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Geopolitica

Golpe «costituzionale» in Tunisia?

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Durante la notte di domenica 25 luglio la situazione politica in Tunisia è precipitata verso quello che in molti chiamano un colpo di stato, sia pure «costituzionale».

 

Secondo alcuni osservatori si tratterebbe della resa dei conti fra la Tunisia laica e quella che invece vota per l’islamismo.

 

Kais Saied, presidente della Repubblica, ha optato per l’utilizzo dell’articolo 80 della Costituzione: «in caso di pericolo imminente e minaccia per la sicurezza della Stato il Presidente della Repubblica è autorizzato a prendere misure eccezionali». Ecco perché è possibile parlare di «golpe costituzionale». Tuttavia, non pare ci sia un’idea chiara su quale possa essere questo «pericolo imminente» per lo Stato.

 

Kais Saied, presidente della Repubblica, ha optato per l’utilizzo dell’articolo 80 della Costituzione: «in caso di pericolo imminente e minaccia per la sicurezza della Stato il Presidente della Repubblica è autorizzato a prendere misure eccezionali». Ecco perché è possibile parlare di «golpe costituzionale»

Il presidente Saied ha quindi licenziato il primo ministro Mechichi e tutto il suo governo, stabilendo che per almeno un lasso di tempo di 30 giorni, a governare con sarà lo stesso Saied con un gabinetto scelto sempre da lui. Mechichi in questo momento risulterebbe irreperibile, anche se la TV al-Arabya sostiene che si trova in una caserma dell’esercito tunisino.

 

Oltre al potere esecutivo, anche il potere legislativo è stato sospeso: il Parlamento (in Tunisia vi è solo una camera) è anch’esso cancellato per un mese.

 

La Corte Costituzionale del Paese dovrebbe essere interessata nei casi in cui si invochi l’articolo 80, ma essa è da anni bloccata da veti incrociati dei politici, «Un vulnus democratico che Saied sta abilmente sfruttando», scrive la Rivista Italiana di Difesa.

 

Non è possibile dire che il caos tunisino non fosse annunciato. Anzi, era stato anticipato, perfino descritto, solo due mesi fa.

 

«Nei mesi scorsi, peraltro, la possibilità di un golpe da parte di Saied era già stata ventilata, specie dopo che un documento riservato della presidenza era filtrato alla stampa. Nel rapporto si tracciava uno scenario non troppo distante da quello attuale. Il documento appariva così credibile che Saied stesso era stato costretto a smentirne l’autenticità il 26 maggio scorso» continua RID.

 

Secondo alcuni osservatori si tratterebbe della resa dei conti fra la Tunisia laica e quella che invece vota per l’islamismo. Il più grande partito del Parlamento tunisino è Ennhada («la rinascita»), che deriva dal movimento transnazionale dei Fratelli Musulmani

Il più grande partito del Parlamento tunisino è Ennhada («la rinascita»), che deriva dal movimento transnazionale dei Fratelli Musulmani ma sostiene di averne ripudiato più di quarant’anni fa l’idea della violenza come strumento politico, prefiggendosi la creazione di una «via tunisina all’islamismo».

 

È Ennhada, secondo alcuni analisti, il vero obbiettivo dell’operazione del presidente Saied. Il co-fondatore di Ennahda Rached Ghannouchi è infatti presidente del Parlamento. Nella notta di domenica, appresa la notizia della decisione di Saied di attivare l’articolo 80, Ghannouchi ed alcuni deputati hanno cercato di entrare in Parlamento, ma l’edificio era già presidiato dall’esercito, che non ha permesso loro di entrare. Il palazzo sarebbe stato altresì circondato da manifestanti che lanciavano slogan contro  Ennahda.

 

In varie città alcune sedi di Ennahda, partito salito al potere con la «rivoluzione del Gelsomino» del 2011 nel contesto delle cosiddette «Primavere Arabbe»,  sono state attaccate. Si sono registrate violenze  anche in città come Kairouan, Gafsa, Tozeur Monastir, Sousse.

 

Ghannouchi e l’ex presidente Marzouki hanno parlato apertis verbis di «colpo di Stato», mentre altri stakeholder del poter di Tunisi come i sindacati e la locale associazione degli industriali non si sono ancora espresse.

 

La popolazione in questi giorni stava protestando per l’economia la gestione della questione sanitaria; ora la piazza sembra essere animata solo da sostenitori del presidente Saied, che paiono assai favorevoli alla presenza militare nel Paese in questo momento.

La popolazione in questi giorni stava protestando per l’economia la gestione della questione sanitaria; ora la piazza sembra essere animata solo da sostenitori del presidente Saied, che paiono assai favorevoli alla presenza militare nel Paese in questo momento.

 

La crisi è subentrata nel 64° anniversario della creazione della Repubblica, un giorno di festa nazionale.

 

Dopo il rovesciamento di Zine El Abidine Ben Ali nel 2011 – uomo piazzato lì da Craxi con gran scorno dei francesi che consideravano ancora la Tunisia una virtuale provincia del loro impero (e, per questo, si dice possano aver piazzato una bomba alle Tremiti come monito di ritorsione contro l’Italia) – anche Tunisi ha visto, come l’Egitto con Morsi, l’ascesa di partiti legati ai Fratelli Musulmani – una mossa che alcuni dicono essere stata facilitata da Washington che voleva provare il possibile effetto di stabilizzazione di questo islamismo che oggi si vuole «moderato», ma i cui ideologi (di cui uno, SayyidQubt, peraltro radicalizzato dopo aver vissuto in USA) moderati non erano in nessun modo, e anzi vanno considerati come ispiratori dei movimenti fondamentalisti e financo terroristi di tutto il mondo.  Ayman al-Zawahiri, il numero uno di Al-Qaeda dopo la morta di Osama Bin Laden, entrò quattordicenne nella Fratellanza Musulmana per divenire discepolo di Qutb

 

Si tratterebbe, nel caso fosse vero, dell’ennesima scelta poco lungimirante, e devastatrice, della politica estera americana: la Tunisia di fatto dalla rivoluzione colorata (peraltro, la prima: l’innesco della Primavera Araba in tutto il mondo fu la protesta di un commerciante tunisino che si diede fuoco) non ha mai trovato la stabilità.

 

Il vero potere che ha eliminato Craxi per tramite dell’operazione nota come «Tangentopoli» può essere lo stesso che ha avallato in questi anni lo sdoganamento dei Fratelli Musulmani

Qualcuno, anni fa, scrisse davanti al Tribunale di Milano su un muro «Craxi torna». Non solo Milano, anche Tunisi potrebbe albergare oggi un desiderio del genere – del resto, come noto, l’ex capo del PSI è sepolto proprio là.

 

E del resto, non sono pochi a sostenere che il vero potere che ha eliminato Craxi per tramite dell’operazione nota come «Tangentopoli» sia lo stesso che ha avallato in questi anni lo sdoganamento dei Fratelli Musulmani (considerati come organizzazione terrorista da Bahrain, Egitto, Russia, Siria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Tagikistan e Uzbekistan) e delle relative gemmazioni.

 

 

 

 

 

 

 

Immagine di US Secretary of Defense via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0); immagine modificata.

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Geopolitica

Putin: la Russia raggiungerà tutti i suoi obiettivi nel conflitto ucraino

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La Russia porterà a compimento tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale in Ucraina, ha dichiarato il presidente Vladimir Putin.

 

Tra gli scopi principali enunciati da Putin nel 2022 vi sono la protezione degli abitanti delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk dall’aggressione delle forze di Kiev, nonché la smilitarizzazione e la denazificazione dell’Ucraina.

 

«Naturalmente porteremo a termine questa operazione fino alla sua logica conclusione, fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale», ha affermato Putin in videocollegamento durante la riunione del Consiglio presidenziale per i diritti umani di martedì.

 

Il presidente russo quindi ricordato che il conflitto è scoppiato quando l’esercito ucraino è stato inviato nel Donbass, regione storicamente russa che nel 2014 aveva respinto il colpo di Stato di Maidan sostenuto dall’Occidente. Questo, secondo il presidente, ha reso inevitabile l’intervento delle forze armate russe per porre fine alle ostilità.

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«Si tratta delle persone. Persone che non hanno accettato il colpo di Stato in Ucraina nel 2014 e contro le quali è stata scatenata una guerra: con artiglieria, armi pesanti, carri armati e aviazione. È lì che è iniziata la guerra. Noi stiamo cercando di mettervi fine e siamo costretti a farlo con le armi in pugno».

 

Putin ha ribadito che per otto anni la Russia ha cercato di risolvere la crisi per via diplomatica e «ha firmato gli accordi di Minsk nella speranza di una soluzione pacifica». Tuttavia, ha aggiunto la settimana scorsa in un’intervista a India Today, «i leader occidentali hanno poi ammesso apertamente di non aver mai avuto intenzione di rispettarli», avendoli sottoscritti unicamente per guadagnare tempo e permettere all’Ucraina di riarmarsi.

 

Mosca ha accolto positivamente il nuovo slancio diplomatico impresso dal presidente statunitense Donald Trump, che ha proposto il suo piano di pace in 28 punti come base per un’intesa.

 

Lunedì Trump ha pubblicamente invitato Volodymyr Zelens’kyj ad accettare le proposte di pace, lasciando intendere che il leader ucraino non abbia nemmeno preso in esame l’ultima offerta americana.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0) 

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Geopolitica

Lavrov elogia la comprensione di Trump delle cause del conflitto in Ucraina

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Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato che il presidente statunitense Donald Trump rappresenta l’unico leader occidentale in grado di cogliere le vere motivazioni alla base del conflitto ucraino.   Parlando mercoledì al Consiglio della Federazione, la camera alta del parlamento russo, Lavrov ha spiegato che, mentre gli Stati Uniti manifestano una «crescente impazienza» verso il percorso diplomatico mirato a cessare le ostilità, Trump è tra i pochissimi esponenti occidentali a comprendere le dinamiche che hanno originato la crisi.   «Il presidente Trump… è l’unico tra tutti i leader occidentali che, subito dopo il suo arrivo alla Casa Bianca nel gennaio di quest’anno, ha iniziato a dimostrare di aver compreso le ragioni per cui la guerra in Ucraina era stata inevitabile», ha dichiarato.   Lavrov ha proseguito sottolineando che Trump possiede una «chiara comprensione» delle dinamiche che hanno forgiato le politiche ostili nei confronti della Russia da parte dell’Occidente e dell’ex presidente statunitense Joe Biden, strategie che, a suo dire, «erano state coltivate per molti anni».

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Il ministro ha indicato che «si sta avvicinando il culmine dell’intera saga» ucraina, affermando che Trump ha sostanzialmente ammesso che «le cause profonde identificate dalla Russia devono essere eliminate».   Il vertice della diplomazia russa ha menzionato in modo specifico le storiche riserve di Mosca sull’aspirazione ucraina all’adesione alla NATO e la persistente violazione dei diritti della popolazione locale.   Lavrov ha poi precisato che Trump resta «l’unico leader occidentale a cui stanno a cuore i diritti umani in questa situazione», contrapposto ai governi dell’UE che, secondo Mosca, evadono il tema. Ha svelato che la roadmap statunitense per un’intesa includeva esplicitamente la tutela dei diritti delle minoranze etniche e delle libertà religiose in Ucraina, «in linea con gli obblighi internazionali».   Tuttavia, sempre secondo Lavrov, tali clausole sono state indebolite nel momento in cui il documento è stato sottoposto all’UE: il testo è stato modificato per indicare che l’Ucraina dovrebbe attenersi agli standard «adottati nell’Unione Europea».   Da tempo Mosca denuncia la soppressione della lingua e della cultura russa da parte di Kiev, oltre ai sforzi per limitare i diritti delle altre minoranze nazionali, e al contempo accusa i leader ucraini di fomentare apertamente il neonazismo nel paese.

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Immagine dell’Ufficio stampa della Duma di Stato della Federazione Russa via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
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Geopolitica

Gli europei sotto shock per la strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti per il 2025

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I leader europei e i media dell’establishment sono in preda al panico dopo la diffusione, sul portale ufficiale della Casa Bianca, della «Strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America 2025» (NSS).

 

A terrorizzare Bruxelles e dintorni è l’impegno esplicito del governo USA a privilegiare «Coltivare la resistenza all’attuale traiettoria dell’Europa all’interno delle nazioni europee», descritta in termini aspri ma realistici. Il report si scaglia in particolare contro l’approccio dell’UE alla Russia.

 

L’NSS ammonisce che il Vecchio Continente rischia la «cancellazione della civiltà» se non invertirà la rotta imposta dall’Unione Europea e da altre entità sovranazionali. La «mancanza di fiducia in se stessa» del Continente emerge con evidenza nelle interazioni con Mosca. Gli alleati europei detengono un netto primato in termini di hard power rispetto alla Russia in quasi tutti i campi, salvo l’arsenale nucleare.

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Dopo l’invasione russa in Ucraina, i rapporti europei con Mosca sono drasticamente deteriorati e numerosi europei vedono nella Federazione Russa una minaccia esistenziale. Gestire le relazioni transatlantiche con la Russia esigerà un impegno diplomatico massiccio da Washington, sia per reinstaurare un equilibrio strategico in Eurasia sia per scongiurare frizioni tra Mosca e gli Stati europei.

 

«È un interesse fondamentale degli Stati Uniti negoziare una rapida cessazione delle ostilità in Ucraina, al fine di stabilizzare le economie europee, prevenire un’escalation o un’espansione indesiderata della guerra e ristabilire la stabilità strategica con la Russia, nonché per consentire la ricostruzione post-ostilità dell’Ucraina, consentendole di sopravvivere come Stato vitale».

 

Il conflitto ucraino ha paradossalmente accresciuto la vulnerabilità esterna dell’Europa, specie della Germania. Oggi, le multinazionali chimiche tedesche stanno erigendo in Cina alcuni dei più imponenti complessi di raffinazione globale, sfruttando gas russo che non possono più procurarsi sul suolo patrio.

 

L’esecutivo Trump si scontra con i burocrati europei che coltivano illusioni irrealistiche sul prosieguo della guerra, appollaiati su coalizioni parlamentari fragili, molte delle quali calpestano i pilastri della democrazia per imbavagliare i dissidenti. Una vasta maggioranza di europei anela alla pace, ma tale aspirazione non si riflette nelle scelte politiche, in gran parte ostacolate dal sabotaggio dei meccanismi democratici perpetrato da quegli stessi governi. Per quanto allarmati siano i continentali, l’establishment britannico lo è ancor di più.

 

Ruth Deyermond, docente al dipartimento di Studi della Guerra del King’s College London e specialista in dinamiche USA-Russia, ha commentato su X che il testo segna «l’enorme cambiamento nella politica statunitense nei confronti della Russia, visibile nella nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale – il più grande cambiamento dal crollo dell’URSS». Mosca appare citata appena dieci volte nel corposo documento, nota Deyermond, e prevalentemente per evidenziare le fragilità europee.

 

In un passaggio esemplare, il report afferma che «questa mancanza di fiducia in se stessa è più evidente nelle relazioni dell’Europa con la Russia». «L’assenza della Russia dalla Strategia di Sicurezza Nazionale 2025 appare davvero strana, sia perché la Russia è ovviamente uno degli stati che hanno l’impatto più significativo sulla stabilità globale al momento, sia perché l’amministrazione è così chiaramente interessata alla Russia (…) Non è solo la mancanza di riferimenti alla Russia a essere sorprendente, è il fatto che la Russia non venga mai menzionata come avversario o minaccia» scrive l’accademica.«La mancanza di discussione sulla Russia, nonostante la sua importanza per la sicurezza e l’ordine internazionale e la sua… importanza per l’amministrazione Trump, fa sembrare che stiano semplicemente aspettando di poter parlare in modo più positivo delle relazioni in futuro».

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La parte dedicata al dossier ucraino – che allude al fatto che «l’amministrazione Trump si trova in contrasto con i politici europei che nutrono aspettative irrealistiche per la guerra» – pare quasi redatta dal Cremlino. L’incipit della Deyermond è lapidario: «Se qualcuno in Europa si aggrappa ancora all’idea che l’amministrazione Trump non sia inamovibile filo-russa e ostile alle istituzioni e ai valori occidentali, dovrebbe leggere la Strategia per la Sicurezza Nazionale del 2025 e ripensarci».

 

Il NSS dedica scarsa attenzione alla NATO, se non per insistere sulla cessazione della sua espansione indefinita, ma stando ad un articolo Reuters del 5 dicembre, Washington intende che l’Europa rilevi entro il 2027 la gran parte delle competenze di difesa convenzionale dell’Alleanza, dall’intelligence ai missili. Questa scadenza «irrealistica» è stata illustrata questa settimana a diplomatici europei a Washington dal team del Pentagono incaricato della politica atlantica, secondo cinque fonti «a conoscenza della discussione».

 

Nel corso dell’incontro, i vertici del Dipartimento della Difesa avrebbero espresso insoddisfazione per i passi avanti europei nel potenziare le proprie dotazioni difensive dopo l’«invasione estesa» russa in Ucraina del 2022. Gli esponenti USA hanno avvisato i loro omologhi che, in caso di mancato rispetto del termine del 2027, gli Stati Uniti potrebbero sospendere la propria adesione a certi meccanismi di coordinamento difensivo NATO, hanno riferito le fonti. Le capacità convenzionali comprendono asset non nucleari, da truppe ad armamenti, e i funzionari non hanno chiarito come misurare i progressi europei nell’assunzione della quota preponderante del carico, precisa Reuters.

 

Non è dato sapere se il limite temporale del 2027 rifletta la linea ufficiale dell’amministrazione Trump o meri orientamenti di singoli addetti del Pentagono. Diversi rappresentanti europei hanno replicato che un tale orizzonte non è fattibile, a prescindere dai criteri di valutazione di Washington, dal momento che il Vecchio Continente necessita di risorse finanziarie aggiuntive e di una volontà politica più marcata per rimpiazzare alcune dotazioni americane nel breve periodo.

 

Tra le difficoltà, i partner NATO affrontano slittamenti nella fabbricazione degli equipaggiamenti che intendono acquisire. Sebbene i funzionari USA abbiano sollecitato l’Europa a procacciarsi più hardware di produzione statunitense, taluni dei sistemi difensivi e armi made in USA più cruciali imporrebbero anni per la consegna, anche se commissionati oggi.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

 

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