Persecuzioni
Pakistan, rapita e convertita all’Islam una bambina cristiana di 12 anni
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
H. M. è scomparsa a fine dicembre. Era stata localizzata qualche giorno dopo in una casa di accoglienza per donne, ma si sono poi perse sue notizie, nonostante gli sforzi del capo della polizia. Il padre lavora come manovale alla giornata e deve occuparsi di quattro figli piccoli da solo.
Una bambina cristiana di 12 anni di nome H. M. è stata rapita e convertita all’Islam da parte di un negoziante musulmano del villaggio di Chak 7, vicino a Faisalabad, nella provincia del Punjab. Il padre, Ba., lavora alla giornata come manovale (nonostante soffra d’asma e abbia un braccio fratturato) per poter mantenere se stesso e i quattro figli senza la moglie, morta 6 anni fa.
In assenza del padre, era H. a dover andare al negozio di alimentari per comprare da mangiare ai fratelli minori, fino a che il 28 dicembre la bambina non è più tornata. I sospetti sono subito ricaduti sul proprietario, M. M., che è stato arrestato dalla polizia e ha cominciato a collaborare, e sul suo aiutante, M. U.
S., la figlia minore, non avendo visto tornare H., era andata a cercarla in giro per il villaggio e diversi abitanti le avevano detto di averla vista insieme a U.. Come poi confermato da M., U. aveva attratto la bambina dicendole che le avrebbe comprato un vestito nuovo al bazaar.
Il giorno dopo B. M. è subito andato a sporgere denuncia alla polizia di N. Il 30 dicembre M. è stato arrestato e dopo un paio d’ore H. era stata localizzata in un centro di accoglienza per donne che hanno subito violenze o maltrattamenti (chiamati dar-ul-Aman). Secondo la polizia era stata convertita all’Islam.
Nel frattempo, mentre M. è stato rilasciato su cauzione, da più di un mese non si hanno tracce della bambina. Secondo il padre, gli agenti di polizia potrebbero aver ricevuto denaro dai due negozianti musulmani: «Un anno fa avevo avvertito M. M. di lasciare in pace le ragazze cristiane dopo che aveva tentato di approfittare di una di loro nel suo negozio. Credo che si sia vendicato di quella vicenda con me. Il capo della stazione di polizia è collaborativo, ma l’ufficiale investigativo Rana Ahad sembra essere riluttante. Penso che abbia preso soldi sia dalla famiglia di M. M. che da quella di U. e quindi non stia facendo indagini adeguate».
Parlando della propria situazione, B. M. ha detto di «essere costretto a chiedere un prestito per portare avanti questo caso» in quanto «povero bracciante» che ha «la responsabilità di quattro figli piccoli». Ogni giorno il padre cristiano si reca alla stazione di polizia a chiedere notizie della figlia, senza alcun risultato: «Chiedo ai politici e alle istituzioni preposte all’applicazione della legge di ascoltarmi: mia figlia ha solo 12 anni, è innocente. Per favore, dateci giustizia».
Robin Daniel, noto difensore dei diritti umani che si sta occupando del caso, commentando la vicenda ha detto ad AsiaNews: «non sappiamo quando questa catena di rapimenti e conversioni all’Islam di ragazze minorenni si fermerà, ma continueremo a far sentire la nostra voce. La cosa positiva è che il capo della stazione di polizia, Mohammad Shoaib, mi ha telefonato un paio di giorni fa, informandomi del caso e chiedendomi di aiutare la famiglia».
«Ho incontrato il parlamentare provinciale Khalil Tahir Sandhu – ha continuato l’attivista –, che ci sta aiutando. Il governo deve prendere provvedimenti severi contro i colpevoli. È davvero patetico che sia passato più di un mese e la polizia non sia riuscita a trovare U. e H. Non sappiamo nemmeno se sia ancora viva. Sembra che la squadra investigativa della polizia non stia facendo il suo dovere con onestà. Se la polizia non ci riporterà indietro H. al più presto, ci mobiliteremo per protestare».
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Persecuzioni
Pakistan, conversioni forzate: tentato avvelenamento di un cristiano di 13 anni
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Saim era uscito di casa per andare a tagliarsi i capelli, quando una guardia di sicurezza, che aveva notato addosso al ragazzo una collana con la croce, ha iniziato a chiedergli di recitare preghiere islamiche. Il giovane, dopo essersi rifiutato, è stato costretto a ingerire una sostanza nociva.
In Pakistan si è verificato l’ennesimo tentativo di conversione forzata nei confronti di un ragazzo cristiano di 13 anni, costretto a ingerire una sostanza tossica dopo essersi rifiutato di abbracciare l’Islam.
L’episodio è avvenuto nella città di Lahore il 13 aprile: Saim era uscito di casa per andare a tagliarsi i capelli, ma è stato fermato da una guardia di sicurezza musulmana che aveva notato che il ragazzo aveva al collo una croce.
La guardia, di nome Qadar Khan, ha strappato la collana e costretto Saim a recitare una preghiera islamica, ma il ragazzo si è rifiutato, dicendo di essere cristiano. L’uomo ha quindi costretto Saim a ingerire una sostanza tossica nel tentativo di avvelenarlo.
Sono stati i genitori del giovane a trovare il corpo del figlio senza conoscenza dopo diverse ore che Saim mancava da casa. Il padre, Liyaqat Randhava, si è rivolto alla polizia ma ha raccontato di aver ricevuto un trattamento iniquo.
Gli agenti hanno registrato la denuncia solo dopo diverse insistenze e una copia del documento non è stata rilasciata alla famiglia di Saim, che ha detto inoltre che diverse parti del racconto non sono state incluse nella denuncia (chiamata anche primo rapporto informativo o FIR).
Joseph Johnson, presidente di Voice for Justice, ha espresso profonda preoccupazione per i crescenti episodi di conversioni religiose forzate in Pakistan e ha condannato quanto successo a Saim, aggiungendo che la polizia sta mostrando estrema negligenza nel caso. «Evitando di includere i dettagli cruciali nel FIR, la polizia ha sottoposto Saim e la sua famiglia a ulteriori abusi», ha affermato Johnson, chiedendo l’intervento del governo per un’indagine.
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Persecuzioni
La Pasqua è stata soppressa nella Repubblica Democratica del Congo
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Persecuzioni
Cristiana palestinese arrestata e bendata senza mandato né capi di imputazione
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Layan Nasir, 23enne originaria di Birzeit, sottoposta al provvedimento di «detenzione amministrativa». Bendata e ammanettata nella notte da una pattuglia di militari senza mandato di arresto né capi di imputazione a suo carico. Leader luterano di Betlemme: Israele gode di «impunità» e si arroga il «diritto di distruggere la vita di milioni di persone».
«Non vi è alcuna motivazione, né vi sono altre ragioni se non il fatto che viviamo sotto un’occupazione coloniale e colonizzatrice che ha goduto per troppo tempo di impunità e si sente in diritto di distruggere la vita di milioni di persone». È quanto sottolinea ad AsiaNews il reverendo Munther Isaac, pastore della Chiesa Evangelica Luterana di Betlemme, commentando «la detenzione amministrativa» disposto da Israele a carico della giovane cristiana palestinese Layan Nasir, arrestata la scorsa settimana.
«Un provvedimento – prosegue il leader cristiano – che è applicato a carico di altri 4mila palestinesi circa. Un termine che gli israeliani usano per giustificare la detenzione di persone che non hanno alcuna accusa a loro carico».
La notte del 6 aprile scorso a Birzeit, cittadina palestinese, una pattuglia composta da una quindicina di soldati israeliani armati si è presentata alla porta di casa della famiglia Nasir in cerca della figlia 23enne, senza alcun mandato di arresto o accusa a suo carico.
Come raccontato dalla famiglia a The Guardian, che ha denunciato la vicenda, la madre Lulu Aranki e il padre Sami – coppia mista di cristiani, cattolici e anglicani – vengono bloccati con le pistole puntate al volto. Dopo una perquisizione durata diversi minuti, i militari prelevano Layan, non prima di averla bendata e ammanettata, disponendo a suo carico – unica cristiana ad oggi – il provvedimento di detenzione amministrativa.
«La detenzione di Layan – afferma il reverendo Isaac – ci ricorda la nostra vita di cristiani sotto l’occupazione israeliana. I cristiani palestinesi non sono solo parte integrante del popolo palestinese, ma hanno sofferto proprio come il resto della popolazione».
A carico della ragazza non vi sono accuse o capo di imputazione, ma è stata fermata in via «preventiva» e alla famiglia non è stato notificato alcun provvedimento. La sua vicenda, che rischiava di passare sotto silenzio come molte analoghe a carico dei palestinesi, ha avuto ampia eco grazie a un messaggio pubblicato su X (ex Twitter) dal primate anglicano Justin Welby, che ha manifestato profonda preoccupazione e lanciato un appello per la liberazione.
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«Dovremmo esercitare tutte le pressioni possibili – afferma il pastore luterano – non solo per liberare lei, ma tutto il nostro popolo dalle carceri dell’occupazione, per porre fine all’occupazione stessa e per ottenere e garantire giustizia per tutti».
Il reverendo Munther Isaac è pastore della Evangelical Lutheran Christmas Church a Betlemme e della Lutheran Church a Beit Sahour. Egli è anche un accademico del Bethlehem Bible College e direttore della celebre conferenza «Christ at the Checkpoint» quest’anno in programma dal 21 al 26 maggio, giunta alla settima edizione e incentrata sul tema «Do Justice, Love Mercy: Christian Witness in Contexts of Oppression».
In riferimento alla situazione dei cristiani in Palestina la definisce «critica: siamo al punto più basso dal 1948» ma al tempo stesso «non perdiamo la speranza e, soprattutto, crediamo nella giustizia della nostra causa».
«Vediamo – prosegue – come le nostre terre vengono rubate e il nostro popolo attaccato». Israele «gode di impunità e l’Occidente sembra non preoccuparsi molto di noi» aggiunge, ma «sappiamo che la nostra causa è giusta. Continueremo a esistere e a diffondere il nostro messaggio – conclude – non solo perché è un dovere come palestinesi, ma anche perché è un dovere come cristiani».
La detenzione amministrativa applicata da Israele permette di fermare un sospetto per lunghi periodi, anche senza accuse precise o processo. Tale misura, un tempo applicata solo verso militanti palestinesi, ora vale anche per gli israeliani sebbene i critici si mostrino scettici sulle modalità di applicazione. Questo strumento, fonte di polemiche e proteste per violazione dei diritti umani, viene solitamente usato quando le autorità dispongono di informazioni che collegano un sospetto a un crimine, ma non hanno prove sufficienti per sostenere le accuse in un tribunale.
Le detenzioni possono essere rinnovate in modo unilaterale da un tribunale militare ogni sei mesi e i prigionieri rimanere in carcere anni. Mentre alcuni palestinesi sono detenuti senza accuse note, i motivi più comuni vanno dagli appelli alla violenza online alle (presunte) attività terroristiche.
Layan è una delle migliaia di palestinesi in stato di detenzione senza accuse, fra i quali almeno 85 sono donne, ma è la sola di religione cristiana. Critici, attivisti e ONG pro-diritti umani sottolineano che la norma è parte del sistema di apartheid applicato dallo Stato ebraico nei confronti dei palestinesi.
«Israele – afferma il movimento Btselem – usa abitualmente la detenzione amministrativa. Nel corso degli anni, ha messo migliaia di palestinesi dietro le sbarre per periodi che vanno da diversi mesi a diversi anni, senza accusarli, senza dire loro di cosa sono accusati e senza rivelare le presunte prove a loro o ai loro avvocati».
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Immagine da AsiaNews
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