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Politica

Bangkok alla prova dei nuovi verdetti sulla famiglia Shinawatra

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il 22 agosto il verdetto su Thaksin, il 29 quello sulla premier «sospesa» Paetongtarn nell’ennesimo confronto coi militari in un Paese dove resta altissima la tensione con Phnom Penh. Un nuovo capitolo della lunga crisi di un Paese che non riesce a voltare pagina e accentua così il suo declino.

 

La Thailandia si avvia a vivere giorni e forse settimane complicati di cui ancora una volta la famiglia Shinawatra sarà al centro. Dove non sono riusciti i colpi di stato e un ventennio di iniziative contrarie al suo controllo del Paese, peraltro attraverso partiti ampiamente vincitori sul piano elettorale, potrebbero arrivare le sentenze dei giudici.

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Per il 22 agosto è attesa la sentenza di un tribunale penale per Thaksin Shinawatra, ex premier, dal 2008 in esilio volontario ma incentivato da mandati di cattura in patria, rientrato due anni fa e amnistiato dal sovrano con l’impegno di restare fuori dal gioco politico-istituzionale e poi accusato di lesa maestà in base all’articolo 112 del codice penale. Un’«arma legale» potente e difficile da contrastare, utilizzata negli ultimi anni anche per silenziare quanti chiedono di riformare l’istituzione monarchica e l’uscita definitiva dei militari dalla gestione del Paese.

 

Il 29 agosto ad essere giudicata sarà poi la figlia minore, Paetongtarn Shinawatra, sospesa il 1 luglio dalla carica di capo del governo dalla Corte costituzionale per avere tenuto un atteggiamento improprio durante la crisi fra Thailandia e Cambogia – peraltro non ancora risolta e che ha avuto come conseguenza un rigurgito di nazionalismo da entrambe le parti.

 

La 38enne Shinawatra è caduta in una trappola ordita dall’ «uomo forte» della Cambogia, l’ex premier e ora presidente del Senato Hun Sen. In passato un alleato di Thaksin e partner in affari degli Shinawatra, Hun Sen ha registrato e diffuso la conversazione telefonica in cui, parlando della crisi tra i due Paesi iniziata alla fine dello scorso maggio, il 15 giugno la giovane premier aveva espresso critiche verso il comportamento del comandante della Seconda armata thailandese responsabile delle aree confinarie coinvolte negli scontri. Una dichiarazione che in Thailandia ha sollevato lo sdegno dei nazionalisti e dell’opposizione che in Parlamento hanno chiesto l’intervento della Corte.

 

Le motivazioni sono diverse, ma in entrambi i casi si tratta del risultato di manovre per cercare ancora una volta di chiudere la partita con una dinastia politica protagonista della scena politica thailandese dal 2001 e di un duro braccio di ferro con le élite tradizionali del Paese e le forze armate che ne sono garanti.

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Finora quasi tutte le affermazioni elettorali delle varie espressioni politiche degli Shinawatra o di loro fedelissimi sono state vanificate da iniziative giudiziarie, ribaltoni parlamentari o colpi di stato e nel gioco degli interessi contrapposti a perderci è stata le democrazia, che si è limitata al solo aspetto del voto, lasciando poi il Paese pressato tra paternalismo e nazionalismo da un lato, populismo e nepotismo dall’altra. Con la corruzione sempre a livelli elevati. Entrambe le parti impegnate a parole a perseguire la «via thai» al progresso ma in realtà garantendosi controllo su popolazione e risorse mentre il Paese è andato perdendo la sua spinta produttiva, occupazionale e di ammodernamento di cui dagli anni Settanta del XX secolo aveva goduto per la stabilità complessiva spesso imposta manu militari.

 

Oggi la seconda economia del Sud-Est asiatico vede la sua posizione minacciata da altri, a partire dall’arrembante Vietnam, ma soprattutto è avvolta in una crisi che nessuno sembra in grado (o interessato) a risolvere. Tutte le parti – esclusa forse quella progressista di Move Forward, vincitrice delle due ultime elezioni alla quale atti discutibili in Parlamento e nelle aule giudiziarie di massimo livello hanno impedito di essere messa alla prova del governo – continuano a puntare sulle pratiche più opportune e disinvolte che consentano loro di contenere le necessità e aspettative della popolazione, ammodernando la facciata del Paese con una crescente accettazione di investimenti e strutture straniere, soprattutto cinesi, che hanno contropartite forse non adeguatamente valutate.

 

In questo contesto un esautoramento degli Shinawatra dal potere, difficilmente accolto supinamente e da molti visto come persecutorio, potrebbe attivare una crisi ancora più.

 

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Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Immagine di APEC 2013 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
 

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Politica

Il dipartimento di Stato di Trump dichiara che aborti, eutanasia e interventi chirurgici per transgender sono «violazioni dei diritti umani»

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Secondo il Dipartimento di Stato, le autorità federali considereranno la soppressione deliberata di infanti innocenti non ancora venuti al mondo, unitamente alle lesioni chirurgiche e farmacologiche subite da fanciulli, quali infrazioni ai diritti umani.   Il portavoce Tommy Pigott ha rivelato al Daily Signal che le nazioni beneficiarie di assistenza estera dovranno incorporare «le mutilazioni su minori» nei loro resoconti annuali diretti agli Usa.   «Negli ultimi anni, nuove e deleterie ideologie hanno garantito spazio a infrazioni dei diritti umani», ha dichiarato il Pigott. «L’amministrazione Trump non tollererà che tali abusi, come le mutilazioni infantili, normative che ledono la libertà di espressione e consuetudini lavorative improntate a discriminazioni razziali, restino impuniti. Il nostro messaggio è: stop».   Le condotte di «discriminazione razziale» comprendono il privilegiare aspiranti di etnia non caucasica per impieghi o altre prerogative, prassi sovente denominata «azione positiva». I dossier sui diritti umani costituiscono un obbligo consueto per gli Stati che attingono a fondi pubblici americani.   «Il dipartimento di Stato sottopone al Congresso i Rapporti sui diritti umani riguardanti ogni nazione ricevente aiuti e tutti gli aderenti alle Nazioni Unite, in ossequio al Foreign Assistance Act del 1961 e al Trade Act del 1974», scrive il Daily Signal.

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Fra le ulteriori trasgressioni ai diritti umani da vigilare spiccano le penalizzazioni per presunti «discorsi d’odio», l’appoggio all’immigrazione di massa in altre terre, «imposizioni a individui di abbracciare l’eutanasia», «offese alla libertà di culto, ivi inclusa violenza e molestie antiebraiche», nonché il favore a «prove coattive, espianti di organi forzati e manipolazioni genetiche eugenetiche su embrioni umani».   L’attribuzione della mutilazione genitale minorile a una problematica transnazionale dei diritti umani rappresenta l’ultima indicazione incoraggiante di un possibile declino nel respaldo all’ideologia di genere. Crescono le evidenze che attestano la dannosità dei rimedi e degli interventi per transgender. Inoltre, gli specialisti in biologia hanno sancito l’impossibilità di mutare il sesso biologico.   La categorizzazione degli aborti, inclusi quelli indotti da farmaci, come infrazioni ai diritti umani da parte dell’amministrazione Trump costituisce altresì un indizio della possibile contrarietà del presidente e del suo entourage all’eliminazione degli esseri umani nel ventre materno.   Ciononostante, il dipartimento della Salute e dei Servizi Umani (HHS) ha incassato rimproveri da esponenti pro-vita, come il senatore Josh Hawley, per aver avallato un nuovo preparato abortivo.  

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Generale della Guinea-Bissau giura come nuovo leader dopo il colpo di Stato

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Le forze armate della Guinea-Bissau hanno designato un generale come capo provvisorio della nazione, in scia all’espulsione del presidente Umaro Sissoco Embalo, perpetrata mediante un golpe che i vertici regionali hanno stigmatizzato come un «tentativo manifesto» di sabotare il cammino democratico.

 

Mercoledì, gli esponenti militari hanno proclamato di aver assunto il «controllo assoluto» sulla repubblica dell’Africa occidentale, bloccando ogni apparato governativo e sigillando i confini alla vigilia della diffusione, da parte della commissione elettorale, degli esiti delle contestate consultazioni presidenziali di domenica.

 

«Ho appena giurato per dirigere l’Alto Comando», ha annunciato il generale Horta Nta Na Man al termine del rito solenne celebrato giovedì nella sede centrale dell’esercito, secondo quanto riportato dall’AFP.

 

Un’alleanza di osservatori dell’Unione Africana (UA), della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) e del Forum degli anziani dell’Africa occidentale ha affermato mercoledì che le urne si sono chiuse in maniera «regolare e serena», rammentando che i due contendenti principali per la carica presidenziale avevano assunto l’impegno di riconoscere l’esito.

 

«Rimproveriamo questo evidente sforzo di ostacolare il meccanismo democratico e i progressi conseguiti finora», hanno tuonato i responsabili delle delegazioni in un comunicato unificato diramato mercoledì sera. Hanno biasimato la cattura di figure di spicco, inclusi coloro che vigilavano sul scrutinio, e ne hanno caldeggiato la scarcerazione istantanea per consentire la prosecuzione del iter elettorale.

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Embalo, insediato dal 2020, ambiva a un’insolita seconda legislatura consecutiva, dopo aver smantellato l’assemblea due volte e procrastinato le votazioni inizialmente fissate al 2024: azioni che hanno suscitato rimproveri per presunto declino democratico e un contenzioso sul tetto dei mandati. Il fronte principale dell’opposizione, il Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde capeggiato da Simoes Pereira, è stato estromesso dalla competizione, spingendolo a fare il tifo per il rivale di punta di Embalo, Fernando Dias.

 

Tanto Embalo quanto Dias avevano anticipatamente proclamato il trionfo. Embalo ha poi confidato ai corrispondenti francesi di essere stato fermato dal comandante supremo delle truppe, mentre Dias e Pereira sarebbero finiti pure loro in manette.

 

Stando al suo addetto stampa, il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha manifestato «grave inquietudine» per lo scenario e ha esortato ogni attore a esercitare prudenza.

 

 

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Sia il presidente che il rivale rivendicano la vittoria elettorale in Guinea-Bissau

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La Guinea-Bissau è in attesa di un clima di forte tensione dopo che sia il presidente uscente Umaro Sissoco Embaló sia il suo principale avversario, Fernando Dias, hanno proclamato la vittoria alle elezioni presidenziali di domenica, senza attendere i risultati ufficiali.   Dias ha dichiarato ai media dalla sede della sua campagna nella capitale dell’Africa occidentale, Bissau, che il suo scrutinio parallelo gli attribuiva oltre il 50% dei voti.   «Abbiamo vinto al primo turno. Vorrei congratularmi con il popolo guineano per l’alta affluenza, che dimostra la stanchezza e il desiderio di cambiamento», ha affermato.   Il candidato dell’opposizione ha inoltre avvertito contro «tentativi di manipolazione» nel processo elettorale, assicurando che non tollererà interferenze nello spoglio.   In replica, il portavoce della campagna di Embaló, Oscar Barbosa, ha sostenuto in una conferenza stampa distinta che il presidente in carica aveva già trionfato e che «non ci sarà ballottaggio».

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«Invitiamo gli avversari a evitare annunci che potrebbero screditare il processo elettorale», ha aggiunto.   Queste rivendicazioni contrastanti emergono in un contesto di campagna elettorale agitata in un Paese con una storia di colpi di Stato. Diversi leader dell’opposizione, tra cui Domingos Simões Pereira del PAIGC (Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e Capo Verde, che guidò la decolonizzazione dal Portogallo nel 1974), sono stati esclusi dalla corsa.   Da allora il PAIGC ha appoggiato Dias, 47enne del PRS (Partito per il Rinnovamento Sociale).   Si andrà al secondo turno se nessun candidato supererà il 50% dei suffragi. La Commissione Elettorale Nazionale ha registrato un’affluenza superiore al 65% e prevede di annunciare i risultati provvisori giovedì.   Embaló aspira a essere il primo leader guineano in trent’anni a ottenere la rielezione. Durante il suo primo mandato, iniziato a febbraio 2020, ha fronteggiato vari tentativi di golpe. I critici lo accusano di aver infranto norme costituzionali per perpetuarsi al potere. La sua carica è stata al centro di una dura controversia all’inizio dell’anno, quando l’opposizione ha sostenuto che sarebbe scaduta il 28 febbraio.  

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Immagine di Vice-Presidência da República via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
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