. Arkin, , «Exclusive : Inside the Military’s Secret Undercover Army», Newsweek, 17 maggio 2021.

8) Intervista di Naiz Naik di Benoît Califano, Pierre Trouillet e Guilhem Rondot, Dokumenta-ITV (2001). Non trasmesso.

9) «Le Net et la rumeur», editoriale, Le Monde, 20 marzo 2002.

10) Hans Blix, Disarming Iraq, Knopf Doubleday (2013).

11) «Une guerre juteuse pour Lockheed Martin», Réseau Voltaire, 7 febbraio 2003.

12) «Apocalypse Tomorrow», Réseau Voltaire, 26 settembre 2002.

13) Thierry Meyssan, «Qui gouverne l’Irak ?», Réseau Voltaire, 13 maggio 2004.

14) Per capire la differenza tra l’insegnamento pubblico e quello riservato a discepoli selezionati è indispensabile leggere le testimonianze degli allievi di Leo Strauss. Shadia B. Drury, Political Ideas of Leo Strauss,  Palgrave Macmillan (1988). Lyndon H. LaRouche, Children of Satan : the ’ignoble liars’ behind Bush’s no-exit war, EIR (2004). Anne Norton, Leo Strauss and the Politics of American Empire,  Yale University Press (2005). Paul Edward Gottfried, Leo Strauss and the conservative movement in America : a critical appraisal, Cambridge University Press (2011). Kenneth L. Deutsch, Leo Strauss, The Straussians, and the Study of the American Regime,  Rowman & Littlefield (2013). Aggie Hirst, Leo Strauss and the Invasion of Iraq: Encountering the Abyss,  Routledge (2013). Peter Minowitz, Straussophobia : Defending Leo Strauss and Straussians Against Shadia Drury and Other Accusers, Lexington Books (2016).

15) Paul Wolfowitz, «Determination and Findings»Voltaire Network, 5 dicembre 2003.

16) «Vertice storico per sigillare l’alleanza dei guerrieri di Dio», Rete Voltaire, 23 agosto 2005.

 

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

 

La traduzione italiana del libro è disponibile in versione cartacea.

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Geopolitica

«Li prenderemo la prossima volta» Israele non esclude un altro attacco al Qatar

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Israele è determinato a uccidere i leader di Hamas ovunque risiedano e continuerà i suoi sforzi finché non saranno tutti morti, ha dichiarato martedì a Fox News l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti Yechiel Leiter.

 

In precedenza, attacchi aerei israeliani hanno colpito un edificio residenziale a Doha, in Qatar, prendendo di mira alti esponenti dell’ala politica di Hamas. Il gruppo ha affermato che i suoi funzionari sono sopravvissuti, mentre l’attacco è stato criticato dalla Casa Bianca e condannato dal Qatar.

 

«Se non li abbiamo presi questa volta, li prenderemo la prossima volta», ha detto il Leiter.

 

L’ambasciatore ha descritto Hamas come «nemico della civiltà occidentale» e ha sostenuto che le azioni di Israele stavano rimodellando il Medio Oriente in modi che gli Stati «moderati» comprendevano e apprezzavano. «In questo momento, potremmo essere oggetto di qualche critica. Se ne faranno una ragione», ha detto riferendosi ai Paesi arabi.

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha affermato che, sebbene smantellare Hamas sia un obiettivo legittimo, colpire un alleato degli Stati Uniti mina gli interessi sia americani che israeliani.

 

Leiter ha osservato che Israele «non ha mai avuto un amico migliore alla Casa Bianca» e che Washington e lo Stato Ebraico sono rimaste unite nel perseguire la distruzione del gruppo militante.

 

Il Qatar, che ospita funzionari di Hamas nell’ambito del suo ruolo di mediatore, ha dichiarato che tra le sei persone uccise nell’attacco israeliano c’era anche un agente di sicurezza del Qatar.

 

L’emiro del Qatar, lo sceicco Tamim bin Hamad al-Thani, ha denunciato l’attacco come un «crimine atroce» e un «atto di aggressione», mentre il ministero degli Esteri di Doha ha accusato Israele di «terrorismo di Stato».

 

Israele ha promesso di dare la caccia ai leader di Hamas, ritenuti responsabili del mortale attacco dell’ottobre 2023, lanciato da Gaza verso il sud di Israele. L’ambasciatore ha giurato che i responsabili «non sopravviveranno», ovunque si trovino.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

 

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Geopolitica

Attacco israeliano in Qatar. La condanna di Trump

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Israele ha condotto un «attacco di precisione» contro «i vertici di Hamas», hanno annunciato martedì le Forze di difesa israeliane (IDF), poco dopo che numerose esplosioni hanno scosso il quartier generale del gruppo militante palestinese a Doha, in Qatar.   Da parte delle forze dello Stato Ebraico, si tratta di una violazione territoriale inedita, perché – a differenza di casi analoghi in Libano e Iran – condotta in uno Stato «alleato» di Washington e dell’Occidente, cui fornisce capitale e gas. L’attacco pare essere stato diretto ai negoziatori di Hamas, i quali avevano ricevuto dal presidente americano Trump un invito al tavolo della pace poco prima.   L’esercito israeliano ha dichiarato di aver condotto l’operazione in coordinamento con l’agenzia di sicurezza Shin Bet (ISA). Le IDF non hanno indicato il luogo esatto preso di mira dall’attacco.   «L’IDF e l’ISA hanno condotto un attacco mirato contro i vertici dell’organizzazione terroristica Hamas», ha dichiarato l’IDF in una nota. «Prima dell’attacco, sono state adottate misure per mitigare i danni ai civili, tra cui l’uso di munizioni di precisione e di intelligence aggiuntiva».   L’annuncio è arrivato dopo che almeno dieci esplosioni avrebbero scosso il quartier generale di Hamas a Doha. I filmati che circolano online mostrano che l’edificio è stato gravemente danneggiato. Secondo diversi resoconti dei media che citano fonti di Hamas, l’attacco ha preso di mira il team negoziale del gruppo, che stava discutendo l’ultima proposta statunitense sulla cessazione delle ostilità con Israele.   Il Qatar ha condannato il «vile attacco israeliano», descrivendo il luogo interessato dall’attacco come «edifici residenziali che ospitano diversi membri dell’ufficio politico del movimento Hamas».    

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  L’attacco israeliano a Doha è stato un «momento cruciale» per l’intera regione, ha affermato il primo ministro del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, condannando l’attacco come «terrorismo di Stato».   L’attacco a sorpresa non sarà «ignorato» e il Qatar «si riserva il diritto di rispondere a questo attacco palese», ha dichiarato il primo ministro in una conferenza stampa. «Oggi abbiamo raggiunto un punto di svolta affinché l’intera regione dia una risposta a una condotta così barbara».  

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Al-Thani ha attaccato duramente il suo omologo israeliano, Benjamin Netanyahu, accusandolo di compromettere la stabilità regionale in nome di «deliri narcisistici» e interessi personali. Il Qatar continuerà il suo impegno di mediazione per risolvere le persistenti ostilità con Hamas, ha affermato.   Il primo ministro quatarino ha ammesso che lo spazio per la diplomazia è ormai diventato molto ristretto e che l’attacco ha probabilmente fatto deragliare il ciclo di negoziati dedicato all’ultima proposta avanzata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.   «Per quanto riguarda i colloqui in corso, non credo che ci sia nulla di valido dopo aver assistito a un attacco del genere», ha affermato.   L’attacco israeliano è avvenuto due giorni dopo che il presidente degli Stati Uniti aveva lanciato un altro «ultimo avvertimento» ad Hamas, sostenendo che Israele aveva già accettato termini non specificati di un accordo da lui proposto e chiedendo al gruppo di rilasciare gli ostaggi israeliani ancora detenuti a Gaza. Poco dopo, anche il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha dato al gruppo un “ultimo avvertimento”, minacciando Hamas di annientamento e intimando ai militanti di deporre le armi. In seguito alle minacce, Hamas aveva dichiarato di essere pronta a «sedersi immediatamente al tavolo delle trattative» dopo aver ascoltato quelle che ha descritto come «alcune idee da parte americana volte a raggiungere un accordo di cessate il fuoco».   Tuttavia nelle ultime ore è emersa la condanna del presidente statunitense contro l’attacco israeliano. In una dichiarazione pubblicata martedì su Truth Social, Trump ha criticato l’attacco aereo di Israele contro un complesso di Hamas a Doha, sottolineando che la decisione di portare a termine l’operazione all’interno del Qatar è stata presa unilateralmente dal primo ministro Benjamin Netanyahu e non da Washington.   Nel suo post Trump ha affermato che il bombardamento israeliano all’interno di «una nazione sovrana e stretto alleato degli Stati Uniti» non ha «favorito gli obiettivi di Israele o dell’America».   «Considero il Qatar un forte alleato e amico degli Stati Uniti e mi dispiace molto per il luogo dell’attacco», ha scritto, sottolineando che l’attacco è stato «una decisione presa dal primo ministro Netanyahu, non una decisione presa da me».   Trump ha affermato che, non appena informato dell’operazione, ha incaricato l’inviato speciale statunitense Steve Witkoff di avvertire i funzionari del Qatar, ma ha osservato che l’allerta è arrivata «troppo tardi per fermare l’attacco». Il presidente ha affermato che eliminare Hamas era un «obiettivo degno», ma ha espresso la speranza che «questo sfortunato incidente possa servire come un’opportunità per la PACE».   Da allora Trump ha parlato con Netanyahu, che gli ha detto di voler fare la pace, e con i leader del Qatar, che ha ringraziato per il loro sostegno e ha assicurato che «una cosa del genere non accadrà più sul loro territorio».   La Casa Bianca ha definito l’attacco un incidente «sfortunato». Trump ha dichiarato di aver incaricato il Segretario di Stato Marco Rubio di finalizzare un accordo di cooperazione per la difesa con il Qatar, designato come «importante alleato non NATO».  

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  Nell’operazione circa 15 aerei da guerra israeliani hanno sparato almeno dieci munizioni durante l’operazione di martedì, uccidendo diversi membri di Hamas, tra cui il figlio dell’alto funzionario Khalil al-Hayya. Hamas ha affermato che i suoi vertici sono sopravvissuti all’attacco, descritto come un tentativo di assassinare i negoziatori impegnati a raggiungere un possibile accordo. L’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha insistito sul fatto che l’attacco ad Hamas in Qatar è stato un’azione unilaterale e che nessun altro paese è stato coinvolto nell’operazione.   «L’azione odierna contro i principali capi terroristi di Hamas è stata un’operazione israeliana del tutto indipendente. Israele l’ha avviata, Israele l’ha condotta e Israele si assume la piena responsabilità», si legge in una nota.   Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha condannato l’attacco israeliano definendolo una «flagrante violazione della sovranità e dell’integrità territoriale del Qatar». «Tutte le parti devono impegnarsi per raggiungere un cessate il fuoco permanente, non per distruggerlo», ha detto ai giornalisti.  

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Geopolitica

Lavrov: la Russia non ha voglia di vendetta

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La Russia non ha intenzione di vendicarsi dei paesi occidentali che hanno interrotto i rapporti e fatto pressioni su Mosca a causa del conflitto in Ucraina, ha affermato il ministro degli Esteri Sergej Lavrov.

 

Intervenendo lunedì all’Istituto statale di relazioni internazionali di Mosca, Lavrov ha sottolineato che la Russia non intende «vendicarsi o sfogare la propria rabbia» sulle aziende che hanno deciso di sostenere i governi occidentali nel loro tentativo di sostenere Kiev e imporre sanzioni economiche a Mosca, aggiungendo che l’ostilità è generalmente «una cattiva consigliera».

 

«Quando i nostri ex partner occidentali torneranno in sé… non li respingeremo. Ma… terremo conto che, essendo fuggiti su ordine dei loro leader politici, si sono dimostrati inaffidabili», ha affermato il ministro.

 

Secondo Lavrov, qualsiasi futuro accesso al mercato dipenderà anche dalla possibilità che le aziende rappresentino un rischio per i settori vitali per l’economia e la sicurezza della Russia.

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Il ministro ha sottolineato che la Russia è aperta alla cooperazione e non ha alcuna intenzione di isolarsi. «Viviamo su un piccolo pianeta. Costruire i muri di Berlino è stato in stile occidentale… Non vogliamo costruire alcun muro», ha affermato, riferendosi al simbolo della Guerra Fredda che ha diviso la capitale tedesca dal 1961 al 1989.

 

«Vogliamo lavorare onestamente e se i nostri partner sono pronti a fare lo stesso sulla base dell’uguaglianza e del rispetto reciproco, siamo aperti al dialogo con tutti», ha affermato, indicando il vertice in Alaska tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo statunitense, Donald Trump, come esempio di impegno costruttivo.

 

Il portavoce del Cremlino Demetrio Peskov ha dichiarato sabato che le aziende occidentali sarebbero state benvenute se non avessero sostenuto l’esercito ucraino e avessero rispettato gli obblighi nei confronti dello Stato e del personale russo, tra cui il pagamento degli stipendi dovuti.

 

Questo mese Putin ha anche respinto l’isolazionismo, sottolineando che la Russia vorrebbe evitare di chiudersi in un «guscio nazionale», poiché ciò danneggerebbe la competitività. «Non abbiamo mai respinto o espulso nessuno. Chi vuole rientrare è il benvenuto», ha aggiunto.

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