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Geopolitica

L’India vende armi al regime birmano, ma il Manipur vuole bloccare l’arrivo di rifugiati

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Secondo l’ONU l’India è il quarto Paese al mondo per vendita di armamenti alla giunta golpista del Myanmar, ma lo Stato nord-orientale ha annunciato di voler costruire un’ulteriore recinzione al confine per impedire l’afflusso di birmani, che a detta del governo locale alimentano il traffico di armi e droghe. In realtà la questione ha a che fare con le tensioni interetniche nella regione. Nuovi bombardamenti nel Sagaing, migliaia di persone in fuga.

 

Mentre continuano gli attacchi efferati della giunta golpista birmana contro le truppe della resistenza e i civili, l’India ha annunciato che installerà un’ulteriore recinzione di 70 chilometri lungo il confine che separa lo Stato nord-orientale del Manipur (da maggio scosso da scontri interetnici) e il Myanmar.

 

I gruppi di difesa dei diritti umani hanno sottolineato i rapporti ambigui che legano il governo indiano al regime birmano (al quale vendono armi) ed espresso preoccupazione, perché la misura rischia di bloccare migliaia di civili in fuga dai bombardamenti dell’esercito, che ha preso il potere con un colpo di Stato a febbraio 2021 spodestando il governo guidato da Aung San Suu Kyi. Da allora è in corso un brutale conflitto civile in cui le truppe di militari si scontrano con le milizie anti-golpe della resistenza, formate da gruppi eterogenei di combattenti appartenenti alle diverse etnie del Paese.

 

Ieri nella regione settentrionale del Sagaing almeno 10mila persone hanno abbandonato le loro case dopo che oltre 150 soldati hanno fatto irruzione nei villaggi delle municipalità di Ye-U e Depayin coperti dai bombardamenti dell’aeronautica.

 

Alcuni villaggi erano stati attaccati allo stesso modo esattamente un anno fa, un fatto che evidenzia come i territori del Myanmar stiano venendo ciclicamente riconquistati di anno in anno dall’esercito e poi dalle milizie.

 

Le zone più colpite continuano a essere la regione settentrionale del Sagaing e il confinante Stato occidentale Chin, in cui la popolazione è in prevalenza cristiana. Solo ieri almeno due minori, di cui una bambina di cinque anni, sono stati uccisi e altri sette civili, tra cui i genitori, sono stati feriti a causa degli attacchi aerei dell’esercito.

 

«Tutti sono scappati durante la notte per sfuggire alle incursioni della giunta», hanno detto oggi alcuni residenti a The Irrawaddy. «Le truppe hanno lasciato il nostro villaggio questa mattina, ma noi non siamo ancora tornati». Già altre volte le truppe dell’esercito hanno circondato chiese, campi e abitazioni con mine antiuomo per impedire il ritorno dei civili e fiaccare il sostegno alle milizie anti-golpe.

 

Tuttavia di recente un’organizzazione legata all’Esercito di liberazione Karen (una delle principali milizie etniche) ha diffuso un documento in cui sostiene che il regime stia progressivamente perdendo il controllo della parte sud-orientale del Paese, sul lato diametralmente opposto rispetto allo Stato Chin, segno di un’ulteriore frammentazione del Myanmar.

 

Mentre gli sfollati interni sono arrivati a circa due milioni di persone, migliaia di civili hanno trovato riparo all’estero, in particolare in Thailandia, sul lato est del Paese, e in India a ovest. Si stima che dal golpe circa 60mila persone siano fuggite verso gli Stati indiani nord-orientali del Mizoram e del Manipur. Ma mentre il primo sta accogliendo i profughi, il secondo li sta respingendo: in base a dati delle Nazioni unite risalenti a gennaio, in Mizoram si trovano almeno 38.200 rifugiati birmani, contro i 6.950 del Manipur.

 

La questione ha a che fare con la composizione etnica della popolazione del nord-est dell’India, una regione anche geograficamente separata dal resto della nazione. Nel Mizoram vivono in prevalenza popolazioni di etnia Kuki e di fede cristiana, molto simili ai Chin che fuggono dal Myanmar. La situazione si ribalta nel Manipur, dove la maggior parte della popolazione è composta da Meitei, perlopiù indù, che formano il 53% della popolazione.

 

Ma come hanno più volte spiegato fonti locali ad AsiaNews, quello del Manipur, anche se all’apparenza può sembrare un conflitto etnico, è scoppiato il 3 maggio di quest’anno  a causa di questioni legate all’erogazione di servizi da parte dello Stato indiano.

 

Gli scontri settari hanno avuto inizio a seguito di una protesta pacifica della minoranza Kuki, che ha manifestato contro la proposta di inserire anche i Meitei nel programma di governo delle tribù riconosciute dell’India, un programma in base al quale vengono assegnati sussidi e quote alle popolazioni indigene svantaggiate.

 

Da mesi, però, il governo indiano locale sostiene che l’afflusso di profughi birmani abbia causato un aumento del commercio illegale di armi e di droga al confine, per questo vuole impedire il passaggio di rifugiati. Le milizie Chin del Myanmar hanno invece dichiarato di non voler creare danni e di aver aiutato le forze dell’ordine indiane ad arrestare alcuni trafficanti.

 

«Per noi non c’è alcun problema con la loro recinzione perché non stiamo più costruendo i nostri campi profughi sul lato indiano, ma solo sul lato birmano del confine», ha detto un rifugiato birmano a Radio Free Asia. «Le autorità indiane ci hanno cacciato, ma i trafficanti hanno il loro modo di attraversare il confine. I rifugiati comuni non si lasciano coinvolgere da loro».

 

In base a un rapporto del relatore speciale delle Nazioni unite per il Myanmar, Tom Andrews, pubblicato a maggio di quest’anno l’India è il quarto Paese, dopo Russia, Cina e Singapore, ad aver fornito armi al regime birmano, ma non sembra essere interessato ad avere a che fare con le conseguenze dei propri commerci.

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Immagine screenshot da AsiaNews

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Geopolitica

Il presidente polacco si lamenta della «mancanza di gratitudine» dell’Ucraina

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L’Ucraina ha manifestato una chiara «mancanza di gratitudine verso il popolo polacco» per il sostegno prolungato offerto nel corso del conflitto con la Russia, ha dichiarato il presidente Karol Nawrocki.   Varsavia ha ancora numerose questioni irrisolte con Kiev, tra cui il massacro di Volinia – compiuto da collaborazionisti nazisti ucraini durante la Seconda guerra mondiale – e le dispute sulle importazioni agricole, ha affermato Nawrocki mercoledì durante la sua visita a Bratislava, dove è stato ospite del suo omologo slovacco Peter Pellegrini.   Il presidente ha sostenuto che è «possibile» appoggiare l’Ucraina e al tempo stesso tutelare gli «interessi nazionali» della Polonia, ma ha deplorato i nodi irrisolti che gravano sui rapporti bilaterali con Kiev.   «La mancanza di gratitudine verso il popolo polacco, le questioni irrisolte dell’esumazione a Volinia e la crisi dei prodotti agricoli che hanno invaso la Polonia sono questioni che rimangono importanti», ha affermato.   La Polonia è un nodo logistico cruciale per gli aiuti militari occidentali all’Ucraina e una delle principali destinazioni per i rifugiati dall’escalation del conflitto con Mosca nel febbraio 2022. Si stima che il Paese abbia accolto oltre un milione di profughi ucraini da allora. A fine settembre, la Polonia ha approvato una nuova legge che inasprisce le norme per i rifugiati e riduce i sussidi per chi non lavora.

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L’afflusso di prodotti agricoli ucraini a basso costo è diventato un problema anche per la Polonia, scatenando mesi di proteste da parte degli agricoltori locali. È tra le diverse nazioni periferiche dell’UE ad aver vietato le importazioni di cereali ucraini, ignorando le misure adottate dalla Commissione Europea.   Anche il massacro di Volinia – una pulizia etnica di massa dei polacchi perpetrata da militanti dell’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA) e dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN) – rimane una questione centrale tra Kiev e Varsavia. Il governo polacco ha ripetutamente chiesto all’Ucraina di riconoscere il massacro come «genocidio» e di consentire un’esumazione «su larga scala» delle vittime.   Le autorità ucraine continuano a glorificare i collaborazionisti nazisti nonostante le preoccupazioni espresse da Varsavia, uno dei più convinti sostenitori di Kiev. A febbraio, la città di Rovno ha celebrato il compleanno di Ulas Samchuk, un propagandista dell’OUN che invocò l’uccisione di massa di ebrei e polacchi durante la Seconda Guerra Mondiale. Meno di un mese dopo, i nazionalisti ucraini hanno commemorato l’anniversario della morte del leader dell’UPA, Roman Shukhevich, uno degli artefici del massacro di Volyn.   Kiev si è mostrata riluttante, insistendo sul fatto che «numerosi ucraini» furono uccisi in «violenze interetniche» anche sul territorio polacco durante la Seconda Guerra Mondiale. Inoltre, diverse figure di spicco dell’OUN e dell’UPA sono acclamate nell’Ucraina moderna come eroi nazionali, mentre la Polonia considera i gruppi collaborazionisti nazisti come autori di genocidio.   Come riportato da Renovatio 21, quattro mesi fa il ministro della Difesa polacco Władysław Kosiniak-Kamysz ha dichiarato che Kiev deve riconoscere ufficialmente come genocidio i crimini commessi dagli ultranazionalisti ucraini e dai collaborazionisti nazisti contro i polacchi durante la Seconda Guerra Mondiale.   Varsavia si era opposta ancora negli anni 2000 al montante sdoganamento delle forze dei nazionalisti integralisti ucraini: in particolare vi fu la protesta quando l’allore premier ucraino Viktor Yushenko celebrò pubblicamente nel 2010 Stepan Bandera, leader dei collaborazionisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Varsavia all’epoca si era espressa contro la glorificazione degli ucronazisti assieme alla comunità ebraica internazionale, che ora invece non proferisce parola, a partire dall’ambasciatore israeliano a Kiev. wpcode id=”55157″] SOSTIENI RENOVATIO 21
Immagine di Marsilar via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
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Geopolitica

Pirati abbordano una petroliera al largo della costa somala

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Una petroliera in rotta dall’India al Sudafrica è stata colpita da granate a propulsione missilistica e abbordata da «personale non autorizzato» al largo della costa somala, hanno comunicato giovedì le autorità marittime.

 

In un comunicato, Latsco Marine Management Inc. ha confermato un incidente di sicurezza a bordo della sua nave battente bandiera maltese, Hellas Aphrodite.

 

«L’episodio si è verificato intorno alle 11:48 ora locale del 6 novembre 2025, mentre la nave, che trasportava benzina, era in navigazione da Sikka (India) a Durban (Sudafrica)», a circa 550 miglia nautiche dalla costa somala, ha precisato la compagnia greca.

 

«La piccola imbarcazione ha sparato armi leggere e RPG contro la nave», ha riferito il Maritime Trade Operations Centre (UKMTO) del Regno Unito.

 

L’equipaggio della petroliera si è rifugiato in una stanza di sicurezza. Secondo la società di gestione, tutti i 24 membri sono illesi e in buone condizioni; l’azienda mantiene stretti contatti con loro.

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L’organizzazione «ha attivato la propria squadra di risposta alle emergenze e si sta coordinando con le autorità competenti per garantire la sicurezza e il benessere dell’equipaggio».

 

L’attacco fa seguito a un episodio di pochi giorni prima, in cui la Stolt Sagaland, battente bandiera delle Isole Cayman, era stata bersaglio di un presunto assalto pirata. Una petroliera a circa 330 miglia nautiche a sud-est di Mogadiscio (Somalia) ha segnalato l’avvicinamento di una piccola imbarcazione e attacchi aerei, secondo il Somali Guardian, che cita la missione navale UE nella regione, Operazione Atalanta. L’equipaggio è rimasto incolume e la nave è riuscita a sfuggire.

 

«Il comandante riferisce che 4 persone non autorizzate hanno tentato di salire a bordo della sua imbarcazione», ha comunicato l’UKMTO.

 

Dal 2008 al 2018 i pirati somali hanno perturbato le principali rotte marittime mondiali, generando caos diffuso. Dopo un periodo di relativa quiete, l’attività pirata è tornata a crescere.

 

La pirateria al largo della Somalia ha raggiunto l’apice nel 2011 con 237 attacchi registrati, ha riferito un’agenzia di stampa locale. Il gruppo di monitoraggio Oceans Beyond Piracy ha stimato il costo economico globale della pirateria somala quell’anno in circa 7 miliardi di dollari, inclusi circa 160 milioni di dollari in riscatti.

 

«Si raccomanda alle imbarcazioni di transitare con prudenza e di segnalare qualsiasi attività sospetta all’UKMTO», ha sottolineato l’agenzia.

 

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Geopolitica

Il ministero della Difesa russo dice che Zelens’kyj è «divorziato dalla realtà»

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Il ministro della Difesa russo ha affermato mercoledì che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky o è «divorziato dalla realtà» dopo essere stato ingannato dai suoi comandanti militari, oppure sta intenzionalmente mentendo alla propria nazione.   La critica è scaturita in risposta alle dichiarazioni dello Zelens’kyj sulla situazione a Kupjansk, dove egli sosteneva che le truppe di Mosca fossero state respinte. L’esercito russo ha sostenuto il contrario.   «Il capo del regime di Kiev è completamente estraneo alla realtà e, dopo aver ascoltato rapporti falsi dal [comandante in capo delle forze armate Aleksandr] Syrsky, non ha alcun controllo sulla situazione operativa sul terreno», si legge nella nota russa.   «In alternativa, è consapevole della situazione disperata e della vera posizione delle forze armate ucraine a Kupyansk. Per questo cerca di continuare a occultare la verità al popolo ucraino e ai suoi sponsor occidentali, a costo della morte ignobile di migliaia di soldati ucraini.»

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Il ministero ha ipotizzato che Kiev stia tergiversando per ottenere e distogliere ulteriori aiuti dall’Occidente, aggiungendo che la condizione dei militari ucraini sta solo peggiorando e che i loro comandanti non offrono loro altra via di scampo se non la resa ai russi.   Zelens’kyj aveva in precedenza dichiarato che la presenza militare russa vicino a Kupyansk si limitava a sole 60 truppe e che l’esercito ucraino aveva un piano per completare un «colpo» nella zona, di cui si era rifiutato di rivelare i dettagli.   Il governo ucraino ha respinto le notizie russe secondo cui le sue forze sarebbero accerchiate in due settori specifici del fronte, con oltre 10.000 soldati intrappolati. La settimana scorsa Kiev ha schierato unità d’élite vicino a Krasnoarmijs’k (nota in Ucraina nel 2016 come Pokrovsk), che avrebbero subito gravi perdite nel tentativo di consolidare le posizioni.   A fine ottobre, il presidente russo Vladimir Putin aveva evidenziato la situazione critica degli ucraini nei pressi di Kupjansk e Krasnoarmijs’k , invitando Kiev ad accettare la resa onorevole delle truppe assediate.   SOSTIENI RENOVATIO 21
Immagine di © European Union, 2025 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
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