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«Una banda di drogati e neonazisti»

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

Parlando di una banda di drogati e di neonazisti al potere a Kiev, il presidente Putin ha suscitato grande scandalo. La stampa atlantista lo presenta come un malato di mente. Ma i fatti sono innegabili: il potere in Ucraina è in mano a una banda di drogati che si è appropriata delle entrate del gas; è stata votata una legge razziale; sono stati eretti monumenti al collaboratore nazista Stepan Bandera. E due battaglioni nazisti fanno già parte dell’esercito regolare.

 

 

Oggi è impossibile decifrare la strategia militare della Russia perché non abbiamo un resoconto esatto delle operazioni sul campo.

 

Solo gli stati-maggiori russo e della NATO sono in grado di farlo. Quanto viene diffuso è, nel caso dei giornali occidentali e del governo ucraino, evidentemente falso; nel caso delle forze armate di Russia, Donetsk e Lugansk inverificabile.

 

Sicuramente per ora gli scontri si limitano al territorio ucraino, ma il conflitto riguarda Russia e Stati Uniti, soltanto accidentalmente l’Ucraina.

 

Ci aspettiamo che nei prossimi giorni la Russia alzi il tono e allarghi il conflitto a un secondo teatro operativo.

 

In attesa degli eventi spiego a cosa si riferiva il presidente Putin definendo le autorità ucraine «una banda di drogati e neonazisti», affermazione estremamente scioccante ma molto fondata.

 

Può darsi che il presidente Putin attribuisca troppa importanza a questi fatti, o forse noi Occidentali li minimizziamo.

 

 

«Una banda di drogati»

Il governo di Viktor Yanukovich (2010-2014) cercava di barcamenare l’Ucraina tra il vicino russo e l’amico statunitense. Ma siccome «Chi non è con noi è contro di noi», come disse il presidente Bush figlio, gli Occidentali lo consideravano filo-russo.

 

Yanukovich fu rovesciato dagli Stati Uniti con la «Rivoluzione della dignità» su piazza Maidan, diretta dal segretario di Stato per l’Eurasia, la straussiana Victoria Nuland.

 

Il regime transitorio cadde in mano a rivoltosi di professione. Scoperta la portata della corruzione della cricca di Yanukovich, gli straussiani decisero che avrebbero potuto mettere le mani su una montagna di denaro ancor più grande.

 

Il 3 aprile 2014 uno degli ex consiglieri del segretario di Stato USA John Kerry, il truffatore David Archer, e il suo compagno di sballo Hunter, figlio dell’allora vicepresidente Joe Biden, incontrarono in Italia, all’Ambrosetti Club sul lago di Como, il miliardario Stephen Schwartzman, direttore del fondo d’investimento Blackstone (da non confondersi con Blackrock).

 

David Archer fu inserito nel consiglio di amministrazione di Burisma Holdings, una delle principali società gasiere ucraine, il cui proprietario era sotto procedura giudiziaria dell’FBI e dell’MI5. Gli agenti statunitensi e britannici erano convinti che il proprietario di Burisma, nonché ministro delle risorse naturali del regime Yanukovich, l’oligarca Mykola Zlochevsky, avesse illegalmente concesso licenze a società gasiere e petrolifere di sua proprietà.

 

Come uomo di paglia di Burisma, Archer fu pagato 83.333 dollari al mese. Sul sito della compagnia venne messa una foto che lo ritraeva alla Casa Bianca in compagnia del vicepresidente Joe Biden.

 

Il vicepresidente Joe Biden e i consiglieri Jake Sullivan e Antony Blinken andarono a Kiev per promettere al nuovo regime l’aiuto degli Stati Uniti e organizzare elezioni credibili. Ma le oblast’ [regioni] di Donetsk e Lugansk non riconobbero il governo provvisorio, di cui facevano parte cinque ministri nazisti, e proclamarono l’indipendenza.

 

L’indomani, il 12 maggio 2014, il figlio del vicepresidente Biden, il drogato Hunter, entrò a sua volta nel consiglio di amministrazione di Burisma Holding. In seguito un terzo personaggio, Cristopher Heinz, cognato del segretario di Stato John Kerry, si aggiunse a David Archer e Hunter Biden.

 

Nel secondo semestre 2014, su istruzioni di David Archer e Hunter Biden, Burisma versò sottobanco 7 milioni di dollari al procuratore generale del nuovo regime di Petro Poroshenko per redigere falsi documenti e chiudere le azioni giudiziarie contro Burisma e il suo proprietario, l’oligarca Zlochevsky.

 

In un’intercettazione telefonica Poroshenko conferma al vicepresidente Biden che la faccenda è «sistemata». Gli Stati Uniti poterono così riciclare l’ex ministro del «filorusso» Yanukovitch. Il procuratore generale, diventato troppo esoso, fu allontanato con un voto del parlamento, istigato da Stati Uniti, Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale; lo scopo era salvare l’oligarca, nonché ex-primo ministro, Yulia Timoshenko, ma spendendo meno denaro.

 

Questi fatti, diffusamente riportati dalla stampa ucraina, non sono che la punta dell’iceberg: per esempio, secondo il Wall Street Journal il segretario per l’Energia degli Stati Uniti, Rick Perry, avrebbe fatto pressione sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky per cacciare gli amministratori della società gasiera pubblica Naftogaz e sostituirli con altri, fra i quali lo straussiano Amos Hochstein.

 

A luglio 2019 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump chiese all’omologo ucraino Volodymyr Zelensky d’indagare su queste vicende di corruzione, senza escludere quella che riguardava il segretario statunitense per l’Energia Perry. Zelensky rifiuta. Trump si fa sempre più insistente, ma un funzionario dell’intelligence USA rivela il contenuto della conversazione e accusa il presidente Trump di strumentalizzare l’Ucraina per nuocere al proprio avversario, il candidato democratico Joe Biden. Ne seguirà una procedura di destituzione del presidente Trump, l’Ucrainagate.

 

Il meno che si possa dire è che ci sono stati tantissimi episodi di corruzione; che sono stati perpetrati a beneficio di personalità ucraine e statunitensi; che sono sparite decine di miliardi di dollari sottratti agli ucraini, il cui livello di vita è crollato.

 

Il tutto è avvenuto con la compiacenza di uomini di paglia, privi di ogni competenza sul gas, che condividono la frequentazione delle serate a base di droga di Hunter Biden. A tutto questo si riferiva, con ragione, il presidente Putin.

 

Sul versante europeo tutti hanno constatato che in un anno il prezzo al consumo del gas è decuplicato. Certamente la domanda supera l’offerta, ma questo non basta a spiegare l’esplosione dei prezzi.

 

In realtà, oggi i contratti di gas a lungo termine sono stipulati in base a prezzi di poco superiori a quelli passati, mentre i prezzi dei contratti a breve termine si sono impennati. La differenza si spiega con la speculazione.

 

E proprio Blackstone, nonché gli amici del presidente Biden sono stati i primi a speculare: evidentemente si aspettavano una crisi in uno dei Paesi produttori.

 

Si spiega così perché la stampa atlantista minimizzi l’affare Hunter Biden, in cui il padre, l’attuale presidente degli Stati Uniti, è coinvolto fino al collo. Alla fin fine l’operazione militare in corso in Ucraina provoca un ulteriore rialzo dei prezzi del gas, sempre a vantaggio degli amici del presidente USA e a danno degli europei.

 

Bisogna mettere in relazione questi fatti con quanto ho scritto nel precedente articolo di questa serie. Jake Sullivan, Antony Blinken e Victoria Nuland, i manovratori di questi intrallazzi, sono Straussiani. E, come scriveva nel 1992 il primo di loro, Paul Wolfowitz, «il principale rivale degli Stati Uniti è l’Unione Europea, cui bisogna impedire a ogni costo lo sviluppo».

 

Tutto sommato questi fatti sono affari interni ucraini e dell’Europa occidentale. Non giustificano un intervento esterno.

 

 

«Una banda di neonazisti»

Il presidente Putin ha parlato anche di una «banda di neonazisti». In questo caso non un piccolo gruppo di poche decine di persone, ma di migliaia: tra 10 e 20 mila.

 

Per capire a cosa alludeva Putin bisogna ricordarsi che alla fine della seconda guerra mondiale Stati Uniti e URSS fecero prigionieri numerosi dignitari nazisti. Entrambi i Paesi cercarono di ricavarne informazioni. I sovietici li rispedirono a casa dopo otto mesi, gli statunitensi invece ne trattennero alcuni e li riciclarono.

 

È noto che, per esempio, lo scienziato nazista che inventò le V2, Werner von Braun, diventò direttore della NASA (Operazione Paperclip). Come è altrettanto noto che il consigliere speciale del cancelliere Adolf Hitler per il Nuovo Ordine in Europa, Walter Hallstein, fu il primo presidente dell’Unione Europea.

 

E ancora, che l’alpinista Heinrich Harrer provvide su incarico della CIA all’educazione del Dalai Lama. Meno noto è invece che la CIA riciclò un po’ ovunque nel mondo anche molti SS e poliziotti della Gestapo. Per esempio, mise l’ex Gestapo Klaus Barbie a capo dei servizi della Bolivia, dove riuscì ad assassinare Che Guevara, e collocò l’SS Alois Brunner in Siria, all’epoca Paese alleato di Washington.

 

Per tutta la guerra fredda la CIA utilizzò nazisti. Il presidente Jimmy Carter incaricò l’ammiraglio Stansfield Turner di rimettere ordine nell’Agenzia, di limitare il ruolo di questi agenti e di farla finita con le dittature. La maggior parte dei nazisti furono allontanati, ma quelli che potevano essere operativi nel Patto di Varsavia continuarono a essere usati. Così il presidente Ronald Reagan esaltò le «nazioni prigioniere» dell’Europa dell’Est, creando una sequela di associazioni finalizzate alla destabilizzazione degli Stati del Patto di Varsavia, nonché dell’URSS.

 

È quindi affatto logico che nel 2007 la CIA abbia organizzato a Ternopol (Ucraina) un congresso di neonazisti europei e di jihadisti mediorientali anti-russi. Avrebbero dovuto presiederlo il nazista ucraino Dmitro Yarosh e l’emiro ceceno Doku Umarov.

 

Quest’ultimo, ricercato dall’Interpol, non poté essere fisicamente presente e mandò un messaggio video di sostegno. In seguito i neonazisti e gli jihadisti combatterono insieme per imporre l’Emirato islamico di Ichkeria, in sostituzione della Repubblica di Cecenia.

 

Nel 2013, in Polonia, la NATO addestrò al combattimento urbano uomini di Dmitro Yarosh, poi usati nell’operazione in Ucraina di cambiamento di regime, condotta da Victoria Nuland: la «Rivoluzione della dignità», o «EuroMaidan». La maggior parte dei giornalisti sul posto notò l’inquietante presenza dei neonazisti, ma le personalità occidentali che parteciparono alla «rivoluzione», come Bernard-Henri Lévy, chiusero gli occhi.

 

Nei mesi che seguirono, la presenza di cinque ministri nazisti nel governo di transizione provocò i referendum per l’indipendenza nelle oblast’ di Donetsk e Lugansk.

 

Il presidente Petro Porochenko, consigliato dagli amici di Hunter Biden, organizzò i neonazisti in unità militari, che schierò alla frontiera con le nuove Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk.

 

I gruppi neonazisti erano finanziati dal padrino della mafia locale, Ihor Kolomoisky, cui il fatto di essere presidente della Comunità ebraica dell’Ucraina non impedì di selezionarne alcuni come sicari al proprio servizio. Tuttavia, quando, grazie al denaro e alle minacce, Kolomoisky tentò di assumere il controllo delle organizzazioni ebraiche europee, fu espulso.

 

Per rovesciare il presidente Poroshenko, Kolomoisky costruì di sana pianta un nuovo uomo politico, producendo una serie televisiva (Servitore del popolo), il cui protagonista era un certo Volodymyr Zelensky. Quest’ultimo, una volta eletto presidente, accettò tutti i consigli degli Straussiani, tornati nel frattempo alla Casa Bianca.

 

Il neo-presidente eresse monumenti a Stepan Bandera, capo dei collaboratori nazisti durante la seconda guerra mondiale, appoggiandone l’ideologia: la popolazione ucraina ha due origini, scandinava e proto-germanica da un lato, slava dall’altro. Solo chi appartiene alla prima è ucraino, gli altri sono russi, cioè subumani. Promulgò poi una «Legge sui popoli autoctoni» che priva gli ucraini di origine slava del godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Una legge che non è ancora stata applicata.

 

Per sette anni i gruppi neonazisti hanno massacrato a caso gli abitanti del Donbass. Francia e Germania, garanti degli accordi di Minsk, non hanno fatto nulla. Anche le Nazioni Unite hanno chiuso gli occhi. Per sette anni questi gruppi si sono allargati, passando da alcune centinaia a migliaia di soldati.

 

Su richiesta di Victoria Nuland, il presidente Zelensky ha nominato Dmitro Yarosh consigliere speciale del capo delle forze armate.

 

Quest’ultimo, evidentemente imbarazzato, si è rifiutato di commentare la strana coppia che forma con Yarosh, limitandosi ad alludere a problemi di «sicurezza nazionale». Yarosh ha riorganizzato i neonazisti in due battaglioni e in gruppi urbani. Durante il week-end della Conferenza di Monaco sulla Sicurezza ha lanciato un vasto attacco alle oblast’ separatisti, provocando la risposta russa.

 

Il 3 marzo il Battaglione nazista Aidar è stato vinto dall’esercito russo. Il presidente Zelensky ha nominato governatore di Odessa il loro capo, con l’incarico d’impedire all’esercito russo di collegare Crimea e Transnistria.

 

Sono fatti indiscutibili. Si può giudicare la risposta russa sproporzionata e inappropriata, ma non ingiustificata.

 

Bisogna altresì tener presente che la Seconda Guerra Mondiale è stata vissuta in modo diverso in Occidente e in Oriente.

 

In Europa occidentale il nazismo fu una dittatura che perseguitò le minoranze, zigani ed ebrei, imprigionate e uccise a milioni nei campi di concentramento.

 

In Europa orientale il progetto era diverso: liberare uno spazio vitale sterminando tutta la popolazione slava. Non occorrevano i campi di concentramento, bisognava uccidere tutti. Le devastazioni non sono comparabili. La Russia ha contato da sola 27 milioni di morti.

 

La Russia moderna si è costruita sul ricordo della Grande Guerra Patriottica contro il nazismo. Per i russi è inaccettabile portare croci uncinate e votare una legge razziale. Bisogna agire prima che venga applicata.

 

 

Thierry Meyssan

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

 

Immagine di MK via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0)

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Geopolitica

Attacco israeliano in Qatar. La condanna di Trump

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Israele ha condotto un «attacco di precisione» contro «i vertici di Hamas», hanno annunciato martedì le Forze di difesa israeliane (IDF), poco dopo che numerose esplosioni hanno scosso il quartier generale del gruppo militante palestinese a Doha, in Qatar.

 

Da parte delle forze dello Stato Ebraico, si tratta di una violazione territoriale inedita, perché – a differenza di casi analoghi in Libano e Iran – condotta in uno Stato «alleato» di Washington e dell’Occidente, cui fornisce capitale e gas. L’attacco pare essere stato diretto ai negoziatori di Hamas, i quali avevano ricevuto dal presidente americano Trump un invito al tavolo della pace poco prima.

 

L’esercito israeliano ha dichiarato di aver condotto l’operazione in coordinamento con l’agenzia di sicurezza Shin Bet (ISA). Le IDF non hanno indicato il luogo esatto preso di mira dall’attacco.

 

«L’IDF e l’ISA hanno condotto un attacco mirato contro i vertici dell’organizzazione terroristica Hamas», ha dichiarato l’IDF in una nota. «Prima dell’attacco, sono state adottate misure per mitigare i danni ai civili, tra cui l’uso di munizioni di precisione e di intelligence aggiuntiva».

 

L’annuncio è arrivato dopo che almeno dieci esplosioni avrebbero scosso il quartier generale di Hamas a Doha. I filmati che circolano online mostrano che l’edificio è stato gravemente danneggiato. Secondo diversi resoconti dei media che citano fonti di Hamas, l’attacco ha preso di mira il team negoziale del gruppo, che stava discutendo l’ultima proposta statunitense sulla cessazione delle ostilità con Israele.

 

Il Qatar ha condannato il «vile attacco israeliano», descrivendo il luogo interessato dall’attacco come «edifici residenziali che ospitano diversi membri dell’ufficio politico del movimento Hamas».

 

 

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L’attacco israeliano a Doha è stato un «momento cruciale» per l’intera regione, ha affermato il primo ministro del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, condannando l’attacco come «terrorismo di Stato».

 

L’attacco a sorpresa non sarà «ignorato» e il Qatar «si riserva il diritto di rispondere a questo attacco palese», ha dichiarato il primo ministro in una conferenza stampa. «Oggi abbiamo raggiunto un punto di svolta affinché l’intera regione dia una risposta a una condotta così barbara».

 

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Al-Thani ha attaccato duramente il suo omologo israeliano, Benjamin Netanyahu, accusandolo di compromettere la stabilità regionale in nome di «deliri narcisistici» e interessi personali. Il Qatar continuerà il suo impegno di mediazione per risolvere le persistenti ostilità con Hamas, ha affermato.

 

Il primo ministro quatarino ha ammesso che lo spazio per la diplomazia è ormai diventato molto ristretto e che l’attacco ha probabilmente fatto deragliare il ciclo di negoziati dedicato all’ultima proposta avanzata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

 

«Per quanto riguarda i colloqui in corso, non credo che ci sia nulla di valido dopo aver assistito a un attacco del genere», ha affermato.

 

L’attacco israeliano è avvenuto due giorni dopo che il presidente degli Stati Uniti aveva lanciato un altro «ultimo avvertimento» ad Hamas, sostenendo che Israele aveva già accettato termini non specificati di un accordo da lui proposto e chiedendo al gruppo di rilasciare gli ostaggi israeliani ancora detenuti a Gaza. Poco dopo, anche il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha dato al gruppo un “ultimo avvertimento”, minacciando Hamas di annientamento e intimando ai militanti di deporre le armi. In seguito alle minacce, Hamas aveva dichiarato di essere pronta a «sedersi immediatamente al tavolo delle trattative» dopo aver ascoltato quelle che ha descritto come «alcune idee da parte americana volte a raggiungere un accordo di cessate il fuoco».

 

Tuttavia nelle ultime ore è emersa la condanna del presidente statunitense contro l’attacco israeliano. In una dichiarazione pubblicata martedì su Truth Social, Trump ha criticato l’attacco aereo di Israele contro un complesso di Hamas a Doha, sottolineando che la decisione di portare a termine l’operazione all’interno del Qatar è stata presa unilateralmente dal primo ministro Benjamin Netanyahu e non da Washington.

 

Nel suo post Trump ha affermato che il bombardamento israeliano all’interno di «una nazione sovrana e stretto alleato degli Stati Uniti» non ha «favorito gli obiettivi di Israele o dell’America».

 

«Considero il Qatar un forte alleato e amico degli Stati Uniti e mi dispiace molto per il luogo dell’attacco», ha scritto, sottolineando che l’attacco è stato «una decisione presa dal primo ministro Netanyahu, non una decisione presa da me».

 

Trump ha affermato che, non appena informato dell’operazione, ha incaricato l’inviato speciale statunitense Steve Witkoff di avvertire i funzionari del Qatar, ma ha osservato che l’allerta è arrivata «troppo tardi per fermare l’attacco». Il presidente ha affermato che eliminare Hamas era un «obiettivo degno», ma ha espresso la speranza che «questo sfortunato incidente possa servire come un’opportunità per la PACE».

 

Da allora Trump ha parlato con Netanyahu, che gli ha detto di voler fare la pace, e con i leader del Qatar, che ha ringraziato per il loro sostegno e ha assicurato che «una cosa del genere non accadrà più sul loro territorio».

 

La Casa Bianca ha definito l’attacco un incidente «sfortunato». Trump ha dichiarato di aver incaricato il Segretario di Stato Marco Rubio di finalizzare un accordo di cooperazione per la difesa con il Qatar, designato come «importante alleato non NATO».

 

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Nell’operazione circa 15 aerei da guerra israeliani hanno sparato almeno dieci munizioni durante l’operazione di martedì, uccidendo diversi membri di Hamas, tra cui il figlio dell’alto funzionario Khalil al-Hayya. Hamas ha affermato che i suoi vertici sono sopravvissuti all’attacco, descritto come un tentativo di assassinare i negoziatori impegnati a raggiungere un possibile accordo.

L’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha insistito sul fatto che l’attacco ad Hamas in Qatar è stato un’azione unilaterale e che nessun altro paese è stato coinvolto nell’operazione.

 

«L’azione odierna contro i principali capi terroristi di Hamas è stata un’operazione israeliana del tutto indipendente. Israele l’ha avviata, Israele l’ha condotta e Israele si assume la piena responsabilità», si legge in una nota.

 

Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha condannato l’attacco israeliano definendolo una «flagrante violazione della sovranità e dell’integrità territoriale del Qatar». «Tutte le parti devono impegnarsi per raggiungere un cessate il fuoco permanente, non per distruggerlo», ha detto ai giornalisti.

 

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Geopolitica

Lavrov: la Russia non ha voglia di vendetta

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La Russia non ha intenzione di vendicarsi dei paesi occidentali che hanno interrotto i rapporti e fatto pressioni su Mosca a causa del conflitto in Ucraina, ha affermato il ministro degli Esteri Sergej Lavrov.   Intervenendo lunedì all’Istituto statale di relazioni internazionali di Mosca, Lavrov ha sottolineato che la Russia non intende «vendicarsi o sfogare la propria rabbia» sulle aziende che hanno deciso di sostenere i governi occidentali nel loro tentativo di sostenere Kiev e imporre sanzioni economiche a Mosca, aggiungendo che l’ostilità è generalmente «una cattiva consigliera».   «Quando i nostri ex partner occidentali torneranno in sé… non li respingeremo. Ma… terremo conto che, essendo fuggiti su ordine dei loro leader politici, si sono dimostrati inaffidabili», ha affermato il ministro.   Secondo Lavrov, qualsiasi futuro accesso al mercato dipenderà anche dalla possibilità che le aziende rappresentino un rischio per i settori vitali per l’economia e la sicurezza della Russia.

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Il ministro ha sottolineato che la Russia è aperta alla cooperazione e non ha alcuna intenzione di isolarsi. «Viviamo su un piccolo pianeta. Costruire i muri di Berlino è stato in stile occidentale… Non vogliamo costruire alcun muro», ha affermato, riferendosi al simbolo della Guerra Fredda che ha diviso la capitale tedesca dal 1961 al 1989.   «Vogliamo lavorare onestamente e se i nostri partner sono pronti a fare lo stesso sulla base dell’uguaglianza e del rispetto reciproco, siamo aperti al dialogo con tutti», ha affermato, indicando il vertice in Alaska tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo statunitense, Donald Trump, come esempio di impegno costruttivo.   Il portavoce del Cremlino Demetrio Peskov ha dichiarato sabato che le aziende occidentali sarebbero state benvenute se non avessero sostenuto l’esercito ucraino e avessero rispettato gli obblighi nei confronti dello Stato e del personale russo, tra cui il pagamento degli stipendi dovuti.   Questo mese Putin ha anche respinto l’isolazionismo, sottolineando che la Russia vorrebbe evitare di chiudersi in un «guscio nazionale», poiché ciò danneggerebbe la competitività. «Non abbiamo mai respinto o espulso nessuno. Chi vuole rientrare è il benvenuto», ha aggiunto.

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Geopolitica

Museo dell’Olocausto ritira post perché leggibile come filo-Gaza

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Un museo dell’Olocausto di Los Angeles ha cancellato un post sui social media contenente uno slogan da tempo associato all’Olocausto, dopo che alcune persone hanno affermato che alludeva alla guerra di Gaza.

 

Il messaggio, condiviso con i 24.000 follower su Instagram dell’Holocaust Museum di Los Angeles nel fine settimana, mostrava un’immagine di mani e avambracci di diverse tonalità di pelle – tra cui una con un tatuaggio dell’Olocausto – uniti in un cerchio. La didascalia recitava: «Mai più non può significare solo mai più per gli ebrei».

 

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Sebbene inizialmente alcuni abbiano elogiato il post come un riconoscimento delle sofferenze dei palestinesi, esso ha subito suscitato reazioni negative da parte dei gruppi ebraici, spingendone alla sua rimozione.

 

In seguito il museo ha affermato che il post faceva parte di una campagna pianificata in precedenza «intesa a promuovere l’inclusività e la comunità», non «una dichiarazione politica che riflette la situazione attuale in Medio Oriente».

 

Sebbene il post non menzionasse Gaza, alcuni commentatori filo-israeliani hanno esortato i donatori a tagliare i finanziamenti all’istituzione. La rimozione del post, a sua volta, ha portato voci filo-palestinesi ad accusare il museo di fare marcia indietro su un principio universale anti-genocidio.

 

 

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Un post condiviso da Holocaust Museum LA (@holocaustmuseumla)

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Il museo di Los Angeles, fondato nel 1961 dai sopravvissuti all’Olocausto, è attualmente chiuso per ristrutturazione fino a giugno 2026. Si è impegnato a «fare meglio» e a garantire che i post futuri siano «progettati in modo più attento».

 

Si tratta di un caso di fulminea rieducazione infraebraica non dissimile a quello capitato, alle nostre latitudini, allo storico universitario Ariel Toaff, figlio del notissimo rabbino romano Elio Toaff, il cui libro sul sacrificio rituale ebraico fu ritirato rapidamente dalle librerie per uscire in una versione «potata».

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Immagine di Lamoth via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

 

 

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