Geopolitica
Birmania, sparizioni forzate di civili nello Stato Karen
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Un rapporto pubblicato da un gruppo di difesa dei diritti umani locale ha messo in evidenza come i militari si siano macchiati di tale crimine negli ultimi due anni. Ma anche le milizie pro-democrazia hanno torturato e ucciso persone accusate di essere spie o informatori della giunta golpista. Nel frattempo l’offensiva nel nord del Myanmar avanza mettendo in difficoltà l’esercito.
La giunta militare birmana che a febbraio 2021 ha condotto un colpo di Stato, negli ultimi due anni ha sistematicamente utilizzato come mezzo di intimidazione le sparizioni forzate contro la popolazione del Myanmar sud-orientale. A dirlo è un rapporto pubblicato ieri dal Karen Human Rights Group (KHRG), secondo cui questo tipo di «crimini contro l’umanità sono in aumento, con conseguenze devastanti per le comunità locali», impaurite e sfollate, in un contesto che riceve «poca attenzione internazionale».
Il documento indaga in particolar modo sui crimini commessi nello Stato Karen. I militari della giunta – che oltre due anni fa hanno spodestato il governo guidato dalla leader Aung San Suu Kyi dando avvio a un brutale conflitto civile – hanno preso di mira gli abitanti dei villaggi, accusati di far parte della resistenza politica al regime e a volte utilizzati come scudi umani, e i civili che hanno infranto la legge marziale.
Anche le milizie pro-democrazia, sottolinea inoltre il rapporto, si sono macchiate di questo crimine nello Stato Karen.
In ogni caso, però, è soprattutto il Consiglio di Amministrazione Statale (SAC), l’organo che i militari golpisti hanno creato in sostituzione del precedente governo, a compiere questi crimini in totale impunità, svela il rapporto basatosi su decine di interviste a vittime e familiari.
Il principale target del regime sono i giovani tra i 15 e i 25 anni, continua il documento, accusati di essere dissidenti o di far parte del Movimento di disobbedienza civile nato all’indomani del golpe per contrastare la presa di potere da parte dell’esercito. Le persone vengono prelevate dalle loro case oppure mentre si trovano nei campi a lavorare, quando passano i posti di blocchi oppure se si trovano in giro dopo il coprifuoco imposto in alcune aree del Paese dalla giunta.
Nel contesto del conflitto civile, le milizie che combattono contro l’esercito birmano (o che non sono schierate con nessuna delle due parti) compiono sparizioni forzate accusante le vittime di essere spie o informatori, e spesso commettono anche torture ed uccisioni extragiudiziali.
Tutti questi episodi, spiega ancora il rapporto, sono ampiamente sottostimati, perché la maggior parte degli abitanti preferisce non parlarne nel timore di ritorsioni.
L’impatto emotivo dell’esperienza grava infatti sulla vittima in primis, ma anche sulla sua famiglia e la sua comunità: «i bisogni di tutta la comunità sono fortemente condizionati dall’insicurezza generata dopo le sparizioni, causando sfollamenti, all’interno e oltre il confine», si legge nel report, soprattutto perché si tratta di crimini che restano impuniti.
In assenza di sostegno formale, è sempre la comunità a prendersi cura delle vittime: «vicini e gli abitanti locali rispondono ai bisogni immediati delle famiglie degli scomparsi. Forniscono conforto emotivo, aiutano a localizzare gli scomparsi o a trovare informazioni, pregano per le vittime e forniscono supporto pratico se necessario».
Nel frattempo continua l’avanzata delle milizie etniche partite dallo Stato Shan e che nei giorni scorsi ha raggiunto anche il Sagaing. La resistenza locale ha preso il controllo anche di alcune città al confine con l’India, dopo aver riconquistato la regione di Kokang al confine con la Cina, uno sviluppo inaspettato nella guerra, che potrebbe, secondo alcuni esperti, portare a un cambiamento nella postura di Pechino verso il regime birmano.
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Immagine di Christopher Michel via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic
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Trump: Zelens’kyj deve essere «realista»
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Geopolitica
Gli Stati Uniti sequestrano una petroliera al largo delle coste del Venezuela
Il procuratore generale statunitense Pam Bondi ha annunciato il sequestro di una petroliera sospettata di trasportare greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran.
L’operazione, condotta al largo delle coste venezuelane, si inserisce in un’escalation delle attività militari americane nella regione, unitamente a raid contro quelle che Washington qualifica come imbarcazioni legate ai cartelli della droga.
«Oggi, l’FBI, la Homeland Security Investigations e la Guardia costiera degli Stati Uniti, con il supporto del Dipartimento della Difesa, hanno eseguito un mandato di sequestro per una petroliera utilizzata per trasportare petrolio greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran», ha scritto Bondi su X mercoledì.
Ha precisato che la nave era stata sanzionata «a causa del suo coinvolgimento in una rete di trasporto illecito di petrolio a sostegno di organizzazioni terroristiche straniere».
Nel video diffuso da Bondi si vedono agenti delle forze dell’ordine, pesantemente armati, calarsi dall’elicottero sulla tolda della nave. Secondo il portale di tracciamento MarineTraffic e vari media, l’imbarcazione è stata identificata come «The Skipper», che batteva bandiera della Guyana. Fonti come ABC News riportano che la petroliera, con una capacità fino a 2 milioni di barili di greggio, era diretta a Cuba.
Today, the Federal Bureau of Investigation, Homeland Security Investigations, and the United States Coast Guard, with support from the Department of War, executed a seizure warrant for a crude oil tanker used to transport sanctioned oil from Venezuela and Iran. For multiple… pic.twitter.com/dNr0oAGl5x
— Attorney General Pamela Bondi (@AGPamBondi) December 10, 2025
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Gli Stati Uniti avevano sanzionato la The Skipper già nel 2022, accusandola di aver contrabbandato petrolio a beneficio del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniana e del gruppo militante libanese Hezbollah.
Un gruppo di parlamentari statunitensi ha di recente sollecitato un’inchiesta sugli attacchi condotti su oltre 20 imbarcazioni da settembre, ipotizzando che possano configurare crimini di guerra.
Il senatore democratico Chris Coons, intervistato martedì su MSNBC, ha accusato Trump di «trascinarci come sonnambuli verso una guerra con il Venezuela». Ha argomentato che l’obiettivo reale del presidente sia l’accesso alle risorse petrolifere e minerarie del paese sudamericano.
Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha rigettato le affermazioni di Trump sul presunto ruolo del suo governo nel narcotraffico, ammonendo Washington contro l’avvio di «una guerra folle».
Il Venezuela ha denunciato gli Stati Uniti per pirateria di Stato dopo che la Guardia costiera americana, coadiuvata da altre forze federali, ha abbordato e sequestrato una petroliera sanzionata nel Mar dei Caraibi.
Caracas ha reagito con durezza, definendo l’intervento «un furto manifesto e un atto di pirateria internazionale» finalizzato a sottrarre le risorse energetiche del Paese.
«L’obiettivo di Washington è sempre stato quello di mettere le mani sul nostro petrolio, nell’ambito di un piano deliberato di saccheggio delle nostre ricchezze», ha dichiarato il ministro degli Esteri Yvan Gil.
Il governo venezuelano ha condannato gli «arroganti abusi imperiali» degli Stati Uniti e ha giurato di difendere «con assoluta determinazione la sovranità, le risorse naturali e la dignità nazionale».
Da anni Caracas considera le sanzioni americane illegittime e contrarie al diritto internazionale. Il presidente Nicolas Maduro le ha definite parte del tentativo di Donald Trump di rovesciarlo e ha respinto come infondate le accuse di legami con i narcos, avvertendo che qualsiasi escalation militare condurrebbe a «una guerra folle».
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Immagine screenshot da Twitter
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