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Cina

Davos, possibile anteprima del discorso del presidente cinese Xi Jinping: la difesa della globalizzazione

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Un articolo della testata in lingua inglese legata al Partito Comunista Cinese Global Times fornisce un’anteprima delle osservazioni di Xi Jinping, che saranno fatte lunedì alla sessione virtuale del Forum economico mondiale di Davos Agenda 2022.

 

Come riportato da Renovatio 21, l’evento anche quest’anno avverrà in modalità virtuale.

 

«Su invito di Klaus Schwab, fondatore e presidente esecutivo del World Economic Forum, Xi parteciperà all’evento lunedì, ha annunciato venerdì il portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying» scrive il Global Times.

 

«Su invito di Klaus Schwab, fondatore e presidente esecutivo del World Economic Forum, Xi parteciperà all’evento lunedì»

«Gli osservatori hanno affermato che poiché il mondo è ancora una volta al bivio per affrontare il COVID-19, la Cina, con i suoi contributi alla prevenzione globale del COVID-19 e allo sviluppo economico stabile, potrebbe offrire approcci e saggezza cinesi non solo nella ripresa, ma anche nella resistenza all’erosione del protezionismo e dell’unilateralismo» scrive il giornale del PCC riguardo al discorso che Xi terrà in collegamento video.

 

Il giornale non fa menzione del lockdown draconiano che in questi giorni ha colpito la megalopoli di Xi’an e Tianjin, a poche ore dall’inizio delle Olimpiadi invernali della vicina Pechino. Nulla viene detto dei blackout che hanno colpito il Paese impensierendo gli investitori occidentali, né viene detto alcunché dei messaggi pubblici ai cittadini cinesi affinché preparino scorte per l’inverno.

 

Tuttavia, largo spazio è dato alla geopolitica vaccinale del Dragone. Alla fine di novembre, ci viene detto, la Cina aveva fornito circa 180 milioni di dosi dei suoi vaccini COVID alle nazioni africane. Un totale di 2 miliardi di dosi sono state promesse per il 2022.

 

Sul fronte economico, si prevede che la Cina rappresenterà oltre il 26% della crescita economica globale nel 2022. C’è sostanza quindi per vantare che «nel 2022 per la Cina il FMI prevede una crescita del PIL del 5,6% , superiore alla crescita media del 4,9%».

 

Quindi, la reiterazione del modello che ha permesso la crescita del potere cinese, cioè delocalizzazione della produzione per le imprese occidentali: «per rafforzare la sua economia, una Cina aperta offre importanti opportunità storiche alle aziende di tutto il mondo per condividere i dividendi dello sviluppo cinese».

 

L’articolo prosegue dichiarando che un decoupling tra USA e Cina non è auspicabile: «le società e gli investimenti americani continuano ad affluire nel mercato cinese, il che dimostra che la tendenza alla globalizzazione economica è irreversibile e la politica di “disaccoppiamento” del governo degli Stati Uniti è controproducente, hanno affermato gli osservatori del mercato».

«La tendenza anti-globalizzazione nei Paesi sviluppati è dilagante, ma la Cina sta diventando un’importante forza trainante per l’apertura del mercato e la globalizzazione economica»

 

«La tendenza anti-globalizzazione nei Paesi sviluppati è dilagante, ma la Cina sta diventando un’importante forza trainante per l’apertura del mercato e la globalizzazione economica» scrive Global Times citando un ricercatore dell’Istituto cinese per la Riforma Economica. «Il mondo deve resistere al protezionismo commerciale e sbarazzarsi della guerra fredda e del pensiero anti-globalizzazione, al fine di creare condizioni migliori per la ripresa».

 

La difesa a spada tratta della globalizzazione da parte del Partito Comunista Cinese non sorprende nessuno: è grazie ad essa che la Cina ha potuto assurgere al ruolo di superpotenza – commerciale, politica, militare.

 

Basta ricordare l’edizione del World Economic Forum di Davos del 2017, a pochi giorni da quello che per i globalisti è stato shock del secolo, e cioè l’elezione alla Casa Bianca di Donald J. Trump. Xi fu accolto, dai politici e dai banchieri, dai mega-industriali e dai loro giornali, come un salvatore – il salvatore della globalizzazione. Memorabile e onestissimo il titolo che da noi fece il giornale di Confindustria: «Xi Jinping a Davos difende la globalizzazione».

 

La difesa a spada tratta della globalizzazione da parte del Partito Comunista Cinese non sorprende nessuno: è grazie ad essa che la Cina ha potuto assurgere al ruolo di superpotenza – commerciale, politica, militare

La globalizzazione è cinese o non è. La globalizzazione, di fatto, è sinizzazione: coincide con l’ingresso del gigante orientale in ogni nostra attività. Storicamente, coincide con l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) che fu avviata ai tempi del cosiddetto «Ulivo mondiale» (Clinton, Blair, Prodi).

 

La globalizzazione cinese è coincisa con l’ascesa della dottrina di politica economica neoliberista, divenuta dogma inattaccabile, tanto che i suoi nemici vengono chiamati con espressioni dispregiative come «sovranisti» e «populisti», parole di sapore costituzionale incredibilmente divenute insulti.

 

Il risultato della globalizzazione cinese è stato la cancellazione della manifattura nei Paesi occidentali, e la conseguente distruzione della classe media.

 

Il risultato della globalizzazione cinese è stato la cancellazione della manifattura nei Paesi occidentali, e la conseguente distruzione della classe media

Questo è avvenuto grazie al tradimento della classe dirigente – politici, industriali, intellettuali – di ogni Paese occidentale, che nemmeno ora, con la rovina economica espansasi anche alle altre classi sociali, non mette in discussione il modello neoliberale della globalizzazione cinese.

 

La storia non è però finita. Xi tiene duro, nonostante il virus di Wuhan. Sa che i vertici occidentali lo vogliono ancora assecondare, blandire – hanno voglia di sottomettersi.

 

Tuttavia, non è scritto da nessuna parte che le cose continueranno in questo senso.

 

 

 

 

 

Immagine di World Economic Forum via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-NC-SA 2.0)

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Cina

Cinesi uccisi al confine tra Tagikistan e Afghanistan: Pechino evacua il personale

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Dopo due attacchi che hanno causato cinque morti e cinque feriti, l’ambasciata di Pechino a Dushanbe ha ordinato l’evacuazione dalle zone di frontiera. Il governo del Tagikistan e i talebani hanno affermato che collaboreranno mentre crescono i timori che dietro gli attacchi (non ancora rivendicati) ci siano i combattenti del Partito islamico del Turkestan (TIP). L’instabilità minaccia la cooperazione regionale e i progetti cinesi della Belt and Road Initiative.

 

L’ambasciata cinese a Dushanbe ha esortato le aziende e il personale cinese ad abbandonare tutte le aree al confine con l’Afghanistan in seguito a due attacchi in cui cinque cinesi sono stati uccisi e altri cinque sono rimasti feriti. Le autorità del Tagikistan hanno riferito che nel primo attacco, avvenuto venerdì scorso, sono morti tre cittadini cinesi. Domenica, in un secondo assalto al confine, ne sono stati uccisi due.

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Le forze di sicurezza sono in stato di massima allerta, mentre i talebani hanno riferito hanno riferito di aver arrestato due sospettati nel distretto di Maimay, nel Badakhshan, la regione al confine con il Tagikistan. Nessun gruppo armato ha finora rivendicato gli attentati. Il ministro degli Esteri talebano, in una telefonata all’omologo tagiko, ha attribuito la colpa a persone «che cercano di creare disordine, instabilità e sfiducia tra i Paesi della regione», aggiungendo che il governo talebano «è pronto alla condivisione di informazioni, alla collaborazione tecnica e alle valutazioni congiunte per identificare i responsabili dell’accaduto».

 

Il Tagikistan in realtà ha da tempo rapporti diplomatici tesi con l’Afghanistan, nonostante viva nel Paese un’importante minoranza tagika (storicamente contraria al governo dei talebani, che sono perlopiù di etnia pashtun). In passato il presidente Emomali Rahmon, che ha condannato gli attentati e rafforzato la sicurezza lungo le frontiere, aveva già denunciato la presenza di trafficanti di droga e contrabbandieri d’oro lungo la frontiera. Le forze tagike avevano anche condotto una serie di operazioni militari fino ad arrivare a scontrarsi con le forze di frontiera afghane ad agosto.

 

Forse Pechino immaginava che prima o poi nella regione sarebbero riprese le attività terroristiche: circa una settimana fa il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, aveva incontrato Rahmon a Dushanbe per discutere dei crescenti rischi alla sicurezza provenienti dall’Afghanistan.

 

La Cina negli ultimi anni è diventata uno dei maggiori investitori dell’ex Repubblica sovietica, dove i lavoratori cinesi sono coinvolti soprattutto in progetti minerari e di costruzione. Tutti i Paesi dell’Asia centrale stanno in realtà cercando di espandere il commercio e la cooperazione con Kabul nonostante le continue sfide alla sicurezza. Si tratta di un processo che va a sua volta inserito in una cornice più ampia: negli ultimi mesi il Pakistan ha più volte attaccato l’Afghanistan a causa del sostegno di Kabul ai talebani pakistani (TTP), che puntano a ricreare uno Stato su modello dell’Emirato islamico anche in Pakistan.

 

Islamabad sta continuando a espellere rifugiati afghani nel tentativo di esercitare ulteriori pressioni su Kabul mentre i valichi di frontiera sono chiusi da oltre 50 giorni, generando perdite per circa 200 milioni di dollari, secondo le stime. Anche per questo l’Afghanistan sta cercando di approfondire i rapporti commerciali con gli Stati dell’Asia centrale.

 

Da parte sua, invece, Pechino è da tempo preoccupata dell’ascesa di alcuni gruppi terroristici in Asia centrale dopo la riconquista talebana del 2021, che ha galvanizzato diverse organizzazioni che sfruttano i confini porosi della regione per spostarsi. Proprio per questo a settembre si è tenuta la prima esercitazione congiunta della China-Central Asia Special Police Skills Challenge. Ottanta agenti d’élite provenienti da Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan si sono sfidati in una sorta di competizione che aveva però lo scopo di costruire solide partnership nella lotta al terrorismo e alle attività criminali transfrontaliere. L’esercitazione è svolta a Urumqi, nella regione dello Xinjiang, un’area nota per la repressione che Pechino compie contro la minoranza uigura.

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A destare particolare preoccupazione è il Partito islamico del Turkestan (noto internazionalmente con la sigla TIP). Lo scorso anno, il capo del movimento, Abdul Haq Turkistani (di base in Afghanistan), poco prima del rovesciamento in Siria dell’ex dittatore Bashar al-Assad, aveva avvertito: «I miscredenti cinesi riceveranno presto lo stesso trattamento che hanno ricevuto i miscredenti in Siria, se Dio vuole». Il TIP era infatti molto attivo in Siria E non è un caso che nell’ultimo anno Pechino abbia espresso preoccupazione riguardo l’inserimento di migliaia di combattenti uiguri nell’esercito siriano.

 

Diversi analisti avevano da tempo predetto che il TIP stesse aspettando il momento giusto per ritornare in Xinjiang e rilanciare una campagna separatista. Tuttavia, le strade e le frontiere cinesi che portano alla provincia autonoma restano impenetrabili, per cui è probabile che i diversi miliziani si siano posizionati tra Afghanistan, Uzbekistan e Tagikistan dove si trovano campi di addestramento gestiti dai talebani. Da qui la posizione è ideale per colpire i progetti della Belt and Road Initiative cinese.

 

Se il TIP dovesse rivendicare l’attacco, Kabul – che, isolata internazionalmente, sta cercando di accaparrarsi parte degli investimenti cinesi – si troverebbe in una situazione complessa rischiando (come avvenuto con il Pakistan) di perdere opportunità di sviluppo economico a causa dei gruppi armati ospiti sul suo territorio e lungo i suoi confini.

 

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Cina

Prima vendita di armi a Taiwan sotto Trump

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Il dipartimento della Difesa statunitense ha reso noto di aver autorizzato la prima cessione di armamenti a Taiwan dall’insediamento del presidente Donald Trump a gennaio. Pechino, che rivendica l’isola autonoma come porzione del proprio territorio, ha tacciato l’iniziativa come un attentato alla sua sovranità.   Il contratto in esame prevede che Taipei investa 330 milioni di dollari per acquisire ricambi destinati agli aeromobili di produzione americana in dotazione, come indicato giovedì in un comunicato del Dipartimento della Difesa degli USA.   Tale approvvigionamento dovrebbe consentire a Formosa di «preservare l’operatività della propria squadriglia di F-16, C-130» e altri velivoli, come precisato nel documento.   La portavoce dell’ufficio presidenziale taiwanese, Karen Kuo, ha salutato la decisione con favore, definendola «un pilastro essenziale per la pace e la stabilità nell’area indo-pacifica» e sottolineando il rafforzamento del sodalizio di sicurezza tra Taiwan e Stati Uniti.   Secondo il ministero della Difesa di Taipei, l’erogazione dei componenti aeronautici americani «diverrà operativa» entro trenta giorni.

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Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Lin Jian, ha espresso in un briefing il «profondo rammarico e l’opposizione» di Pechino alle forniture belliche USA a Taiwano, che – a suo dire – contrastano con gli interessi di sicurezza nazionali cinesi e «inviano un messaggio fuorviante alle frange separatiste pro-indipendenza taiwanesi».   La vicenda di Taiwan costituisce «la linea rossa imprescindibile nei rapporti sino-americani», ha ammonito Lin.   Formalmente, Washington aderisce alla politica della «Cina unica», sostenendo che Taiwan – che esercita de facto l’autogoverno dal 1949 senza mai proclamare esplicitamente la separazione da Pechino – rappresenti un’inalienabile componente della nazione.   Ciononostante, gli USA intrattengono scambi con le autorità di Taipei e si sono impegnati a tutelarla militarmente in caso di scontro con la madrepatria.   La Cina ha reiterato che aspira a una «riunificazione pacifica» con Taiwan, ma non ha escluso il ricorso alle armi se l’isola dichiarasse formalmente l’indipendenza.   A settembre, il Washington Post aveva rivelato che Trump aveva bloccato un’intesa sulle armi da 400 milioni di dollari con Taipei in vista del suo colloquio con l’omologo Xi Jinpingo.   Come riportato da Renovatio 21, all’inizio del mese, in un’intervista al programma CBS 60 Minutes, Trump aveva riferito che i dialoghi con Xi, tenutisi a fine ottobre in Corea del Sud, si sono concentrati sul commercio, mentre la questione taiwanese «non è stata toccata».   In settimana la neopremier nipponica Sanae Takaichi aveva suscitato le ire di Pechino parlando di un impegno delle Forze di Autodifesa di Tokyo in caso di invasione di Taiwano.

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Cina

Apple elimina le app di incontri gay dal mercato cinese

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Le principali app di incontri gay in Cina, Blued e Finka, sono state eliminate dall’Apple Store locale su ordine dell’autorità di regolamentazione internet di Pechino. Lo riporta Wired. Nel contesto è tuttavia utile ricordare che sino a qualche anno fa la Cina controllava l’app di incontri gay più diffusa al mondo.

 

Lanciata nel 2012, Blued è la più grande app di incontri gay in Cina, che in passato contava oltre 60 milioni di utenti nel mondo, prima che i controlli statali più rigidi ne riducessero la portata globale. Finka, concorrente più recente e popolare tra i giovani, è diventata una delle piattaforme LGBT in più rapida crescita in Cina grazie alle funzioni di social networking e all’interfaccia in stile gaming.

 

Secondo Wired, Apple ha rimosso entrambe le app dal suo App Store cinese su disposizione della Cyberspace Administration of China (CAC), che supervisiona i contenuti online e la sicurezza dei dati.

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L’articolo della rivista statunitense non specifica quando o perché sia stato emesso l’ordine, ma utenti dei social cinesi hanno notato la scomparsa delle app dagli store online durante il fine settimana. Le app, secondo quanto riferito, restano funzionanti per gli utenti esistenti, ma non sono più scaricabili per nuovi utenti.

 

Apple ha confermato la rimozione in una dichiarazione rilasciata lunedì.

 

«Rispettiamo le leggi dei Paesi in cui operiamo. In base a un ordine del CAC, abbiamo rimosso queste due app solo dallo store cinese», ha dichiarato un portavoce di Apple in un’e-mail alla testata. L’azienda ha aggiunto che entrambe le app erano già state ritirate da altri mercati. Né Blued né Finka hanno risposto alle richieste di commento.

 

La Cina ha depenalizzato l’omosessualità negli anni ’90, ma continua a vietare il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Sotto la presidenza di Xi Jinping, le autorità hanno intensificato gli sforzi per promuovere i valori familiari tradizionali e contrastare quella che definiscono «influenza occidentale». La campagna mira ad aumentare i tassi di natalità, rafforzare i ruoli di genere e scoraggiare stili di vita ritenuti incompatibili con i valori tradizionali. Gli attivisti LGBTQ+ cinesi affermano che la campagna ha alimentato censura e sorveglianza, con la chiusura di molti gruppi gay, il divieto di eventi Pride, la rimozione di contenuti omosessuali dai media e lo scioglimento di associazioni universitarie.

 

La maggior parte delle app di incontri LGBT è già bloccata in Cina. Grindr, con sede negli Stati Uniti, è stata rimossa dall’App Store cinese di Apple nel 2022 dopo l’inasprimento delle norme sulla sicurezza informatica e sulla privacy dei dati, che impongono l’archiviazione locale dei dati degli utenti. ZANK, un tempo tra le principali app di incontri gay in Cina, è stata chiusa nel 2017 per «diffusione di contenuti pornografici».

 

Renovatio 21 ha spesse volte parlato di Grindr, l’applicazione usata dalla comunità omosessuale. La possibilità che i suoi dati fossero usati per fini di ricatto verso migliaia (milioni…) di persone con lavori sensibili per il governo spinse Trump, allora presidente, a chiedere ai cinesi, che l’avevano comprata, di averla indietro. I cinesi, incredibilmente, obbedirono, ma non è chiaro se possano essersi sbarazzati dei dati.

 

Grindr, che ad un certo punto pareva potesse essere comperata dall’apparentemente inarrestabile azienda italiana Bending Spoons, già coinvolta nell’app governativa di tracciamento COVID «Immuni» e partecipata da grandi famiglie del capitalismo nazionale, sarebbe subentrata anche in alcuni scandali che riguardavano la politica e pure il mondo religioso.

 

Renovatio 21 ha ipotizzato che parte del rapporto tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, sbocciata negli accordi sino-vaticani, potrebbe essere dovuta al kompromat da Grindr che i comunisti cinesi detengono su tanti consacrati segretamente omosessuali.

 

Su Grindr infatti si dice che siano presenti quantità massive di sacerdoti. Il fatto è tornato alla ribalta di recente con il caso di un sacerdote USA, noto per le posizioni intransigenti verso lo sdoganamento cattolico di Sodoma, beccato sulla piattaforma. Ma anche in Italia sarebbero stati trovati consacrati di un certo spessore. Di uno in particolare, scriveva il Giornale, che raccoglieva il sussurro di Dagospia: «nella sua seconda vita si dava alle droghe (ecstasy, ma anche crack, Ghb e chetamina) e alla conquista di amanti (rigorosamente di sesso maschile) su Grindr». Una storia con parole che sembrano riemergere anche ora.

 

L’uso intensivo della app di incontri gay da parte perfino dei seminaristi è raccontato da un recente libro del sociologo Marco Marzano, La casta dei casti.

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Nata a Los Angeles nel 2009, Grindr per un periodo finì nelle mani dei cinesi, che acquistarono la società. Nel 2016 la società aveva venduto una quota del 60% nella società per 93 di dollari milioni a un gruppo di sviluppo di videogiochi cinese, Kunlun Tech Co.

 

L’acquisizione di una tale massa di dati sensibili non passò inosservata. Nel 2019 governo Trump chiese alla Cina di farla tornare in mano americana, perché i servizi USA paventavano che le informazioni contenute in quella app mettessero a rischio la sicurezza nazionale: quante persone, nell’esercito e nella pubblica amministrazione, nel governo e nelle grandi aziende, potevano essere ricattate? Quanti funzionari, generali, ministri, soldati, uomini delle pulizie hanno una doppia vita e quindi possono essere manipolati?

 

I cinesi, piuttosto incredibilmente, accettarono l’ordine di Trump. Il gruppo Kunlun cercò un compratore per liberarsi dell’applicazione. Nel marzo 2020, Kunlun annunciò che avrebbe venduto la sua quota del 98,59% in Grindr alla San Vicente Acquisition LLC con sede negli Stati Uniti per 608,5 milioni di dollari. Il lead investor, Raymond Zage, viene dall’Illinois ma ha base ora a Singapore – un luogo dove gli interessi della Cina Popolare non sono sconosciuti.

 

All’altezza del 2018, Grindr indicava perfino se l’utente fosse sieropositivo o meno: la feature venne ritirata, perché i giornali sinceri e democratici rabbrividirono per mancanza di privacy sanitaria (cosa che adesso fa ridere…), senza capire che probabilmente dietro a questa nuova spunta poteva schiudersi il mondo dei bugchasers e dei giftgivers, coloro che volontariamente contagiano o si fanno contagiare con l’HIV.

 

Da Grindr deriva Tinder, la app di incontri usata dagli eterosessuali: anche quella è sicuramente stata causa di migliaia di disastri famigliari, perché può esporre la doppia vita di «cacciatore» di appuntamenti di un coniuge. Tuttavia Tinder, nonostante la disperazione che produce la promiscuità della hook-up culture («cultura del rimorchio») che ha generato, non è stato in grado di impensierire i servizi di Intelligence USA. Grindr, invece, sì.

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