Spirito
Il Concilio Vaticano II fatto per disperdere il gregge ed abbandonarlo ai lupi: omelia di mons. Viganò
Renovatio 21 pubblica l’omelia di monsignor Carlo Maria Viganò per la festa di San Carlo Borromeo (4 novembre 2024).
SERVUS, PATER, ET ANGELUS
Omelia nella festa di San Carlo Borromeo, vescovo e confessore
Sacerdos et Pontifex,
et virtutum opifex.
Quattrocentoquarant’anni fa, il 3 Novembre del 1584, San Carlo Borromeo rendeva l’anima a Dio all’età di quarantasei anni.
Apparteneva all’antica e nobile famiglia padovana dei Buon Romeo, che aveva il proprio castello e la contea ad Arona, sul Lago Maggiore. Tonsurato a soli sette anni, a partire dal Novembre del 1552 fu studente di diritto a Pavia, divenne dottore in utroque jure nel 1559.
Votato alla Prelatura in quanto cadetto, iniziò la carriera ecclesiastica a ventidue anni, quando lo zio Giovanni Angelo de Medici – eletto Papa col nome di Pio IV – gli conferì importanti incarichi: Abate commendatario di una dozzina di Abbazie, Legato delle Romagne, protettore del Regno di Portogallo e dei Paesi Bassi, Arciprete di Santa Maria Maggiore, Gran Penitenziere, amministratore della Diocesi di Milano, e poi Segretario di Stato.
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La vita del giovane Carlo fu dedicata al servizio della Chiesa e del Papato, sicché il cognome Buon Romeo pare perfettamente esprimere la fede del pellegrino che fa volta verso la Roma dei Martiri, la Roma di Pietro e Paolo, e la Roma della grande Riforma Cattolica e del Concilio di Trento.
Il suo ideale presbiterale consisteva nel creare un corpo, distinto dagli altri, le cui parti si collegavano organicamente e obbedivano tutte a una testa. «Voi siete i miei occhi, le mie orecchie, le mie mani» diceva Carlo ai suoi sacerdoti: questa metafora aveva in lui valore letterale.
Fondò gli Oblati di Sant’Ambrogio, prendendo ad esempio le costituzioni degli Oratoriani di San Filippo Neri. La sua congregazione costituiva un corpo di volontari a disposizione del Vescovo, ben addestrati e formati, disposti ad assumere incarichi difficili e impegnativi. Gli Oblati vennero impiegati per la direzione dei Seminari e, soprattutto, per la predicazione delle missioni al popolo.
Il loro carisma, nel quale si ravvisano molti elementi ignaziani, consisteva nel tenere viva una spiritualità contrassegnata dall’appartenenza al Clero diocesano, dal voto di obbedienza al Vescovo e dalla salvaguardia degli elementi propriamente ambrosiani.
La situazione della Chiesa nel Cinquecento non era delle migliori. Al decadimento morale dei laici e del Clero a causa della secolarizzazione indotta dalla cultura del Rinascimento – di netta impostazione neopagana, cabalistica ed esoterica nei ceti dirigenti – si accompagnava una scarsa formazione dottrinale.
La corruzione della Curia Romana, presa a pretesto dagli eretici per attaccare il Papato, rendeva assai arduo il governo della Chiesa e ben poco efficace il ministero dei Pastori.
Il Concilio tridentino, cui Borromeo collaborò attivamente, giunse a sanare questa crisi ecclesiale con una grande riforma che diede nuovo impulso all’intera società, non solo sotto un profilo religioso, ma anche morale, culturale, artistico ed economico. Esso diede inizio alla fondazione dei Seminari, grazie ai quali i chierici erano preparati ad affrontare gli impegni sacerdotali nelle varie discipline ecclesiastiche.
I Papi e i vescovi tridentini si comportarono insomma in modo diametralmente opposto a ciò che fecero i papi e i vescovi del Concilio Vaticano II, che usarono il loro «concilio» non per combattere i nuovi errori, ma per introdurli nel sacro recinto; non per restaurare la sacra Liturgia, ma per demolirla; non per raccogliere il gregge cattolico intorno ai Pastori, ma per disperderlo e abbandonarlo ai lupi.
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Se San Carlo fu infiammato di amore per la Messa e per la Santissima Eucaristia – famose le sue omelie al popolo e le sue meditazioni al clero su questo tema – i vescovi di tre secoli dopo ne calpestarono l’eredità, indebolendo proprio quei due presidi dell’ortodossia cattolica che nuovamente erano minacciati dal neoprotestantesimo di cui essi si facevano promotori.
Se San Carlo fu devoto fautore del culto mariano, del quale comprendeva la forte valenza antiprotestante, i fautori del Vaticano II cercarono in tutti i modi di indebolirlo, per favorire colpevolmente il dialogo ecumenico. E quei Seminari e Atenei che il Borromeo fondò per la difesa della Fede e la disciplina del clero, trecento anni dopo divennero ricettacoli di ribelli e di fornicatori.
E ciò non avvenne per un caso, ma per la deliberata e scellerata volontà di distruggere quel modello che si era rivelato incontestabilmente efficace, affinché la Chiesa Cattolica si ritrovasse come e peggio che nel Cinquecento.
Il modello dei beni fondiari di cui la famiglia Borromeo era proprietaria e il suo spirito genuinamente lombardo, ispirò San Carlo nel governo della Chiesa.
La sua economia pastorale ne portò il segno e consistette nel distribuire «terre» a buoni fittavoli (i pastori), a visitarli e controllarli. Essa era geografica e territoriale, mirava ad un miglior rendimento in termini di raccolti e di «frutti» dei terreni – le parrocchie – affidati ad economi zelanti.
L’insieme dei testi votati dal Concilio di Trento nel 1562-63 presentava l’ideale, offerto ad un’ambizione più alta e legato all’urgenza dei tempi, della eminente dignità e dei doveri del vescovo. Per tutta la vita i Canones reformationis generalis di Trento ebbero per San Carlo il valore di una rivelazione decisiva. Egli assistette e collaborò alla produzione di questa immagine del vescovo, uomo d’azione: «huomo di frutto et non di fiore, de’ fatti et non di parole» a dire del Cardinal Seripando.
Il Borromeo non poteva concepire la Fede senza le opere – dottrina fondamentale del Tridentino, negata dal sola fides dai Protestanti – e la sua vita fu un monumento all’azione pastorale, nutrita di solida spiritualità e di un grande amore per il popolo, per i poveri, per i bisognosi.
Anche in questo, significativamente, il suo esempio è eloquentissimo: il suo impegno nella cura degli appestati durante la peste che colpì Milano nel 1576-1577 lo portò a indire processioni penitenziali e a visitare e comunicare personalmente i malati nei lazzaretti.
I pavidi cortigiani, figli del Vaticano II, che qualche anno fa si sono rintanati nelle loro Curie proibendo addirittura la celebrazione della Messa durante la farsa pandemica, dovrebbero arrossire di vergogna dinanzi allo zelo di San Carlo e del suo Clero.
Una regola data ai sacerdoti dal Tridentino era: Se componere (Conc. Trid., VIII, p. 965), conformarsi al ruolo, trasformarsi alla lettera: «È tanto il desiderio mio che hormai s’attenda ad exequir, poi che sarà confirmato questo Santo Concilio conforme al bisogno che ne ha la Christianità tutta e non più a disputare».
Il Borromeo non fu teologo, né grande disputatore – motivo per cui non lo vediamo annoverato tra i Dottori della Chiesa – ma pastore, ossia fedele esecutore. «Noi vorremmo avere osservato diligentemente tutto ciò che è stato prescritto in tutti i Sinodi precedenti» disse nel 1584.
E ancora: «La vita di un Vescovo deve regolarsi […] unicamente secondo le leggi della disciplina ecclesiastica».
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Quale abisso, cari fratelli, separa questa stirpe di santi Prelati da coloro che oggi ne hanno preso il posto! L’obbedienza di quelli si è mutata in ribellione di questi, la povertà in brama di beni e potere, la castità in vizi e fornicazione, la fedeltà al Magistero in ostentato incoraggiamento dell’eresia.
San Carlo sapeva anche scegliere i propri collaboratori, spesso sottraendoli ad altre Diocesi, al punto che San Filippo Neri, con la confidenza usuale tra Santi, lo chiama «ladro di vescovi». Quando divenne Arcivescovo di Milano, nel 1564, egli indisse il Sinodo diocesano e raccolse i suoi milleduecento sacerdoti per dettar loro un programma di applicazione dei decreti tridentini e una serie di misure disciplinari (residenza, riduzione del numero dei benefici, moralità, studi ecclesiastici, pratiche pastorali) che non mancò di sollevare proteste, specialmente quando egli applicò multe pecuniarie ai chierici disobbedienti.
Affidò il Seminario ambrosiano ai Gesuiti, continuando a vigilare e sorvegliare nei minimi dettagli la vita dei giovani che vi si formavano. L’istituto della Visita pastorale fu uno strumento che consentì a San Carlo di seguire la vita delle parrocchie, facendo sì che i Decreti del Concilio di Trento trovassero piena applicazione.
Quando nel 1565 morì lo zio Pio IV de Medici e nel 1566 venne eletto Pio V Ghisiglieri, il Borromeo si dedicò interamente alla cura animarum nella propria Diocesi.
Qui combatté strenuamente il diffondersi delle eresie luterane, calviniste, zwingliane ed infine anabattiste che trovavano seguaci presso gli Agostiniani, i Francescani e i Domenicani. Ma contro le ribellioni, le sette, i carnevali e le concussioni – i suoi principali avversari – San Carlo preferiva i rigori della predicazione o della legge ecclesiastica, più che le interferenze del potere temporale, all’epoca sotto la dominazione spagnola.
Forte dell’esempio del suo illustre predecessore Sant’Ambrogio, mai egli si piegò allo strapotere dell’autorità civile, alla quale non esitò a comminare anche la scomunica. Il Borromeo creò così un corpo d’élite, grazie a istituzioni modello in cui tutti i metodi applicati nella Diocesi potevano funzionare in modo esemplare: «Nihil magis necessarium aut salutare videri ad restituendum veterum ecclesiasticorum disciplinam quam Seminarii institutionem». Niente sembra più necessario o salutare per restaurare l’antica disciplina degli ecclesiastici che l’istituzione di Seminari.
San Carlo si occupò delle vocazioni tardive, dei curati di villaggio, dei piccoli seminari, della formazione ecclesiastica nei cantoni Svizzeri limitrofi, il Ticino e i Grigioni. Ma l’élite che vi si formava non era quella della ricchezza o della nobiltà né quella del sapere: i poveri vi erano largamente ricevuti e finanziariamente aiutati.
Contro la lethargia dei preti e dei vescovi egli oppose l’ascesim, per farne servi, patres, et angeli. Servitori del Vescovo nel suo servizio dei fedeli; padri delle anime, sull’esempio dei Padri della Chiesa antica e dei loro successori; angeli, infine, per l’imitazione di un ordine gerarchizzato, per la castità che vale loro una posterità spirituale, e per il loro statuto di esseri separati.
I balli o le superstizioni che egli soppresse, le sostituì non con discorsi, ma con gesti: guidò egli stesso le processioni di reliquie, si professò pubblicamente devoto dei Santi, si fece pellegrino della Sacra Sindone a Torino o della Vergine a Varallo, Varese, Saronno, Rho, Tirano o Loreto.
E seppe essere tanto fiero Principe della Chiesa dinanzi ai potenti, quanto tenero Pastore del popolo cristiano, sempre senza mai umiliare la dignità di cui era insignito. Scrive eloquentemente di lui il nipote e successore sulla Cattedra milanese, Federico: «mai non si scardinalava, ed […] era un Vescovo che mai non si svescovava».
San Carlo, infine, fu colui grazie al quale nel 1575 venne ripristinato il venerabile Rito Ambrosiano, nel quale sono stato battezzato per immersione e in cui celebro quotidianamente il Santo Sacrificio. Ancora oggi sopravvive, nella sua versione non corrotta dalla pseudoriforma liturgica di Giovanni Battista Montini, in alcune chiese della Diocesi di Milano.
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Invochiamo l’intercessione di San Carlo Borromeo – del quale mi onoro di portare il nome – in questi tempi dolorosi che travagliano la Santa Chiesa. Possa egli essere per noi modello ed esempio, specialmente per quanti di voi si apprestano ad ascendere i gradi dell’Ordine Sacro e per quanti sono già sacerdoti.
Ci guidi nella nostra vita e nel nostro Ministero la dignità con cui San Carlo ricoprì importanti e delicati incarichi al servizio della Chiesa; la fermezza paterna con la quale seppe riformare il Clero e la disciplina ecclesiastica; la mansuetudine con cui istruì il gregge affidatogli dal Signore; la severità verso se stesso nell’orazione, nel digiuno e nella penitenza.
Affidiamo alla sua protezione la Barca di Pietro, nave senza nocchiere in gran tempesta, perché implori dal Cielo nuovi santi Pastori che non si prostrino al mondo, ma a Cristo; che siano fedeli alla Santa Chiesa e al Papato Romano, e non asserviti ai nemici dell’una e dell’altro.
E come abbiamo udito dal Vangelo di ieri, riponiamo la nostra fiducia in Nostro Signore, addormentato mentre i flutti minacciano di sommergere l’unica Arca di salvezza.
Alle nostre preghiere risponda la voce serena del Salvatore, che comanda al mare e ai venti. Tempora bona veniant.
E così sia.
+ Carlo Maria Viganò
Arcivescovo
4 Novembre MMXXIV a. D.ñi S.cti Caroli Episcopi Mediolanensis et Confessoris
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Immagine: Guercino (1591-1666), San Carlo Borromeo in preghiera (1613-1614), Collegiata di San Biagio, Cento (Ferrara)
Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
Renovatio 21 offre questa omelia di Monsignor Viganò per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.
Spirito
Io difendo Ambrogio e Ambrogio difende me
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Devozione
Fu con quella cartolina in tasca che un pomeriggio d’inverno, senza saper neanche bene perché, entrai per la prima volta nella Basilica di Sant’Ambrogio. Vagai per la navata, che rispetto a quella del Duomo, notai, era più luminosa, e non so quanto la cosa mi piacesse. Osservai quella colonna stranissima che si erge a metà chiesa, che sopra monta un serpente di bronzo. Ero confuso. C’era pace. Quello, sì, lo sentivo distintamente. Non passò molto prima di venir magnetizzato verso il fondo della Basilica. E di lì, giù per quella mezza manciata di scalini. Ero entrato nella cripta. Non ero preparato: non mi aspettavo di trovare, in quel cunicolo buio sotto l’altare, tre scheletri — gli unici punti illuminati — e una grande cancellata di metallo a dividermi da essi. Di quella prima volta, conservo il ricordo nitido di una sola figura umana che stava dinanzi a me. Una ragazzina, che non arrivava ai vent’anni. Composta, nel suo cappottino elegante, stivali alti, gli occhi azzurri, che potevo scorgere con un bagliore proveniente dall’esterno, trasmettevano fierezza, ma non solo quella. Era in ginocchio davanti alla cancellata, rivolta verso i Santi. Le mani erano giunte in preghiera. Con le stesse, poi si aggrappava alle barre di metallo. Come se fossero le inferriate di un carcere, come se ardesse per liberare se stessa o qualcos’altro, tenuto appena oltre quelle sbarre. Cosa stava facendo? Perché una ragazza così — una ragazza di buona famiglia, che trovavo anche carina — aveva bisogno di fare una cosa simile? Pregare con tutto lo spirito uno scheletro? La risposta è in qualcosa che imparai a comprendere tempo dopo: devozione. La devozione era, in realtà, quella fierezza che avevo fugacemente letto negli occhi di Penelope, e che ora veniva irradiata da questa ragazzina. Una devozione speciale, personale, locale: quella fanciulla stava pregando il protettore della città. Il difensore proprio di quella città specifica. Passarono gli anni, passarono le fidanzate, le fortune, le sventure, gli studi, i lavori, le gioie, le disgrazie, i sindaci e i governi: eppure mi ritrovai sempre, e sempre più spesso, immerso in quella cripta. Con il tempo, mi ritrovai ad emulare quella ragazzina che non vidi mai più: in ginocchio, le mani a stringere forte quella grata, di cui anche ora che scrivo percepisco il freddo del metallo mentre tocca i miei palmi. A volte, su quella grata appoggio anche la testa, così, tra una sbarra e l’altra, nell’impossibilità di fare passare attraverso il mio cranio, così, in quello che è anche un appoggio di sollievo, sempre con il ferro gelido a toccarmi fino alle ossa. In ginocchio, a parlare con il Patrono. A chiedergli di proteggermi, e di proteggere tutta la città dove vivevo. Proteggere Milano, perché a Milano, talvolta a distanza talvolta no, avevo visto ogni sorta di cosa. Avevo visto la gente brutalizzarsi nel modo più abietto; avevo visto la cattiveria dei potenti; avevo visto la cattiveria degli impotenti; avevo visto uomini combattersi e ammalarsi; avevo visto amici accumulare danari perdendo l’umanità e anche la famiglia; avevo visto un uomo spararsi davanti all’ex fidanzata nel bar sottocasa; avevo visto coetanei inghiottiti da abissi notturni per non riemergere più; avevo visto la droga (sia quella illegale che quella legale) consumare le menti di una o due generazioni per non lasciare niente; avevo visto una bella conterranea fucilata dal convivente impasticcato psichiatricamente, un’altra fu squartata dal rampollo suo convivente; avevo visto luoghi di perdizione vera, che ancora oggi mi chiedo come facciano ad esistere; avevo visto il crimine convivere tranquillo con la quotidianità; avevo visto l’ambizione delle persone renderle squallide, mostruose, deformi; avevo visto tradimenti, adulterii, ogni sorta di sovversione sessuale e morale; avevo visto ragazze rifiutare i propri figli, e ucciderli; altre ne avevo viste uccidere in provetta quantità indefinite di bambini per alla fine averne uno solo in braccio. Perversione, decadenza, morte. Milano è davvero una metropoli. Come non invocare la protezione di Ambrogio? La cosa mi era impensabile. Come non immaginare, mentre stringo quelle sbarre, che egli stenda un manto santo sopra la città? Che blocchi il Male che correva libero per quelle strade? Finii col credere fermamente che Ambrogio fosse ciò che tratteneva Milano dallo sprofondare in quell’Inferno di fuoco che avrebbe inghiottito quell’inferno umano che registravo con i miei occhi. Per questo, la preghiera in quella cripta divenne per me assidua.Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Tales ambio defensores
Non posso enumerare le volte in cui sono finito davanti alle spoglie mortali di Ambrogio, Gervaso e Protaso. Per dei periodi, è stato un affare quotidiano. Mi sono aggrappato a quelle sbarre migliaia di volte; spesso sono stato mandato via dal solerte signore filippino (credo) che arriva con l’enorme, tintinnante mazzo di chiavi per chiudere tutta la basilica. Ho fatto ogni sorta di meravigliosi incontri in quel luogo santo. Ricordo quando, inciampandole addosso, dissi «izvinite» («mi scusi») a una anziana signora velata. Si faceva multipli segni della croce ed era, chiaramente, una delle tante signore ortodosse — per lo più immagino badanti, ma vi sono talvolta anche veri e propri gruppi di pellegrini — che vanno ad omaggiare Ambrogio. La signora, usciti dalla cripta, volle scambiare quattro chiacchiere con me, entusiasta del misero russo che stavo studiando. Pretese che salissi immediatamente con lei in metropolitana fino al Duomo, dove mi schiuse le porte di una chiesa ortodossa, che prima di allora mai avevo saputo esistere, appena dietro la cattedrale. La visita ad Ambrogio era una fermata che ella faceva prima di andare nella sua chiesa. C’erano tante signore (moldave, ucraine, bielorusse, russe, kazake…), alcune ho pensato fossero impiegate nell’assistenza di malati o anziani, altre, più giovani ed eleganti, lavoravano chiaramente nella moda; altre ancora, più formose e appariscenti, probabilmente si occupavano di altro – tutte, però, portavano il velo. C’erano i pope con barbe e vesti scure e lunghissime, le candele, l’iconostasi immensa con i suoi bagliori dorati. Tutto sembrava solenne anche se non vi era una funzione in corso. Anche la signora moldava, come Penelope, mi passò una cartolina, e cioè quel che poteva donarmi di più vicino ad una icona. Capii di essere finito un’altra volta in un circuito invisibile il cui termine era sempre e comunque Ambrogio. La devozione. Sì, il circuito della devozione, la cui fermata principale era quella cripta, in cui sono finito non perché ho letto un libro (ignoravo, e tuttora ignoro tutto del Santo!) ma perché sospinto da questo flusso intangibile che scorreva a Milano attraverso perfino i cuori degli stranieri. In quella cripta ho portato tutto: dalle gioie dei primi (piccoli) incassi per i lavori compiuti alla morte di un genitore, dalla speranza di prosperità alla frantumazione del mio essere che a volte gli eventi milanesi potevano cagionare. Soprattutto, ho portato la mia pochezza. Il mio bisogno di essere protetto, difeso. «Tales ambio defensores» disse Ambrogio quando rinvenne i corpi dei due martiri Gervaso e Protaso che ora giacciono con lui (fu l’esito di uno scavo che egli volle commissionare guidato da un presagio interiore; l’evento gli permise di vincere definitivamente il cuore di Milano, che all’epoca contava molti eretici ariani). Me lo sono ripetuto anche io tante volte: «Tali difensori io desidero».Sostieni Renovatio 21
Nemici di Ambrogio
Al contempo, mi sento in dovere di difendere Ambrogio. Perché, per quanto possa sembrare incredibile, Ambrogio ha dei nemici. Forze che bramano la distruzione di Ambrogio e di quel fiume invisibile che mi ha portato da lui. Nel 1799 i napoleonici della Repubblica Cisalpina vollero che la Basilica venisse trasformata in un ospedale militare. Altre forze figlie della Rivoluzione — i nostri «liberatori» angloamericani — bombardarono vigliaccamente dal cielo Sant’Ambrogio nel 1943. Poi, il 28 giugno 2000 il Male e la sua manovalanza terrena passano all’attacco diretto, penetrando sino al cuore ambrosiano. Nascondono in un inginocchiatoio della nostra cripta uno zaino con due bottiglie contenenti benzina, collegate a un innesco chimico alimentato da una pila. Una bomba incendiaria. (Bruciare Ambrogio e il suo tempio, lo dirò più sotto, potrebbe avere un suo significato di nemesi precisa). L’ordigno è trovato dalla Digos, perché un quotidiano riceve un volantino di rivendicazione. Gli esecutori dovrebbero essere gli anarchici della sigla «Solidarietà Internazionale»; protesterebbero per una cerimonia della polizia penitenziaria. Io in realtà so che, da secoli, vogliono colpire qualcosa di più grande, qualcosa di fondamentale per l’equilibrio di tutta la città – e della mia vita. Vogliono colpire Ambrogio. Vogliono colpire la sua devozione. Perché so tutto questo, non mi son sorpreso quando qualche anno fa uscì sotto forma di libro un attacco ad Ambrogio. Il libro, incensato dall’intero arco delle gazzette nazionali, da Il Sole 24 ore a Il Manifesto, portava la firma di una vecchia conoscenza, diciamo così, tale Franco Cardini. Il titolo non è molto sibillino: Contro Ambrogio.Aiuta Renovatio 21
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Tradidi quod et accepi
Voglio concludere. Molto ci sarebbe da dire, come per esempio il mio disgusto per i ciellini (e il loro vescovoni trombati e infelici) che cianciano di «libertà religiosa» quando il Santo della loro capitale ne è stato il più acerrimo nemico, e su di essa — in ispecie contro i pagani — ha combattuto una guerra infuocata, e l’ha vinta. Qualcuno mi accuserà: perché parli, sei uno storico? Un teologo? Un sapiente? No, non lo sono. Sono un uomo ignorante, e l’unica storia che conosco davvero, riguardo Ambrogio, è quella che mi ha portato a lui. Sono solo una persona che riesce ancora a struggersi davanti alla devozione; qualcuno di così ottuso da stupirsi del fatto che esiste ancora; qualcuno di così scemo da credere che la devozione sia non solo necessaria, ma perfino «efficace». Sono un peccatore: sono uno che ad Ambrogio chiede aiuto. Non ci ho scritto libri, non ho studiato a fondo la sua vita e le sue opere. Una cosa però l’ho fatta. Ho portato ad Ambrogio una ragazza, S., tedesca, come Ambrogio. S. aveva un problema, non riusciva più ad entrare in chiesa senza avere un attacco di pianto. Il motivo, ho ipotizzato, era legato a delle vicende personali. La sua famiglia ha attraversato momenti bui, in parte irrisolti, in parte risolti, che hanno lasciato un segno sul suo spirito. In chiesa, mi ha poi spiegato, non riusciva ad entrare perché «non mi sentivo pura a sufficienza», anche se S. è una delle persone più pure che conosco a Milano. Ho fatto fatica. Le prime volte, trascinarla era un vero esercizio di violenza psicologica. «Io vado dentro, devi proprio fare queste scene?». Seguivano occhi sgranati, afasie, imbarazzi paralizzanti, lacrime. Ho iniziato così pian piano a portarla alla messa della domenica sera. Nella pratica, è vero che qualche volta è svenuta, subito soccorsa da fedeli circostanti. Ma ora è tutto alle spalle. Mi esprime, anche troppo spesso, la sua gratitudine per la mia ostinazione. È amica dei sacerdoti come degli altri fedeli, è assidua. Si chiede spesso perché io abbia spinto tanto: il perché lo sa Ambrogio, io sono solo la nanometrica parte del suo circuito invisibile. Qualche giorno fa, S. ha ricevuto finalmente la Cresima, che le mancava. Voleva che facessi da padrino, ma lontano come sono oggi dalla Chiesa conciliare, non per un secondo ho pensato che potessi essere io a sigillare la fine di questa minuscola storia ambrosiana. Nonostante lo stato di aberrazione in cui versa la Chiesa, posso dire che questo è il mio microscopico contributo alla Tradizione: ho tramandato la devozione che ho ricevuto, ho mandato ad Ambrogio qualcuno, come vi ero stato mandato io. Ho conservato, e tramandato, la devozione al cuore di Milano e della vera Cristianità. Io difendo Ambrogio perché Ambrogio difende me. Roberto Dal BoscoIscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Spirito
Notre-Dame brucia e la Madonna viene privata del suo titolo
Il Dicastero per la Dottrina della Fede ha pubblicato la Mater Populi Fidelis il 4 novembre 2025. Approvato da Leone XIV, questo documento priva la Madonna del titolo di Corredentrice.
Si tratta tuttavia di un titolo eminentemente tradizionale, come affermava Leone XIII nell’enciclica Adjutricem Populi del 5 settembre 1895: «Come ella era stata strumento del mistero dell’umana Redenzione, così, con il potere quasi illimitato che le era stato conferito, era dispensatrice della grazia che da questa Redenzione deriva per sempre».
Come ha potuto Leone XIII sbagliarsi così tanto? Non solo lui, ma anche i suoi successori: San Pio X (Ad Diem Illum, 2 febbraio 1904), Benedetto XV (Inter sodalicia, 22 marzo 1918), Pio XI (Discorso del 30 novembre 1933 ai pellegrini di Vicenza in Italia) e Pio XII (Mediator Dei, 20 novembre 1947, e Ad Cæli Reginam, 11 ottobre 1954), che hanno tutti parlato della corredenzione di Maria. Il recente documento romano ha ragione contro tutti questi papi?
Il 15 e 16 aprile 2019, Notre-Dame de Paris è stata devastata dalle fiamme. Di fronte a questo tragico incendio, un’immensa emozione ha scosso il mondo intero, ma si trattava solo di una cattedrale di pietra. Oggi, è la Casa d’Oro, l’Arca dell’Alleanza, la Porta del Cielo, come cantano le litanie della Vergine Maria, a essere privata del titolo di Corredentrice.
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Un’emozione ancora più intensa si impadronisce dell’intera cristianità, sconvolta nel vedere che questa detronizzazione è opera di un dicastero romano incaricato di insegnare la fede nella sua integrità e completezza.
Ieri Notre-Dame è stata incendiata. Ma la cattedrale è stata ricostruita pietra su pietra; i discendenti dei costruttori medievali si sono alternati giorno dopo giorno, con infinita pazienza e notevole abilità. Ancora una volta, la Madonna protegge Parigi con il suo manto materno. È lì, in piedi. Stabat Mater.
Oggi, la Madonna, Corredentrice, è spogliata. Ma la pietà filiale dei cattolici restituirà onore alla Beata Vergine, con tutti i suoi titoli, attraverso la recita fervente del Rosario e delle sue litanie. La fermezza dei costruttori si opporrà all’empietà dei demolitori.
Con questa incrollabile certezza, i documenti degli attuali dicasteri passeranno, e anche i loro autori. La Madonna rimarrà Corredentrice, ai piedi della Croce. Stabat Mater .
Don Alain Lorans
FSSPX
Articolo previamente apparso su FSSPX.News
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Immaine di Olivier Mabelly via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0
Spirito
Il Vaticano rifiuta di formulare un «giudizio definitivo» sulle donne diacono
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