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Terrorismo

Attentato a San Pietroburgo: vogliono ri-cecenizzare la Russia

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Vladlen Tatarski, blogger militare molto noto nella rete russa, è stato assassinato a San Pietroburgo con una bomba che ha distrutto il bistrot dove stava tenendo una presentazione, ferendo, a quanto riportato, almeno 16 persone.

 

In rete circolano vari video, in cui si vede esplodere lo «Street Bar» café, locale in riva alla Neva nel pieno centro dell’antica capitale russa, poco distante dal palazzo dell’Ammiragliato della Marina.

 

Altri video mostrano il classico, orrendo spettacolo di persone ferite e coperte di polvere che escono dal locale disorientate e barcollanti, come mostrava già sessanta anni fa, con estrema precisione e crudeltà, il film anti-europeo La battaglia di Algeri.

 

 

 

Tatarskij era nativo dell’area di Donetsk. Arrestato dalle autorità ucraine, si era unito alle milizie della Repubblica Popolare, divenendo noto come reporter inviato nelle zone di guerra a Donetsk e Lugansk. Aveva scritto diversi libri.

 

In occidente è già partita la macchina della propaganda. «Chi era Vladlen Tatarsky, l’ex ladro ucraino diventato blogger per conto di Mosca» titola Repubblica, giornale che un tempo ospitava inserti russi, ma ora ha come direttore Maurizio Molinari, che, come riportato da Renovatio 21, con Mosca ha una storia di rapporti non semplicissimi: ricorderete la vicenda, al limite della spy-story, montata sulla presenza dei russi in Italia nell’ambito della cooperazione per i primissimi mesi del COVID.

 

Secondo quanto ricostruito, la bomba sarebbe stata contenuta in un premio consegnato a Tatarskij. La modalità fa pensare alla corona di fiori con cui le Tigri Tamil eliminarono il primo ministro indiano Rajiv Gandhi nel 1991.

 

 

I giornali occidentali premono sulla solita pista: hastatoputin. Così come sono i russi che si sarebbero bombardati da soli il Nord Stream 2 (sì: sono riusciti a dirlo, nei giornali e in TV, e a ripeterlo per un po’), anche qui sono stati i russi a bombardarsi un caffè della seconda città di Russia, luogo natale del presidente, rendendo insicura la popolazione. Eccerto: è una bega interna tra l’Esercito e la tremenda Wagner, assicurano.

 

Di pensare che si tratti di un altro attentato riconducibile all’Ucraina, come il ponte sullo stretto di Kerch, non ci pensano nemmeno.

 

E nemmeno riescono a vedere che si tratta, specularmente, di un caso identico a quello di Darja Dugina, la cui responsabilità ucraina è stata ammessa perfino dagli americani, ovviamente dicendo che loro però non ne sapevano niente.

 

Colpiscono i blogger, e dentro al territorio russo. Perché? Perché vogliono far sapere che nessuno è al sicuro, in nessun luogo, e che la guerra non si combatte solo sul campo, ma continua con fatti di sangue in ogni punto del pianeta. Che cos’è questo? Lo sapete, è terrorismo. Puro e semplice.

 

Ora, c’è da considerare che la Russia non è nuova alla faccenda. Perché prima dell’Ucraina, negli alcolici anni Novanta di Eltsin, qualcuno aveva provato a disintegrare la Russia passando da un’altra porta, ma pur sempre utilizzando estremisti.

 

Stiamo parlando della Cecenia. Che cosa accadde? Riassumiamo: separatisti islamici, spinti da chissà chi, avevano preso le armi e pure fondato un loro Stato non riconosciuto, la Repubblica di Ichkeria, poi confluita nell’altrettanto fantomatico Emirato del Caucaso.

 

Il bagno di sangue fu immane. All’epoca non c’era internet, ma alcuni filmati di soldati russi sgozzati circolavano comunque. La depressione della popolazione russa, appena uscita dal comunismo, era totale. Dopo una prima guerra, che non spense le fiamme, Eltsin fece qualcosa che cambiò per sempre la storia russa: mise al potere un funzionario sconosciuto, tale Vladimir Putin.

 

Il risultato fu la rapida stabilizzazione militare e civile della Cecenia. Chi combatteva i russi, come i Kadyrov, ora riuniscono decine di migliaia di combattenti negli stadi (i cosiddetti kadyrovtsy) per cantare «Allah Akbar – viva il presidente Putin». Il comportamento delle truppe cecene in ucraina dello scorso anno dà conto di questa trasformazione.

 

Per anni, però, abbiamo assistito agli effetti della vittoria di Putin in Cecenia. Gli estremisti che rifiutarono la pace con Mosca continuarono con gli attentati, molti dei quali il lettore potrebbe ricordare: le «vedove nere» al teatro Dubrovka nel 2001, le centinaia di bambini trucidati nella scuola Beslan nel 2004. Qualcuno, spingendosi oltre, arriva a dire che anche la strage alla Maratona di Boston, perpetrata da due fratelli di origine cecena, sarebbe collegata al network terrorista caucasico e ai suoi equilibri in cambiamento: la strage bostoniana arrivò a poche settimane dalla morte dell’oligarca in esilio a Londra Boris Berezovskij, arcinemico di Putin che aveva rapporti diretti con i signori della guerra ceceni.

 

Altri attentati si sono consumati in territorio russo senza conseguenze. Tuttavia la gente laggiù ricorda bene quegli anni di paura e di incertezza, quando ogni atto terroristico ti faceva pensare che no, il potere non ti avrebbe protetto. La Russia «cecenizzata», secondo i piani dei signori del mondo, non doveva avere un potere sufficientemente forte, così da potere continuare con il loro business, cioè la predazione dei beni dello Stato e la cancellazione del Cremlino dallo scacchiere geopolitico mondiale.

 

Vladimir Putin è stato l’antidoto a tutto questo. Ha, letteralmente, fermato la questione cecena, combattuto il terrorismo, riportato Mosca al centro della scena mondiale.

 

In una sequenza piuttosto tesa della serie documentaria dedicata a Putin da Oliver Stone, il presidente russo sgancia una rivelazione enorme: dice che gli USA, beccati ad aver contatti con i ceceni, hanno risposto dicendo che erano autorizzati diplomaticamente a parlare con chi volevano. Putin era visibilmente scosso: la Cecenia, per lui che l’aveva vinta come prima missione della sua carriera ai vertici, significava tanto: rischio, dolore.

 

Era chiaro che qualcuno voleva riportare le lancette indietro, ai tempi degli sgozzamenti, delle bombe e delle carneficine nei teatri e nelle scuole.

 

Il lettore capisce che è esattamente quello che sta succedendo ora: qualcuno vuole far regredire la Russia, o quantomeno il sentimento della sua popolazione, a quegli anni. Vuole, letteralmente, terrorizzare.

 

Invece che gli estremisti islamici, abbiamo un altro tipo di estremista: l’ucronazista. Cresciuto, anche lui come il tagliagole maomettano, nella povertà indotta dalla società oligarchica, e pronto a qualsiasi brutalità nel nome dell’ideologia totalizzante. E aiutato, ça va sans dire, da servizi segreti stranieri il cui unico fine pratico è la distruzione della Russia.

 

Qualcuno suggerisce che tra islamisti ceceni antirussi e nazionalisti integristi ucraini ad un certo punto ci sia stato un incontro: dieci anni fa Thierry Meyssan scrisse che «l’8 maggio 2007 a Ternopol (Ucraina occidentale), nazisti baltici, polacchi, ucraini e jihadisti ucraini e russi crearono un cosiddetto “Fronte anti-imperialista” (…) Nel luglio 2013, l’emiro del Caucaso nonché responsabile locale di Al-Qa’ida, Doku Umarov, fece appello ai membri del “Fronte anti-imperialista” affinché andassero a combattere in Siria». Umarov, che alla conferenza inviò un documento scritto, è il quinto presidente dell’Emirato islamico d’Ichkeria e successivamente emiro del Caucaso.

 

La presenza di battaglioni islamici nel fronte anti-russo, taluni pure con mostrine ISIS in bella vista, è qualcosa di cui su Renovatio 21 abbiamo trattato tante volte.

 

Siamo quindi in piena modalità terrorista del conflitto contro la Russia. Questa è, esattamente, l’ulteriore parte del messaggio dell’assassinio di Tartaskij.

 

Stanno dicendo a Mosca che anche se vincerà in Ucraina, dovrà prepararsi, come fu per la Cecenia, al dopoguerra fatto di stragi terroriste. Se riescono a piazzare autobombe contro i blogger nel pieno centro di Mosca, se riescono a disintegrarli dentro un tranquillo caffè di San Pietroburgo, cosa riusciranno a fare domani ai mercati rionali, alle metropolitane, alle discoteche? Ecco: lo stanno dichiarando. Il terrorismo, ricordiamolo, è sempre una forma linguaggio.

 

La cosa riguarda anche noi. Perché, come abbiamo scritto altre volte, è ridicolo pensare che quantità enormi di combattenti ucronazisti non finiranno in Italia. Nel nostro Paese essi hanno non solo la zia badante, ma anche un governo amico, più sottoboschi indicibili che emanano dalle basi americani, e perfino qualche organizzazione fascistoide con cui hanno contatti da anni e anni, oltre, ovviamente, a partiti maggioritari compiacenti.

 

Che faranno in Italia, gli ucronazisti? Potrebbero continuare con i loro traffici, farne degli altri, sostituire qualche mafia – ma sempre ricordando che il fine è quello della lotta ferale contro Mosca, non diversamente dagli irlandesi americani che finanziavano l’IRA utilizzando di fatto gli USA come base logistica e finanziaria delle bombe nei ristoranti di Londra.

 

E come risponderà la Russia? Anche qui, possiamo guardare alla storia. Il 13 febbraio 2004 a Doha una bomba infilata nel suo SUV disintegrava Zemlikhan Yandirbiev, presidente ad interim della Repubblica di Ichkeria rifugiatosi in Qatar. Lo Yandirbiev, secondo l’ONU, era legato ad Al Qaeda. Le autorità qatariote arrestarono diplomatici russi entrandogli in casa, processandoli e – dissero i russi – torturandoli. I rapporti tesi tra Doha e Mosca iniziarono più o meno da là.

 

Scenari del genere potrebbero toccare anche a noi. Se andiamo ancora più indietro, vediamo come lo stesso può essere accaduto con il padre ideologico dell’ucronazismo, Stepan Bandera, eliminato, si ritiene, dal KGB a Monaco di Baviera nel 1959.

 

Ciò significa, terrore e sangue anche da noi – come negli Anni di Piombo, come ai tempi delle bombe nei treni, nelle banche, nelle piazze, nelle stazioni. Eccoci tornati ad essere il campo di battaglia della Guerra Fredda, ripiombati nell’enantiodromia assassina delle potenze globali, un conflitto per il quale non abbiamo nessun interesse – abbiamo interesse, quello sì, ad avere invece buoni rapporti con la Russia.

 

Questo è il futuro al qualche i nostri governi ci stanno consegnando. Gli attentati contro Darja Dugina e Tatarskij sono solo delle anteprime. Ricordando pure questo dato non trascurabile: sono stati assassinati per quello che scrivevano su internet.

 

Ogni persona che ha lasciato traccia delle sue idee in rete – un sito, un blog, un profilo social, un commento – dovrebbe meditare, e forse iniziare a tremare.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Terrorismo

Il sospettato di terrorismo saudita che ha ucciso 6 persone e ne ha ferite centinaia al mercatino di Natale tedesco si scaglia contro le vittime durante il processo

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Giovedì, durante il processo per la strage al mercatino di Natale di Magdeburgo, Taleb al-Abdulmohsen ha inveito contro i testimoni, scatenando sgomento e indignazione tra le vittime, al termine di una serie di giorni contrassegnati da sfoghi deliranti e provocatori. Lo riporta Remix News

 

Mercoledì, le vittime e i sopravvissuti hanno iniziato a deporre, ripercorrendo l’orrore dell’attacco del 20 dicembre 2024. Al-Abdulmohsen, il medico saudita naturalizzato in Germania dal 2006, è imputato di aver volontariamente zigzagato con il suo veicolo attraverso la folla per mietere il maggior numero di vittime possibile, causando sei morti – tra cui un bambino di nove anni – e oltre 300 feriti.

 

L’imputato, tuttavia, sta tentando di insinuare dubbi sulle cause di morte, sostenendo che una delle vittime potrebbe aver soccombuto al coronavirus anziché all’impatto con l’auto.

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Il patologo forense Gerald Brenecke, dell’ospedale universitario di Halle, ha aperto le deposizioni descrivendo le autopsie condotte il 21 dicembre su cinque vittime. La prima, Nadine L., 45 anni, presentava «lesioni gravissime al torace superiore e al cranio». Nondimeno, il medico ha rilevato un preesistente danno cardiaco e concluso che «la donna è deceduta per collasso cardiaco acuto» mentre tentava di sottrarsi al veicolo.

 

Al-Abdulmohsen ha colto l’affermazione al volo per insinuare un nesso con la pandemia, argomentando che il COVID-19 avrebbe reso le persone più vulnerabili a infarti improvvisi.

 

La reazione in aula è stata immediata: uno degli avvocati delle parti civili ha protestato con veemenza. «Mi oppongo a che le vittime debbano subire ulteriori umiliazioni. Oggi, per la prima volta, si parla di loro, e devono sorbirsi le idiozie dell’accusato», ha tuonato.

 

Il giudice ha prontamente interrotto l’imputato, ammonendolo a limitarsi a quesiti mirati. Ciononostante, una richiesta formale per sospendere il diritto di al-Abdulmohsen di interrogare i testimoni è stata rigettata dal collegio giudicante.

 

Il presidente della corte ha chiarito: «Pur se ciò appare o risulta intollerabile per le parti civili, il tribunale non può restringere il diritto dell’imputato a interrogare. Altrimenti, si configurerebbe un vizio di nullità». Ha poi aggiunto: «Voglio scongiurare a ogni costo la ripetizione del processo. Siamo consapevoli del peso psicologico che ciò impone ai querelanti e ai loro cari».

 

Quel 20 dicembre non ha strappato solo vite, ma ha inflitto ferite indelebili a testimoni e superstiti, molti dei quali ancora alle prese con le conseguenze emotive e fisiche.

 

Anne Kathrin H., prima vittima ferita dall’assalitore a comparire in aula, ha deposto con la voce rotta dal pianto: «Ero ansiosa di visitare il mercatino con il mio compagno. Siamo usciti poco dopo le 18». Appena terminata la cena, ha proseguito: «L’auto ci ha travolti. Tenebre ovunque. Al risveglio, mi sono accorta di essere a terra. Passanti mi hanno trascinata dai soccorritori. Lì ho rincontrato mio marito Matthias, in lacrime: “Sei viva, sei viva…”».

 

Anche il coniuge ha riportato lesioni. Entrambi sono stati ricoverati all’ospedale universitario: Anne Kathrin è rimasta assente dal lavoro fino a metà febbraio, mentre il marito «zoppica ancora». L’aggressore, ha concluso la testimone, «ha rubato alla nostra famiglia il senso di protezione e gioia». Attualmente, segue una terapia psicologica e partecipa a un gruppo di supporto.

 

Mario T., altro testimone, ha raccontato con la moglie e amici di aver prestato i primi soccorsi: «Di fronte a noi, un bimbo piccolo da rianimare. Abbiamo soccorso un uomo ferito». Le immagini del mercatino devastato «hanno segnato la famiglia», come riportato da Bild. «Mia moglie combatte ancora le ripercussioni mentali», ha aggiunto. «Non esce più in città, solo casa-lavoro e ritorno».

 

Nello stesso giorno, gli esperti forensi hanno illustrato le autopsie delle altre vittime coinvolte.

 

Eyad I., ex medico siriano di Magdeburgo e addetto allo stand d’ingresso del mercatino, ha testimoniato con l’ausilio di un interprete: «Ero lì quando un boato improvviso mi ha fatto trasalire. Non capivo». Poi ha scorto un giovane gravemente ferito: «La lesione era aperta, vedevo l’osso. Mi ha afferrato». Il ragazzo «perdeva sangue dalle ferite, urlava e non mi mollava». Eyad ha tamponato la piaga fino all’arrivo dei paramedici.

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Nel corso dell’udienza, al-Abdulmohsen ha continuato a gridare, ribellarsi e infuriare, con il microfono spesso silenziato – anche durante domande sulla salute mentale dei testimoni. L’ex psichiatra ha ottenuto la licenza medica nonostante evidenze di frodi sulla sua qualifica professionale, unite a una serie di minacce di morte contro tedeschi, documentate sui social. Si tratta di un clamoroso fallimento delle autorità tedesche, che ignorarono pure gli avvisi di un’agenzia di intelligence saudita sulla pericolosità dell’uomo, reiterati più volte tra il 2023 e il 2024.

 

L’imputato ha proclamato uno sciopero della fame dall’avvio del processo, ma i cronisti di Bild notano che «appare in forma smagliante e chiacchiera vivacemente con i difensori mentre l’aula si riempie, con un ritardo di sette minuti sull’orario previsto». Il giorno precedente, era stato atterrato nella sua teca blindata dopo un’ennesima intemperanza, trascinato a terra dagli ufficiali giudiziari.

 

Il maxi-processo grava sulle casse pubbliche tedesche, ma rappresenta una mera frazione rispetto alla spesa annua per l’immigrazione di massa: almeno 50 miliardi di euro per integrazione, alloggi e sussidi sociali. Tale cifra non include l’esplosione dei costi per sicurezza e forze dell’ordine, gonfiati dalla criminalità legata all’afflusso straniero. In tutta la Germania, pure le misure di protezione per i mercatini natalizi stanno lievitando, scaricando ulteriori oneri su contribuenti e piccoli esercenti.

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Terrorismo

L’afghano della sparatoria di Washington aveva collaborato con la CIA

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Rahmanullah Lakanwal, il presunto responsabile dell’attentato mortale contro due militari della Guardia Nazionale a Washington DC, aveva collaborato con la CIA durante l’occupazione americana dell’Afghanistan.   Mercoledì l’uomo, cittadino afghano, ha aperto il fuoco a bruciapelo contro due appartenenti alla Guardia Nazionale della Virginia Occidentale che stavano effettuando un pattugliamento. Il giorno dopo è deceduta la specialista dell’Esercito Sarah Beckstrom, mentre il sergente maggiore dell’Aeronautica Andrew Wolfe versa ancora in condizioni critiche.   Secondo le autorità, Lakanwal è arrivato negli Stati Uniti nel settembre 2021 grazie a un visto speciale riservato agli afghani a rischio – inclusi quelli che avevano lavorato con le forze occidentali – dopo la riconquista talebana del Paese.

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Giovedì il direttore della CIA John Ratcliffe ha confermato che il sospettato era stato ammesso negli USA «in virtù del suo precedente impiego con il governo statunitense, compresa la CIA, come membro di una forza partner a Kandahar», rapporto terminato subito dopo l’evacuazione caotica dell’agosto 2021.   «Questo individuo – e purtroppo tanti altri come lui – non avrebbe mai dovuto mettere piede qui», ha dichiarato Ratcliffe, facendo eco alle dure critiche del presidente Donald Trump nei confronti del «disastroso» ritiro ordinato dall’amministrazione Biden.   Anche il direttore dell’FBI Kash Patel ha confermato che Lakanwal «manteneva rapporti in Afghanistan con forze alleate» e che tali legami sono attualmente oggetto di indagine.   Il servizio pashto della BBC ha intervistato un ex comandante che aveva operato accanto a Lakanwal: questi lavorava come specialista GPS in un’unità denominata Scorpion Forces, inizialmente sotto il controllo diretto della CIA e poi passata alla Direzione Nazionale per la Sicurezza afghana. Sempre secondo l’ex comandante, Lakanwal contribuì inoltre a proteggere le truppe USA all’aeroporto di Kabul nelle ultime, concitate settimane del ritiro.   Lakanwal ha lasciato Kandahar per Kabul cinque giorni prima dell’ingresso dei talebani nella capitale (agosto 2021) ed è stato evacuato in aereo verso gli Stati Uniti appena sei giorni dopo.

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Terrorismo

Cinquanta bambini fuggono dopo un rapimento di massa in una scuola in Nigeria

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Secondo l’associazione cristiana della Nigeria, almeno 50 dei oltre 300 bambini rapiti venerdì da una scuola cattolica nella regione centro-settentrionale del Paese sono riusciti a fuggire dai loro sequestratori.

 

Gli studenti, tra i 10 e i 18 anni, sono tornati dalle famiglie tra venerdì e sabato, ha annunciato domenica la Christian Association of Nigeria (CAN) in una nota ufficiale.

 

Sabato la polizia nigeriana aveva riferito che banditi armati avevano assaltato la St. Mary’s Catholic Primary and Secondary School a Papiri, nello Stato del Niger, intorno alle 2:00 ora locale di venerdì, rapendo «un numero ancora indefinito di alunni dall’ostello scolastico».

 

La CAN ha tuttavia precisato che gli assalitori hanno sequestrato in totale 315 persone: 303 studenti e 12 insegnanti. Al momento, 253 ragazzi e tutti i docenti restano prigionieri.

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«Oltre ai 50 fuggiti e tornati a casa, ne abbiamo 141 che non sono stati portati via», ha dichiarato domenica il presidente della CAN dello Stato del Niger, il reverendo Bulus Yohanna. La polizia ha avviato un’operazione congiunta di ricerca e soccorso coordinata dall’esercito.

 

L’episodio supera i 276 studenti rapiti nel 2014 a Chibok da Boko Haram e si inserisce in una catena di aggressioni a scuole e chiese.

 

Pochi giorni prima, 25 studentesse erano state sequestrate in un collegio a Maga, nello Stato di Kebbi, con due morti tra il personale. La scorsa settimana, due fedeli sono stati uccisi in un attacco alla Chiesa Apostolica di Cristo a Eruku, nello Stato di Kwara; le autorità locali hanno annunciato domenica il salvataggio di 38 ostaggi.

 

Il governo ha ordinato la chiusura temporanea delle scuole nelle aree colpite.

 

Questi assalti seguono le denunce di politici USA su presunti attacchi mirati ai cristiani da parte di ribelli islamici, con il presidente Donald Trump che ha minacciato un intervento militare se Abuja non proteggerà le comunità cristiane. Il governo nigeriano respinge l’etichetta di «genocidio religioso», insistendo che la violenza colpisce tutte le fedi.

 

Domenica Papa Leone XIV ha espresso «profondo dolore» per i sequestri e ha invocato il «rilascio immediato degli ostaggi», esortando le autorità a «intervenire con prontezza e adeguatezza» per garantire la loro liberazione.

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